LA FOLGORE NEL 1945 SUL MONCENISIO
2 Aug 2001
Autore: G.LARDINELLI

5 Aprile 1945. Un'alba livida schiariva il cielo delle Alpi Occidentali nella zona del Moncenisio. Babacci ed io, ultimato il turno di sentinella, venivamo rilevati dalla postazione da due commilitoni e rientravamo in una baracchetta di legno definita impropriamente "bunker". Ci eravamo appena sdraiati sulle tavole del pavimento per riposare un po' quando il silenzio che avvolgeva le montagne veniva bruscamente interrotto da alcune cannonate. Pensavamo fosse qualche colpo di disturbo, ci eravamo abituati e non ci facemmo gran caso. Nei minuti successivi, però, i colpi si intensificarono fino a che una grandinata di proiettili martellava con cinica precisione tutta la zona del fronte che si potesse abbracciare con lo sguardo. Alcune bombe facevano schizzare verso l'alto lapilli di fuoco che ricadevano al suolo come inverosimile cascata luminosa. Pensavamo trattarsi di granate al fosforo. Il veneziano Luise, mitragliere della squadra, osservava con espressione sbigottita dalla finestrella del bunker, il cui vetro si era spaccato per le vibrazioni conseguenti agli scoppi, lo scenario da inferno dantesco nel quale venivamo coinvolti. Gli sfuggì, con spontanea ingenuità , un commento: "ostrega! par de esser al Redentor", la grande festa Veneziana che culmina con spettacolari fuochi d'artificio. Ma non si trattava di una festa. Dopo circa quaranta minuti le artiglierie allungarono il tiro. Era evidente trattarsi della preparazione che preludeva un attacco. Quasi contemporaneamente le sentinelle, con un rudimentale ma efficace marchingegno costituito da un campanaccio fissato all'interno del bunker e collegato con un lungo cavetto al posto di guardia, davano l'allarme. Il caporal maggiore Casadei, romagnolo, che comandava la squadra, ci ordinò di occupare le postazioni che ci erano state precedentemente assegnate. Lui sarebbe andato a rilevare le sentinelle, troppo isolate, perche raggiungessero anch'esse i loro posti di combattimento.
Casadei era un camerata leale e generoso ma possedeva un carattere paragonabile ad un cactus. Era sempre rude e scontroso e non chiedeva ne voleva favori da nessuno. Rimasi quindi molto sorpreso quando, nel separarci, mi chiese in prestito l'elmetto che avrei sostituito con il suo. Forse aveva un presentimento. Su di esso, infatti, sia pure in modo del tutto scanzonato, si era intessuta la leggenda di procurare invulnerabilità al suo possessore da quando, in un precedente scontro a fuoco, mi aveva salvato la vita deviando una pallottola giunta inclinata ma che avrebbe trapassato il cranio. Ne portava le tracce consistenti in un'accentuata scanalatura striata di piombo. lo comunque ne ero molto geloso ma, pensando al grande rischio che Casadei stava per affrontare da solo, non ebbi il coraggio di negargli il favore. Molto più tardi quando ci ritrovammo all'Ospedale di Torino dove eravamo stati ricoverati per le ferite riportate in quella battaglia seppi, e me ne rallegrai, che il mio mitico elmetto aveva salvato la vita anche a lui. Infatti, raggiunte le sentinelle che non si erano mosse dalla loro posizione e stavano sparando su un gruppo di avversari che le attaccava, coprendole con il fuoco del suo mitra, ordinò loro di attestarsi sulle rispettive postazioni molto più adatte alla difesa. Mentre le sentinelle si "sfilavano", un isolato colpo di mortaio gli esplose vicino ed una scheggia lo raggiunse spaccando l'elmetto e ferendolo gravemente alla testa, ma proprio la robustezza del copricapo aveva evitato il peggio. Quell' elmetto aveva salvato due vite. Mentre cadeva fu raggiunto da una raffica che gli spaccò l'arma fra le mani, ferendolo di striscio, ed inoltre fu investito al volto da minute schegge, provocate da bombe a mano che la truppa d'assalto nemica, ormai a brevissima distanza, gli aveva lanciato contro. Poco dopo gli passarono accanto. Lo ritennero morto e non era difficile crederlo, tutto coperto di sangue ed immobile come era. *********SEGUE***********


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