FUGA DAI CAMPI DI PRIGIONIA "FASCIST CRIMINAL CAMP" ITALIANI
29 Nov 2001
Autore: raccolta a cura di Gian Battista Colombo ,di pezzi di autori vari citati nei singoli capitoli

Da S.Marco

SAN ROSSORE: 339° POW CAMP

Una cronaca e due testimonianze di reduci della San Marco


Lo spirito che animò gli uomini di San Marco, e tutti coloro che si schierarono con la Repubblica Sociale Italiana, non fu spezzato dalla sconfitta dell'aprile '45, e li sostenne, orgogliosi dei loro ideali, nei campi di prigionia militari, nelle carceri e per molti di loro, fino davanti ai carnefici che ne fecero strage. In memoria di quanti soffrirono la durezza dei campi di concentramento, e di quanti vi trovarono anche la morte. SAN MARCO ha pubblicato due anni fa  in edizione integrale i sei numeri de "Il Megafono", giornale murale interamente scritto ed illustrato a mano nel Campo PO.W 337 L/5 di Coltano da prigionieri di guerra per i loro camerati. Questo volume meglio di qualsiasi discorso illustra l'animo con cui venne affrontata quella prova. In esso appare chiara la volontà  di non rinnegare nulla del proprio passato e contemporaneamente quella di prepararsi ad affrontare nel modo migliore, una volta tornati alla vita civile, il mondo che li attendeva oltre i reticolati. Pensiamo di fare cosa gradita ai lettori che ancora non lo abbiano richiesto, nel ricordare che è ancora possibile avere copie del volume sia nell'edizione normale a lire sessantamila che in quella numerata a lire centoventimila. In realtà  per molti Coltano non fu il primo campo di prigionia. Molti trascorsero un primo periodo nel Campo di San Rossore. Alla rievocazione di quei giorni sono dedicati gli scritti che qui di seguito vi presentiamo. La diversa origine ne giustifica il diverso tono e la diversa lunghezza. Un articolo il pezzo di Davide Del Giudice. brani di un libro di memorie quello di Sergio Moro, frammenti di una lettera il contributo di Saverio Rizzi. Li unisce la dirittura delle coscienze, la semplicità  e lo spirito indomito.



San Rossore 1945/1/998

di Davide Del Giudice

All'interno del parco naturale di San Rossore, già  tenuta reale dei Savoia ed in seguito tenuta presidenziale, nel 1941 gli americani allestirono un grande campo di prigionia denominato "POW Camp n° 339".

In realtà  non si trattava di un solo campo. ma di diversi settori della grande tenuta che vennero disboscati e disseminati di baracche e tende. Prima dei prigionieri italiani della RSI e dei tedeschi, vi avevano trovato alloggio le varie divisioni alleate in addestramento o a riposo dal fronte. I prigionieri arrivarono qui nel 1945 e quasi tutti i soldati repubblicani vi soggiornarono prima di essere inviati nei campi di Coltano. A San Rossore vissero la prigionia anche molti volontari dei paesi dell'Est Europa arruolatisi nella Wermacht.

I soldati repubblicani, e tra di essi molti uomini della SAN MARCO, non stettero troppo male a San Rossore, perché il cibo era sufficiente (razioni da combattimento USA in pacchi di cartone), e il dormire sulla soffice sabbia non era proibitivo nelle miti notti di maggio. La dura prigionia di Coltano sarebbe venuta di li a breve. Gli italiani, in ogni modo, approfittando delle manchevolezze dei servizi di guardia dei soldati di colore della 92a Divisione USA, riuscirono in diversi casi a fuggire, come un ufficiale della "Leonessa" che, afferrato il Garand ad un soldato alleato glielo assestò pesantemente sul capo, fracassandogli il liner dell'elmetto, fuggendo poi in maniera rocambolesca, assieme ad un camerata e vagando per giorni nella tenuta, dormendo nelle tane dei cinghiali, prima di raggiungere l'agognata libertà. Non altrettanto bene andò il tentativo di fuga di due giovanissimi gemelli livornesi già ufficiali della GNR; furono visti allontanarsi dalle sentinelle e falciati senza pietà. Era il 5 maggio 1945. Nei giorni successivi le razioni individuali calarono notevolmente e le sigarette cominciarono a scarseggiare. Il 10 giugno 1945 i prigionieri italiani furono incolonnati a piedi e, passando per Pisa tra gli scherni ed i lazzi della popolazione, raggiunsero i campi 337 e 338 di Coltano: Oggi, dopo 53 anni, solo alcuni spiazzi ancora disboscati e diverse scritte in inglese ormai sbiadite su quelli che furono i muri delle autorimesse, ci ricordano che in questo luogo un tempo c'era un campo di prigionia. Ma la sabbia cela in se ancora preziosi cimeli che il nostro fidato metal detector individua dopo ore di paziente ricerca. Affiorano tra le altre cose un Leone di San Marco con ancora tracce di vernice rossa, ed un gladio da giubba, mute testimonianze d'uomini coraggiosi che in un tempo ormai lontano sacrificarono la loro giovinezza e poi anche la vita in nome degli ideali di Patria e Onore.



Da "Marò a 16 anni"

di Sergio Moro


Provenienti da Alessandria dove abbiamo sostato una sola notte, e diretti a Genova via ferrovia, una volta giunti venimmo sistemati con altre centinaia di soldati della Repubblica Sociale Italiana nel campo sportivo di calcio di Marassi. Nuova perquisizione eseguita dalla polizia militare americana all'ingresso del campo. Mi sequestrano il cucchiaio. Non ho più nulla: fazzoletti, pettine, gavetta mi erano già stati tolti in precedenza dai partigiani.

II Giorno del trasferimento da Alessandria a Genova sono sicuro di non avere ricevuto pasti da parte dei vincitori.

Svegliati all'alba, incolonnati verso l'uscita del campo, dove era in attesa una colonna di camion americani guidati da militari negri, veniamo trasferiti a sud.

A nord era pericoloso sostare, perchè era ancora in corso la liberazione di Grandi città .

Si parte: la meta è Pisa.

Lungo il percorso Versilia ‑ Massa Carrara, veniamo aggrediti da civili, con una fitta sassaiola.

Vengo raggiunto al petto da un grosso sasso che di rimbalzo mi cade sulle ginocchia; mani più leste delle mie lo raccolgono e lo rigettano con violenza verso la parte degli assalitori. La strada ancora dissestata dal furore della guerra, non era ancora sistemata, perciò la colonna dovette rallentare e così incappammo nella sassaiola.

Si prosegue più celermente una volta lasciata la zona disastrata.

Nel pomeriggio si giunge al campo di San Rossore, allora tenuta reale di caccia. In otto soldati prendiamo posto sotto una tenda. Il campo è situato su un terreno sabbioso, meno male perché si dorme a terra, senza coperte. Al mattino presto sveglia, e subito adunata e in riga. A pochi passi dalla mia tenda, verso l'ingresso del nostro recinto vedo due camerati morti. Mi avvicino con altri e riconosco dai gradi e dalla divisa che sono due sottotenenti della Guardia Nazionale repubblicana. La voce che circola è che le guardie hanno sparato perché i due hanno tentato la fuga. Ma se li separavano ancora molti metri dal cancello, perché sparare loro? Comodo dire "Volevano fuggire! " erano caduti riversi in direzione della strada che divide i vari campi, all’interno del campo, e non verso i reticolati all’esterno. Mistero! Non voglio lanciare accuse, ma gli americani bevevano molto, e sparavano per un rumore qualsiasi all’interno del campo.

Del gruppo che occupa la tenda fa parte anche il mio ritrovato sergente, solo pochi giorni prima, con un gesto eroico si addossò una colpa non sua per salvare altri dalla fucilazione. Mi racconta che l'avevano picchiato e gli avevano tolto gli occhiali: era molto depresso.

Finalmente si mangia, vengono distribuite scatole da dieci razioni americane alle quali vengono tolte sigarette, zucchero e, non sembra vero, i tagliaunghie. Le scatole contengono frutta, minestra, verdure disidratate. Basta metterle a bagno in acqua che tutto ritorna a grandezza naturale. Per noi era un'assoluta novità. Quanta roba avevano gli americani!

A fianco avevamo ucraini che avevano aderito all'esercito di Hitler. Erano ancora tutti in divisa della Wermacht, da loro ci divideva una barriera di filo spinato alta tre o quattro metri. Con gli ucraini, attraverso la rete, si barattavano orologi, penne stilografiche, anelli, medaglie, catenine in cambio di pane. Noi buttavamo la merce di scambio oltre la rete, loro la prendevano e sparivano di corsa. E noi a pensare: addio orologio! Invece andavano da qualcuno a farlo visionare e ritornavano con il pane. Erano leali!

Noi eravamo un poco "carognette" conoscendo il destino che li aspettava, lavori forzati a vita e molte fucilazioni perché avevano tradito. Li sfottevamo dicendo "Piccolo padre Stalin zac! Taglia la testa a tutti". Non abbiamo sbagliato, riconsegnati ai sovietici, tutti persero la vita. A loro favore voglio ricordare che erano ucraini invasi dai russi, quindi rivolevano la loro autonomia, che i loro connazionali oggi hanno ritrovato.

Nel recinto di fronte a noi, oltre la strada interna che percorreva tutto il campo, erano prigioniere le Ausiliarie, Corpo femminile in divisa e come noi vincolate da un giuramento. Erano molto compite, orgogliose, disciplinate e forti nel loro disagio. Ma il più eccezionale compagno di prigionia che ci capitò fu un partigiano. Al nostro arrivo a Genova alla Stazione di Porta Brignole, per raggiungere lo stadio di Marassi avevamo dovuto passare tra due ali di folla inferocita. Noi vinti, in silenzio, ma fieri, uniti San Marco con San Marco, Alpini con Alpini, inquadrati, ufficiali in testa, ai quali sono maggiormente rivolti insulti e sputi. Gli Alpini sono in gran numero. Improvvisamente due di loro escono dalle file, sollevano di peso il più agitato di tutti quelli che c'insultavano, alto, magro, giovane, e lo intruppano con loro. Nessuno mi crederà, ma condivise con noi tutto il periodo di prigionia. Ad alcuni di noi anzi insegnò il gioco degli scacchi. Era stato soprannominato da alcuni "Palmiro", da altri "Stella Rossa".

Nei primi giorni di reclusione aveva fatto un gran sbraitare a ridosso del filo spinato che separava noi militari dalle guardie americane, proclamandosi partigiano: nessuno l'ascoltava. Sarebbe stato buon gioco di tutti proclamarsi partigiani, con la speranza di vedersi aperto il cancello della libertà. Si rassegnò, e divise con noi sei mesi di stenti.



Fuga da San Rossore ‑ estratto da una lettera di Saverio Rossi

...dopo Uscio veniamo circondati e catturati dagli americani. La prima notte di prigionia la trascorriamo a Gattorna. Il mattino successivo siamo scortati fino a Lavagna .

Durante il tragitto a piedi, la gente c'inviava tutti gli epiteti possibili, ma noi procedevamo cantando i nostri inni. Non fummo malmenati solo perchè gli americani lo impedirono armi in pugno. Il giorno dopo siamo trasferiti coi camion a San Rossore. Passano quaranta giorni e quaranta notti interminabili. Nessuno può scrivere a casa per avvertire i familiari del nostro destino, e sono in ansia per i miei che ignorano tutto della mia sorte.

Il 10 giugno 1945 radio campo sparge la notizia che saremo trasferiti, chi dice in America, chi al Sud. Tante sono le voci. Il settore in cui ero rinchiuso coi miei camerati era dal lato opposto alla spiaggia. In mezzo vi era la strada interna del campo, oltre la quale vi era un settore ancora vuoto, che a sua volta dava verso la spiaggia. Quel settore vuoto forse era meno sorvegliato? Probabile. Uscire dal campo sembrava quindi una cosa possibile, ma poi? Non potevo certo andare in giro in divisa della San Marco. Io non fumavo, ed avevo accumulato nello zaino parecchi pacchetti di sigarette fin da prima di essere fatto prigioniero. Trovo tra i prigionieri un civile che accetta di darmi il suo vestito in cambio delle sigarette. Non mi spaventano certo i reticolati, né le sentinelle dai musi neri, e in quella notte decido la fuga solitaria. Oltre tutto nessuno mi aveva mai chiesto le generalità, e penso che non sapessero nemmeno bene quanti eravamo. Come avrebbero fatto a riprendermi, una volta che fossi arrivato a casa? Indossati gli abiti civili, dopo la mezzanotte attraverso il viale interno entro nel settore vuoto e giungo ai reticolati. Attendo un po’ di tempo: nessuno si muove. Mi butto fuori e via nella pineta. All'alba sono alla periferia di Pisa. Poi, attraverso l'Appennino, arrivo a Bologna, quindi a Padova: era il 13 giugno. Infine a Bassano del Grappa termina la mia fuga e ritrovo la mia famiglia.



QUINDICI SECONDI PER FUGGIRE
UN TENTATIVO DI FUGA DA SAN ROSSORE, FINITO TRAGICAMENTE,
NEL DRAMMATICO RACCONTO DELL'UNICO SOPRAVVISSUTO


Dopo il racconto dell'evasione del marò Saverio Rizzi pubblicato sul n° 21, riportiamo dal libro "I giorni che contano" di Ulrico Guerrieri, la narrazione della sua evasione.

Un giorno si sparse la voce che presto avrebbero avuto inizio gli interrogatori a tutti i prigionieri. Si sarebbero documentati da quale zona si proveniva, se c'erano eventuali pendenze o denunce a carico, e chi risultava pulito sarebbe stato liberato.

Questa notizia anzichè rallegrare mi allarmò e mi mise in angoscia a tal punto da prendere in seria considerazione l'eventualità  di una fuga. Non avevo fatto niente di cui vergognarmi, ma pensavo che se avessero chiesto di me nella zona dove ero stato, come minimo mi avrebbero impacchettato e mandato a Savona.

Quali garanzie di imparzialità  avrei potuto avere anche ammesso mi avessero concesso un processo? Quanta gente era stata ammazzata per molto meno. Allora mi dissi che, visto e considerato che fino a quel momento la pelle me l'ero salvata, se dovevo rischiare preferivo puntare sulla mia buona stella che fino allora mi aveva protetto, piuttosto di rischiare un processo sommario e certamente non equo. Non volevo compromettere tutto all'ultimo, così decisi di tentare la fuga. Ero in Toscana, vicino a casa mia, in un paese a due passi da Lucca, potevo dire di conoscere la zona, ed una volta riuscito ad evadere dal campo il più era fatto.

II nostro campo era completamente circondato da filo spinato messo ad "organetto" a più strati, oltre il quale ad una certa distanza l'una dall'altra erano poste delle torrette di legno abbastanza alte, sulle quali stavano di guardia i soldati americani. Durante la notte da queste torrette partivano dei fasci di luce che illuminavano a giorno il filo spinato e tutta la zona circostante. Perciò la fuga era molto difficile. Durante un paio di tentativi di fuga fino allora avvenuti un prigioniero era stato scoperto ed ammazzato dai militari neri che ci facevano la guardia, e lasciato in bella mostra un'intera giornata, come lezione per scoraggiare eventuali altri tentativi. All'interno del campo avevamo una certa libertà  di movimento, ma avvicinarsi al recinto anche di giorno era pericoloso. L'infermeria era posta in una zona del campo, completamente indipendente e correva voce che fosse il posto più adatto per chi avesse voluto tentare una fuga.

Mi concentrai al massimo per cercare un pretesto qualsiasi onde poter essere ricoverato, e mi aiutò un piccolo malanno che si era riacutizzato.

Ebbi la sorpresa di trovarci due fratelli gemelli, Luciano e Mario Costagli, livornesi, che avevo conosciuto molto prima quando ero ancora nella G.N.R. Furono gli unici ad essere messi al corrente delle mie intenzioni, e poichè mi confidarono che anche loro aspettavano il momento buono per fuggire: decidemmo che avremmo tentato assieme.

Effettivamente le possibilità  di riuscita erano superiori a quelle di qualsiasi altro posto; i gabinetti dell'infermeria si trovavano isolati rispetto alle baracche, ed erano messi quasi a ridosso dei reticolati. La sera, quando venivano accesi i riflettori, creavano ombra su di essi per un tratto di qualche metro. Inoltre in quel punto, una volta superato il reticolato, con un balzo ci si poteva gettare al riparo del bosco. Sia di giorno che di notte, in varie riprese, nei momenti in cui la sorveglianza era più ridotta, ci demmo da fare per allargare il più possibile dalla nostra parte il reticolato, in modo da rendere il passaggio, almeno all'inizio, il più agibile possibile, ottenendo un certo risultato.

Non ci fu difficile trovare alcuni indumenti civili tra gli stessi prigionieri del campo, perchè molti di loro quando erano stati presi avevano già  abbandonato la divisa, nel vano tentativo di farla franca e tornarsene a casa. Inutile dire che il momento più delicato della fuga era nel superare quel reticolato, perchè di notte c'era una sentinella che andava in continuazione da una torretta all'altra, camminando tra il filo spinato e l'inizio del bosco. La nostra posizione era circa a metà  tra le due torrette e pertanto bisognava sfruttare al massimo il tempo e agire dal momento in cui ci passava davanti fino a che non raggiungeva l'altra torretta, dove faceva dietro front e tornava verso di noi.

Avevamo cronometrato tante e tante volte e sapevamo di avere a disposizione quindici secondi. Ecco perchè era importante che non ci fosse alcun intoppo nel superare il reticolato, il che doveva essere fatto nel tempo massimo di dieci secondi. C'era pure l'altro soldato sopra la torretta, ma quello non ci preoccupava, perchè quasi mai di notte si faceva vedere in piedi a controllare. Senz'altro era una consuetudine che chi faceva la guardia in quel posto se ne stesse sdraiato a dormire. Ricordo quante volte con la mente ho percorso quel piccolo tratto che ci divideva dal bosco nelle due o tre notti che precedettero la fuga. Con gli occhi chiusi vedevo il mio corpo che strisciando sotto il reticolato, si contorceva come una serpe per entrare con minor danno possibile nei vari passaggi.

Concordammo che io sarei stato il primo ad uscire ed i due gemelli mi avrebbero seguito a distanza di qualche minuto, sempre che gliel'avessi fatta. Ci saremmo ritrovati ben dentro nel bosco, dove li avrei aspettati, per poi proseguire assieme. Avevo tutto programmato, anche quando fossi entrato nel bosco. Sapevo che di fronte a noi, ad ovest, c'era il mare, e che l'Aurelia ad est lo costeggiava. Se andavo verso il mare e poi mi dirigevo a destra di novanta gradi e ancora a destra sempre di novanta gradi, non potevo mancare l'Aurelia. Una volta vi fossi giunto sarei andato a Lucca dai miei parenti, scartando a priori l'idea di tornare al mio paese. Naturalmente non sapevo che nel frattempo anche i miei genitori si erano trasferiti a Lucca.

Passare attraverso quel reticolato per me fu un affare di qualche secondo; ormai conoscevo a memoria tutti i punti accessibili, e lo feci strisciando e tenendo gli occhi chiusi, come avevo fatto tante volte con la mente, seguendo i movimenti del mio stesso corpo. Anche se mi graffiai in più parti, mi trovai presto dall'altra parte e sempre strisciando raggiunsi il bosco. Solo allora mi alzai in piedi e, stando bene attento a non fare rumore, mi allontanai correndo. Con la coda dell'occhio avevo dato una sbirciata alla sentinella che era passata davanti proveniente dalla mia destra, e la vidi di spalle e ancora non si era voltata. Corsi per un bel tratto con quanto fiato avevo in gola per porre più distanza possibile tra me ed il campo, sempre diritto verso il mare, come avevamo concordato con i gemelli, e solo quando avvertii un certo affanno mi fermai per aspettarli. Il silenzio che regnava intorno non lasciava dubbio alcuno che la mia fuga non era stata scoperta. Già  pensavo che da un momento all'altro sarebbero sopraggiunti gli altri due, quando udii degli spari provenienti dal campo. Mi resi conto che erano stati scoperti, e che attenderli sarebbe stata pura follia.

In seguito venni a sapere (almeno così mi fu riferito) che mentre tentavano la fuga erano stati scoperti, ripresi ed uccisi dalle guardie di colore; non ne fui meravigliato, perchè era accaduto anche in precedenza che se uno fuggendo veniva scoperto e si fermava all'alt, veniva ugualmente eliminato.

Nel bosco non avevo alcun punto di riferimento e per orientarmi seguivo l'obiettivo che mi ero prefisso, andare a destra e poi ancora a destra, ma era un ragionamento troppo semplicistico. Non avevo pensato ai vari ostacoli che avrei potuto incontrare e che mi avrebbero obbligato a fare larghi giri; ad un certo momento non ebbi più la certezza di essere nella direzione giusta. A mie spese capivo quanto fosse difficile orientarsi in un bosco di notte. Mi trovai in uno spiazzo pieno di buche, e quando lo ebbi attraversato, inciampai in un cartello sul quale a malapena riuscii a decifrare la scritta "mines". Avevo attraversato un campo minato, magari ripulito solo alcuni giorni prima, e fortuna che chi aveva eseguito quel lavoro era stato scrupoloso. Poco dopo incontrai un terrapieno al di là  del quale scorsi delle baracche poco illuminate e udii pure delle voci. Era un piccolo accampamento che forse fungeva da dormitorio per i militari che si avvicendavano alla guardia del nostro campo. Fu un continuo girovagare e cominciavo ad avere seri dubbi di trovare il bando della matassa che mi permettesse di venirne fuori, quando, ed era quasi l'alba, mi ritrovai su una strada in terra battuta, sulla quale erano ben visibili tracce di gomme d'auto. Più che altro era un sentiero abbastanza ampio che doveva servire a collegare i vari accampamenti disseminati nel bosco. Ormai ero certo che seguendolo sarei arrivato all'Aurelia.

Dopo una curva vidi una luce che proveniva dall'interno di una baracca attraverso una porta aperta. Quella luce illuminava un pontile di legno che univa le due sponde di un fossato. Se volevo andare avanti dovevo decidermi, o passare dal retro guadando il fossato che vidi abbastanza ampio e profondo, oppure attraversare il pontile con tutti i rischi del caso. Decisi per quest'ultima soluzione che in quel momento ritenni la più ovvia. Per non fare rumore mi tolsi gli scarponi, l'unica cosa che ancora mi era rimasta di militare e, tenendoli in mano, avanzai con molta cautela.

Sembrava che ancora una volta la sorte mi fosse stata favorevole, il pontile ormai era stato superato, quando una voce mi bloccò; non capii le parole ma il classico rumore della pallottola che viene messa in canna non mi lasciò dubbi. Sotto la minaccia del semiautomatico fui spinto nell'interno, trovandomi in un ambiente piuttosto squallido, con un paio di letti a castello, sui quali erano distesi dei militari per fortuna tutti bianchi. Il soldato che era di guardia e mi aveva bloccato, una volta accertatosi che non fossi armato svegliò uno dei suoi colleghi; parlottarono tra loro in inglese poi quello che senz'altro era un interprete, in un buon italiano mi chiese "come mai ti trovi da queste parti?". Devo confessare che in quel momento la più grossa preoccupazione che avevo erano gli scarponi che ancora tenevo in mano nascosti dietro la schiena. Mi sentivo ridicolo e mentre cominciavo a dare le spiegazioni richieste per giustificare la mia presenza in quel posto, cercando di usare la massima naturalezza, misi le scarpe nella loro sede naturale. Dissi tante belle cose, e soprattutto tante "balle" che, lo capii benissimo, non bevve affatto pur lasciandomi proseguire. Come ebbi finito a sua volta mi disse "non sei per caso scappato dal campo di concentramento?". Con la faccia più meravigliata di questo mondo replicai "perchè da queste parti c'è un campo di concentramento?". "Si" mi rispose "e molto vicino". Pensare che erano ore che giravo e mi trovavo ancora a due passi dal luogo della mia fuga. Continuammo a parlare su questo tono per un poco ed io allora tentai quella che ritenni la mia ultima carta, e gli dissi "Dato che credo di capire che i miei argomenti sono poco credibili e la mia presenza in questo luogo quanto meno strana, prendete la jeep e accompagnatemi a Pisa a casa di mio zio, generale Guerriero Guerrieri". Mi ero ricordato di aver sentito dire un giorno da mio padre che questo suo cugino da Firenze era stato trasferito a Pisa, questo naturalmente prima della mia partenza.

Non so cosa si dissero l'interprete e l'altro soldato, perchè confabularono abbastanza a lungo sempre in inglese, poi il primo senza profferire parola e rivolto a me, fece un gesto di commiato. Non me lo feci ripetere due volte.

Sono certo che quel soldato o interprete che fosse sapeva benissimo da dove provenivo, ma chissà  quale fu la leva che fece scattare quel suo gesto. Anch'io mi ero trovato in certe situazioni, e il mio io si era sempre rifiutato di accettare in quei momenti che una mia decisione e solo quella potesse cambiare in peggio la sorte di un individuo quando ormai i giochi erano fatti. Al campo la mia fuga non era stata scoperta, il soldato che era di guardia non sapeva cosa c'eravamo detti e così spettava solo a lui la decisione.

Arrivai come previsto all'Aurelia, e voltai a sinistra verso Pisa. Era ancora molto presto ed avevo le ali ai piedi. All'altezza di Pisa abbandonai l'Aurelia, imboccai la vecchia via pisana e finalmente dopo qualche ora raggiunsi le mura di Lucca.

Ulrico Guerrieri

TORNA ALL'INDICE
RICORDIAMO I NOSTRI UTENTI CHE DALLA SEGNALAZIONE DI INCORRETTEZZE O ERRORI NELLA BACHECA ALLA CANCELLAZIONE, PER MOTIVI TECNICI, PASSERANNO CIRCA 24 ORE.