CORSARI
6 Feb 2002
Autore: par. EMILIO CAMOZZI

Ci si aspetterebbe che i comandanti di compagnia andassero incontro a noiose difficoltà  per designare i componenti delle varie pattuglie che alla sera avrebbero dovuto ispezionare la terra di nessuno o spingersi sotto le linee nemiche per saggiare le loro intenzioni. Invece all'ora preposta arrivavano al comando le liste dei pattugliatori . Non c'era che la difficoltà  della scelta. Dico difficoltà  perchè il comandante doveva poi sottostare per tutta la sera al rispettoso ma risentito mugugno degli esclusi, che si placava solo con la promessa del prossimo pattugliamento. Comunque il primo era il più ambito, perchè era più facile trovare pattuglie nemiche.L'entusiasmo che spingeva i ragazzi a proporsi non era tanto l'ansia del combattimento, quanto il piacere di fregare gli inglesi o i loro alleati. L'obbiettivo più ambito erano le camionette che accompagnavano il nemico, sempre cariche di ogni ben di Dio. C'erano gallette, biscotti, cioccolate, scatolette di carne ed altre leccornie, ma soprattutto acqua, birra, gin, whisky. Intendiamoci, non è che fosse una cosetta da nulla!. Loro viaggiavano solitamente in quaranta, scortati da jeeps ed autoblindo. I nostri, se tutto andava bene e non ci fosse qualcuno tagliato fuori dall'intercolite o da qualche altro accidente tipo scheggia di ottantotto, erano al massimo in dieci, ufficiale compreso. Quanto ai mezzi meccanici, era meglio scordarseli. Il mezzo più veloce in dotazione ai reparti dei paracadutisti era il volugrafo, antenato della vespa. In quella occasione non sarebbe servito a nulla. Credo poi che la dotazione fosse solo sulla carta, perchè ne io ne gli altri con cui ho parlato l'avevano mai visto. Al rapido imbrunire,la pattuglia partiva.Con le dovute cautele, passava il varco del campo minato.Nella terra di nessuno era già  buio pesto. Anche se non c'era luna, le stelle erano talmente tante e così lucenti per il cielo terso, che un tenue bagliore azzurrastro illuminava il deserto. Si procedeva con estrema cautela, cercando di evitare ogni contatto con il nemico. Si dovevano eseguire gli ordini ricevuti, e ciò andava assolto con la massima precisione, pena l'esclusione da futuri pattugliamenti. Se c'era qualcuno che conosceva la lingua inglese,e solitamente nelle pattuglie si cercava di mettercelo, si spingeva fino a ridosso delle linee, nella speranza di captare qualche interessante notizia fornita dalle conversazioni udite. Gli altri stavano di copertura. Finito il tutto si tornava indietro. E qui cominciava il bello.
Ciò che generalmente succedeva, lo posso raccontare in base alla mia unica esperienza di pattuglia. Nelle alte sfere avevano giustamente pensato che, per avere notizie di prima mano, una pattuglia munita di radio fosse il modo migliore. Oggi questa potrebbe sembrare un'affermazione lapalissiana, ma allora la R.F.1, la più piccola radio in dotazione all'esercito, non era trasportabile. Per i paracadutisti avevano fatto la R.F.1 P, composta da due cofani, uno per le pile e l'altro per l'apparato radio, che si innestavano uno nell'altro.
Un'antenna a ombrello era unita all'apparato. Si aprivano le otto stecche, si sfilava l'antenna per circa tre metri e si era pronti a trasmettere ad una distanza massima di tre chilometri in fonia, cinque in grafia, ossia con i segnali morse.Due spallacci permettevano di mettersi in spalla il tutto, per un peso complessivo di circa trenta chili. Chiesero la mia opinione, e dissi di provare. Fui aggregato ad una pattuglia. Non l'avessi mai fatto! I guai e le conseguenti imprecazioni, cominciarono subito. Al primo "A terra" sussurrato dal capopattuglia, tentai l'atterraggio. I due cofani di legno per una lunghezza di un metro e la larghezza di 50 centimetri incombenti sulla schiena, mi costrinsero ad una musata e relativo contraccolpo sulla spina dorsale. Sussurrai un "ahi!" seguito da qualche irripetibile imprecazione. Imprecava anche l'ufficiale che mi precedeva, perchè nella caduta le pile avevano sbattuto contro la cassa. Bisognava rialzarsi,e non ce la facevo. In due mi presero di peso e mi rimisero in piedi. Decidemmo di portare la radio in due, tenendola per gli spallacci. Era stata costruita per essere lanciata col paracadute ed usata in postazione fissa. Tutta la nostra preparazione non prevedeva che la radio potesse essere usata in pattugliamento. Giunti a destinazione, l'ufficiale mi ordinò di preparare la radio. Eravamo appiattiti nella sabbia. Davanti a noi c'erano le postazioni inglesi. Misi in piedi i due cofani. "Metti giù quella roba", mi ringhiò l'ufficiale. "Non posso trasmettere se non alzo l'antenna". " Quanto è alta l'antenna". "Tre metri". "Tanto fa dire agli inglesi che siamo qui. Lascia perdere la radio per adesso." Fatto tutto ciò che era possibile fare, la pattuglia si accinse al ritorno. Nella speranza di incappare in qualcosa che giustificasse tutte le fatiche fatte fino a quel momento, seguimmo una pista segnata evidentemente da ieeps. Erano segni di ruote netti e non sbavati. Il che indicava una passaggio recente. Giunti presso una duna abbastanza alta, ci fermammo. Il capopattuglia mi ordinò di piazzare la radio e fare il collegamento. Lo fece proprio quando ero in procinto di mandare al diavolo l'ufficiale che mi comandava ed eseguire gli ordini avuti dal mio comando. Immaginavo il colonnello Ruspoli già  in subbuglio nel non ricevere nostre notizie. Le Sue invisibili rabbie erano evidenziate solo da chi lo conosceva bene. Il ritmo delle battute dell'inseparabile frustino da cavalleggero aumentava talmente da rendere precaria la salute del suo polpaccio. Al riparo della duna, piazzai i miei cassoni, alzai finalmente l'antenna e accesi l'apparato. Stavo per cominciare la chiamata in fonia, quando il rumore di motori in avvicinamento indussero il tenente a sussurrami di stare zitto ed abbassare l'antenna. Gli altri si erano intanto piazzati sul crinale della duna assieme all'ufficiale. Li raggiunsi lasciando sola la radio. Sapevo di rischiare la galera, ma una volta tanto volevo divertirmi anch'io.
Le macchine era tre: due jeeps e una autoblindo. Non erano seguite dalla truppa, che doveva essere tutta a bordo. Il capopattuglia assegnò ad ognuno il suo obiettivo. Quando arrivarono sotto la duna, furono investite da una gragnola di bombe a mano che misero fuori uso le armi piazzate e chi le usava. Contemporaneamente ci lanciammo all'assalto. La sorpresa e la veemenza dell'attacco furono tali da frastornare gli inglesi e frenare ogni loro reazione. Uno solo dei nostri si beccò una ferita al braccio. Loro lasciarono sul terreno quattro uomini. Sei si arresero. Il resto si allontanò di gran fretta al riparo dell'autoblindo. Restarono anche le due ieeps, una semifunzionante, l'altra in condizioni un pò disastrate. Caricammo tutto, compreso il ferito, in gran fretta sulla jeep buona. Gli inglesi sarebbero sicuramente ritornati in forze, se non altro per vendicare la batosta ricevuta . Il rientro fu quindi piuttosto frettoloso. Arrivati dietro la linea, fummo circondati dai nostri, più affamati ed assetati che plaudenti. Ad ognuno toccò qualcosa. Il grosso fu diviso fra i partecipanti alla pattuglia. Io chiesi ed ottenni una bottiglia di whisky in più.
Il colonnello mi aspettava. Non sembrava molto contento. La prova della radio era stata un disastro. Avvisai il capo che avrei stillato un rapporto completamente negativo sull'uso delle nostre radio nei pattugliamenti. Avevo in mano la bottiglia di whisky. L'avevo portata per placarlo qualora le cose si fossero messe male. Non sapevo come dargliela. Avevo paura che pensasse che io cercassi di comprare la sua benevolenza. Credo abbia intuito il mio imbarazzo. Mi prese la bottiglia dalle mani e disse:" Questa la requisisco io. Tu sei in servizio ventiquattro ore su ventiquattro, quindi non puoi bere. ... E non sognarti più di andare di pattuglia!". Ritornai così alla mia maledettissima radio, in attesa delle cannonate che mi arrivavano ad intervalli regolari.

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