PER L'ONORE D'ITALIA VENNI INTERNATO NEL FASCIST CRIMINAL CAMP
14 Apr 2003
Autore: recensione dal Corriere della Sera del 14 Aprile 2003


Un volontario della Repubblica sociale ricorda la sua scelta: «Sapevo che la guerra era persa, ma non sopportavo l'idea del tradimento»


«Quel giorno ad Anzio, ecco perchè decisi di combattere»

«La prigionia è stata dura. Gli americani ci chiamavano "Criminal fascist"»


ROMA - «Sapevo che la guerra era persa, dopo il 25 luglio e l'8 settembre... Ma non sopportavo l'idea del tradimento. Mi dava fastidio questa storia italiana per cui, ogni volta che le cose si mettono male, noi passiamo dall'altra parte, ci mettiamo sempre con i più forti. Avevo diciassette anni, dovevo completare l'ultimo anno di ragioneria a Udine, dove vivevo con la mia famiglia. Noi - allora - non sapevamo nulla dei campi di sterminio, dell'Olocausto, eravamo veramente alla periferia del Paese.

Era l'inverno del '43: scappai di casa di notte, volevo andare a fare la mia parte, mi arruolai volontario con i paracadutisti della Folgore. Mio padre disse che non mi avrebbe mai perdonato...». Le immagini delle guerre e delle liberazioni sono sempre uguali.

C'è un Paese che entra nel caos, ci sono monumenti e statue da abbattere, c'è chi sale sul carro armato dei vincitori, c'è chi arraffa quello che può, chi scappa alla ricerca di una nuova identità .

E c'è chi ritiene di dover restare fedele a dei valori, proprio nel momento in cui vengono dichiarati fuorilegge e sconfitti...

Il soldato semplice Luciano Orsettigh, classe 1926, è oggi un signore in pensione che ama leggere libri, passeggiare con la sua cucciola terrier, comunicare con il mondo dalla sua stanza con una radiotrasmittente potentissima.
Ero un giovane innamorato della mia patria e volevo difenderla fino all'ultimo.


Per questo ideale, ho pagato un prezzo alto: «sono stato per due anni prigioniero degli americani, insieme a migliaia di italiani che, forse oggi, vedendo le immagini in televisione... stanno ricordando, come me, tempi lontani».

Orsettigh fu fatto prigioniero dalla Quinta divisione americana proprio all'alba del 4 giugno 1944, il giorno della liberazione di Roma: «Dopo qualche mese di addestramento in Umbria, alle Fonti del Clitunno, fui destinato alla settima compagnia della Folgore e, nella primavera del '44, fummo spediti al fronte, ad Anzio.

Eravamo 110-120, tutti volontari, tutti giovanissimi.


I nomi di tutti, oggi, è impossibile ricordarli... C'era un Fiocchi, figlio della dinastia di imprenditori delle munizioni.

C'erano i fratelli Civita, romani, rossi di capelli come me, c'era Camuncoli, figlio di un giornalista del Corriere della Sera . Tre mesi di trincea di campagna, fra Roma e Anzio, senza caserme nè tende. Per dormire, c'era una grotta, andavamo lì a turno.

Gli americani avanzavano dal mare verso Roma e noi dovevamo rallentare il loro cammino, a costo di essere distrutti. Di quei 120, restammo vivi in sei.

Sapevamo che era una missione disperata: saremmo finiti o morti o prigionieri. L'ultimo ordine che ricevemmo, il 2 giugno, era quello di coprire la ritirata delle altre truppe e delle prime linee tedesche che arretravano: dovevamo tenere il fronte per 24 ore e poi ritirarci anche noi.

Noi rimasti vivi, al calar della notte, scadute le 24 ore, cominciammo a tornare indietro per ricongiungerci ai soldati già  andati via.

Eravamo stanchissimi, ci fermammo in una cascina abbandonata, lasciata dall'antiaerea tedesca. Al risveglio, una cannonata sul tetto ci avvertì che era arrivato il momento di uscire : lungo la strada, scendendo dalla colllina, ricordo come fosse ieri le decine di carri armati che, in fila, stavano per arrivare nella capitale».


Sessant'anni fa, quando eravamo noi un popolo da liberare, con un regime a pezzi e un esercito allo sbando, gli americani fecero prigionieri circa 55 mila italiani, di cui 6 mila scelsero di non collaborare.

Orsettigh mi mostra il libro scritto da Gaetano Tumiati nel 1985 (Prigionieri in Texas, Mursia, ndr ), dove è raccontata l'esperienza della detenzione: «Ci ritrovammo improvvisamente a migliaia in un campo di concentamento a Hereford, su un altopiano ai confini con il New Mexico.

Arrivai là  dopo mesi di prigionia in Africa e dopo un lunghissimo viaggio nella stiva di una nave, sbarcammo in Virginia e poi attraversammo in treno quasi tutti gli stati del Sud... Ad Hereford c'erano anche il pittore Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto, c'erano persone diverse, dai monarchici ai liberali, non c'erano solo i nostalgici... eppure, gli americani lo chiamavano il "Criminal Fascist Camp".

Indossavamo divise con scritto ovunque PW, prigioniero di guerra. Quelli che collaboravano, invece, avevano la divisa militare americana e una bandierina italiana cucita sul braccio, potevano uscire, frequentare donne, alcuni poi si sposarono le fidanzate di allora.

Noi no, noi eravamo sempre chiusi, nel cuore della notte capitava anche qualche legnata, facevamo la fame, al mattino una tazza di caffelatte in polvere e due fettine di pane di riso...

Per guadagnare 80 centesimi al giorno e mangiare due panini bisognava lavorare: ho raccolto patate fino a spezzarmi la schiena, in una farm a un'ora di camion dal campo, era l'unico modo per comprarsi le sigarette e le lamette per radersi».

Quando la guerra finisce, i collaborazionisti vengono liberati subito.

Gli irriducibili ci impiegano quasi un anno per tornare a casa: «Mancavo da tre anni, arrivai nel 1946 - racconta Orset- tigh - e mi avevano dato per morto... Mio padre riuscì a perdonarmi.

Ritrovai, per una notte, i miei amici. Non avevo ancora disfatto il mio sacco, che vennero a prendermi i carabinieri.

Mi aspettavano altri due mesi di galera, per ragioni ancora oggi misteriose: un altro campo di concentramento, italiano, con tende canadesi piantate nel fango, dalle parti di Arezzo». Grazie a quella difficile esperienza, Luciano Orsettigh conquistò un inglese perfetto.

«Mi servì per trovare un lavoro. Da uomo libero, finalmente, scelsi di lavorare per qualche anno proprio alla base americana di Cormons.

Indossavo la loro divisa e organizzai l'arrivo di 5 mila americani a Trieste. Dalla tuta grigioverde della Folgore, però, tagliai una striscia di stoffa. Per me ha sempre avuto una grande importanza: c'è dentro ancora oggi il senso del dovere che mi ha portato a quelle scelte. C'è scritto: "Per l'onore d'Italia". Mi sembra un buon motto, anche sessant'anni dopo».

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