INTERVISTA A ELENA CACCIA DOMINIONI
18 Oct 2002
Autore: Recensione a cura del par Gianbattista Colombo


Da il Secolo d’Italia: Mercoledì 16 ottobre 2002



Le interviste di Federico Guilia

Elena Caccia Dominioni parla dell'appassionata opera del marito ne restituire degna sepoltura ai nostri soldati

«Giovani non dimenticate El Alamein»

Il sacrificio di tanti ragazzi italiani, una memoria da conservare

SESSANT'ANNI sono passati, ma domenica prossima la memoria volerà nel futuro. A El Alamein, in Egitto, tutto si prepara per una cerimonia che si preannuncia intensa e internazionale. Per l'occasione il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, consegnerà una medaglia d'oro al Valore dell'Esercito alla signora Elena Caccia Dominioni. È un omaggio al marito, Paolo Caccia Dominioni, scomparso giusto dieci anni fa. Fu narratore infaticabile di quella pagina non più strappata di storia italiana, e architetto del sacrario che ospita i resti di quasi cinquemila nostri soldati, «a cui mancò la fortuna, non il valore».

Ma il lettore non si aspetti fiumi di retorica o inni all'eroismo di quei ragazzi che sacrificarono la vita per l'Italia. Questa è solo la storia di un uomo, che ha raccolto le storie di tanti altri uomini. Dalle sabbie un tempo deserte spira oggi un vento non di leggenda, ma di verità. E niente è più forte della verità.

La signora Elena è nata a Torino e ha settantuno anni.

In quale circostanza conobbe suo marito?

In casa di amici. Ma io sapevo chi fosse lui. Avevo già letto il suo libro «Tak Fir», che vuol dire espiazione. Raccontava le vicende del suo battaglione, il 31esimo Battaglione Guastatori. L’ incontravo per la prima volta, ma era come se l'avessi conosciuto da sempre.

In che modo lei fu partecipe della vicenda di El Alamein?

M'ero sempre interessata delle storie militari. Fin da ragazza. Notavo che si parlava troppo poco dei soldati italiani, e spesso soltanto per dirne male. lo stessa conoscevo molto di più le vicende dei tedeschi, che non quelle dei nostri connazionali.

Finché da un certo momento seguirà le orme di suo marito, o no?

Nel settembre del '53, l'anno successivo al nostro incontro, andai in Libia e in Egitto. Ho lavorato con monsignor Nani, il quale faceva in Libia lo stesso lavoro che Paolo conduceva in Egitto: la ricerca delle salme. Con mio marito ci scrivevamo ogni giorno. Insieme, poi, andammo alla ricerca delle salme anche sul canale di Suez, nel campo militare inglese. Erano tutti morti in prigionia, bisognava portarli a El Alamein.

Invece nel deserto che cosa succedeva?

Era diverso. Intanto bisognava sapere dove i vari reparti avevano combattuto. E poi e in questo i beduini erano di grande aiuto si tiravano fuori le ossa dalle tombe. Magari capitava che loro si prendessero i denti d'oro, però indicavano dov'erano le sepolture.

Facciamo un passo indietro: i caduti erano stati sepolti alla bell'e meglio?

Specialmente quelli in battaglia. Erano stati seppelliti lì sul posto. Gli inglesi avevano fatto una prima raccolta insieme con dei prigionieri italiani, che s'erano offerti volontari. Ma l'avevano già conclusa nel '48.

Dunque, lo sforzo di suo marito fu di due generi: prima trovare il luogo della frettolosa sepoltura e poi...?

Sì. Riesumare i corpi e portarli a El Alamein.

Quante furono le salme recuperate?

Migliaia, perché non c'erano solo italiani. Gli inglesi avevano sospeso la ricerca. E così Paolo trovò anche soldati inglesi, tedeschi moltissimi e greci.

Che cosa lo spinse a quest'iniziativa?

Mio marito conosceva bene il corpo diplomatico di allora. Lui stesso, architetto, aveva partecipato al progetto per costruire l'ambasciata di Ankara. All'inizio fu un primo segretario della nostra sede diplomatica a Il Cairo che gli disse: «Caro architetto, perché non va a vedere quel che succede a El Alamein? Gli inglesi adesso ci danno un cimitero, bisogna andare a controllare». In un primo tempo a El Alamein Paolo trascorreva i fine settimana, restando gli altri giorni al Cairo, dove aveva lo studio di architettura. Ma già un anno dopo, si stabilì e rimase lì.

Quanto tempo ha dedicato a El Alamein?

La ricerca delle salme è durata dieci anni.

Qual era la cosa che più lo colpiva di un lavoro tanto pietoso quanto immagino difficilissimo?

L’identificazione delle salme. C'era la piastrina di riconoscimento, certo. Ma mentre i tedeschi l'avevano di ghisa, ovale e tratteggiata a metà, con impresso il numero di matricola, i nostri numeri erano semplicemente scritti. E con le intemperie, la sabbia venivano via. Non solo. Siccome noi siamo anche un po' superstiziosi, molti soldati la buttavano via.

E allora come faceva a risalire all'identità?

Moltissimo con l'aiuto delle famiglie. Sapere esattamente in quali reparti avevano combattuto in determinate zone, era la premessa per cominciare la ricerca. Poi molto spesso, ogni due o tre settimane, Paolo spiegava sulla «Domenica del Corriere» quel che aveva trovato. Con disegni e tutto. Perciò arrivavano segnalazioni dalle famiglie. La corrispondenza era una delle cose più importanti. E una mano veniva pure dall'Associazione famiglie di caduti in guerra, allora coordinata da una signora anziana che viveva a Roma, bravissima, la signora Pocaterra. Con l'aiuto delle socie, che lei stesso sollecitava, siamo arrivati a molti riconoscimenti.

Poiché anche suo marito combatté da quelle parti, avrà trovato molti corpi di commilitoni. Gliene parlava?

Paolo era molto riservato nei sentimenti. Teneva per sé le emozioni. Ma ha trovato, naturalmente, non solo le salme di soldati assieme ai quali aveva combattuto, ma pure di amici carissimi. Penso, per esempio, a Guido Visconti.

Qual è stato l'ostacolo principale di quei dieci anni di ricerche?

La burocrazia. Le arrabbiature venivano da lì. A un certo momento più o meno verso il 1955 nacque il problema delle salme di alcuni nostri ascari libici. Dovevano essere seppelliti in un determinato modo. Mio marito pensò di fare anche una piccola moschea, che servisse pure come tappa per quelli che volevano scendere, per dire una preghiera. Per quanto fosse ancora deserto, camionisti ne passavano tanti. Quindi prese carta e penna e scrisse a Roma per ottenere l'autorizzazione.

Risposta negativa?

Peggio: nessuna risposta. Ma sa, quando la gente non ruba, quando la gente fa semplicemente il proprio dovere, riesce a fare tante cose. Paolo aveva un po' di soldi in avanzo e di sua iniziativa costruì la piccola moschea. Dopo qualche tempo parlo di mesi ovviamente giunse la risposta dalla capitale: «Non si ravvisa la necessità». Testuale.

É suo marito?

Rispose così: «Spiacente. La moschea è già fatta». Testuale anche questo.

Fra l'altro, antesignano nell'esigenza di rispettare e integrare le culture di tutti...

Non me ne parli. lo sono vissuta in Libia e in Egitto. Mai avuto problemi. Loro facevano i musulmani, noi facevamo i cristiani. Non c'erano questioni. Molta polemica dei nostri giorni è fasulla.

Suo marito che cosa raccontava della battaglia di El Alamein?

Il suo secondo libro fu «Alamein», e riguardava tutto il fronte. Fu il primo testo che approfondiva la parte italiana, rispetto ai non pochi volumi che avevano trattato le vicende dei tedeschi e degli inglesi. Non c'era niente sulla nostra storia perché, come al solito, prevaleva l'autodenigrazione, sport nazionale praticato ancora oggi, seppure da una minoranza. Pensi che al Cairo gli stessi italiani, numerosissimi, per ricordare l'evento, nel dopoguerra, dicevano: «Quando i tedeschi erano a El Alamein...». Non gli italiani capito? o gli italiani e tedeschi. Mio marito era bilingue, per cui aveva rapporti con i comandi tedeschi, e ha potuto ricostruire e documentare il tutto con maggiore facilità.

Tornando alla battaglia?

Paolo era Maggiore. Tante cose furono fatte, che non andavano. Lui raccontava dell'insufficienza di carburante, che impediva loro di muoversi. Una vera angoscia. E poi di una Divisione come la Folgore, messa a fare la truppa di terra. D'altra parte, mancavano rifornimenti d'ogni genere, che dovevano arrivare quasi tutti da Tripoli, sebbene il porto di Tobruk fosse attrezzato. Ma bastava niente: una nave affondata all'inizio e... La conclusione è quella nota: sfondarono le nostre linee e passarono.

Sopravvissero in pochissimi: lui come riuscì a salvarsi?

Ah, non c'è una risposta. 0 meglio: bisognerebbe chiederlo al Padreterno.

Che cosa diceva dei ragazzi morti a El Alamein?

Lui ha visto combattere anche quei reparti che erano stanchi da due anni di guerra. Eppure, i soldati si sono comportati benissimo. In alcuni casi meglio degli stessi tedeschi, che pure erano attrezzati ben di più. Anche se è sempre relativo, in confronto a quello che avevano gli inglesi...

Era o divenne militare di carriera?

No, mai. La sua storia in divisa è semplice. Il 24 maggio del 1915 Paolo era iscritto al Politecnico di Palermo. Suo padre era console generale a Tunisi, e il figlio, che era nato a Nerviano (Milano) nel 1896 e perciò aveva diciannove anni poteva così tornare a casa ogni fine settimana o quasi. Mio marito vide sui muri i manifesti della mobilitazione generale. E invece di andare a dare gli esami, si arruolò al Decimo Bersaglieri, di stanza a Palermo. Fece tre mesi di servizio costiero e poi lo mandarono all'Accademia di Torino corso allievo ufficiali e da li subito sul Carso.

Volontario nella Grande Guerra, e poi?

Fu richiamato in Libia all'epoca della guerra di riconquista, nel 1930. Infine l'Etiopia. L’unica scelta fatta da lui fu quella del '15'18.

Una vita di sacrifici?

A quell'epoca non ci si pensava mica tanto. E poi lui era scapolo. Quindi...

Sessant'anni dopo si torna a considerare El Alamein come una memoria. Perché quel ricordo è stato così a lungo dimenticato?

Nei primi dieci anni del dopoguérra, anche per merito di mio marito il. ricordo fu molto, molto vivo. Dopo la costruzione del sacrario cominciarono, pian piano, a mettere l'evento in sordina.

Come lo spiega?

Non so spiegarlo, in realtà. Io esprimo solo una mia opinione: per me quel silenzio fu voluto. Ancora oggi c'è chi non desidera che si parli di El Alamein. Eppure, la gente riempie le sale delle manifestazioni che si fanno per ricordare quella vicenda.

Torniamo in Africa: il sacrario è opera di suo marito?

Lui l'ha progettato. Approvato il progetto, è entrata in ballo la burocrazia: concorsi, appalti e quant'altro era necessario. Paolo ha assistito alla prima parte della costruzione. Poi è tornato in Italia.

Quando fu inaugurato?

li Impossibile dimenticarlo: nel gennaio del 1959. Lui tornò a El Alamein, invitato per l'inaugurazione.

Era contento dei risultato?

Sì e no. Avrebbe preferito che si fosse mantenuto il cimitero, che era molto più suggestivo. Però la cosa era considerata o un'imprudenza. Intanto per la manutenzione. Laggiù piove poco, ma quando piove, piove sul serio. E poi una distesa di croci, sia pure in disparte, poteva attirare il fanatismo musulmano. Gli inglesi. si hanno mantenuto il cimitero, e hanno fatto benissimo. Noi e i tedeschi abbiamo invece scelto il sacrario, ognuno per conto suo. Anche se inizialmente doveva a essere un sacrario italotedesco, perché l'armata tale era.

Secondo lei in che modo i ragazzi delle scuole dovrebbero percepire, oggi, El Alamein?

Con lo stesso spirito con cui nell'antichità si portavano i figli alle Termopili, o con cui gli inglesi,oggi portano i ragazzi in pellegrinaggio a Gallipoli, in i Turchia, o a Durkerque in Francia. Quando si combatte con tutto se stessi, si può benissimo essere sfortunati e perdere. L’importante è farlo con la fronte alta.

Che cosa risponde alla polemica di chi dice che El Alamein fu comunque una guerra sbagliata?

E’ una polemica del tutto pretestuosa. Il soldato queste cose non se le chiede mai. Proprio alle Termopili cosa c'era scritto?: «Tu che passi, va e dì a Sparta che qui siamo morti in obbedienza alle sue leggi». Per conto mio è quello lo spirito. E vale per tutti i popoli in tutte le circostanze in cui la storia li abbia fatti trovare.

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