L'8 DI SETTEMBRE DI UN PRIGIONIERO DEGLI INGLESI
9 Sep 2003
Autore: Par EMILIO CAMOZZI

Ho sempre usato cancellare dalla mia mente i momenti brutti.
Penso sia il segreto della mia longevità . Quando ieri ho sentito che si stava commemorando in televisione l'otto settembre 1943, sono trasecolato.

E' la prima volta che si commemora una giornata di lutto.

E' luttuoso perdere la guerra, ma perderla come abbiamo fatto noi, tradendo l'alleato, lasciando allo sbando un milione e mezzo di soldati e cinquanta milioni di italiani che non sapevano nemmeno più chi applaudire o chi fischiare, è mostruoso.

Sono risalito con la mente a sessanta anni prima per cercare di ricordare come ho vissuto io quella brutta giornata.

Premetto che noi prigionieri alla sconfitta ci eravamo un po' allenati. Risaliva al giorno che ci avevano catturati e rinchiusi nei campi di concentramento.

Avevamo avuto anche l'opportunità di commentare gli avvenimenti, che ci avevano toccati in prima persona, e quindi ne parlavamo con cognizione di causa.

Già la caduta del fascismo ci aveva fatto subodorare che qualcosa di losco era in atto.

Quando, un mese dopo, la medaglia d'oro Ettore Muti fu assassinato dai carabinieri, ne avemmo la conferma.

Già alla fine di luglio gli inglesi avevano posto la condizione della collaborazione.

Consisteva nel firmare un documento che imponeva di non arrecare danni al materiale bellico inglese, di essere inquadrati in reparti comandati da ufficiali inglesi e di vestire un'uniforme fornita dagli inglesi.

Tutto ciò non era permesso dal regolamento militare italiano, e le pene andavano dalla perdita dei diritti civili alla pena di morte.

Lavoravo in un campo d'aviazione gestito dai neozelandesi.

Facevo il cuoco alla mensa sottufficiali. Giocavo nella squadra di calcio rappresentativa dell'Italia nel Medio Oriente. Insomma, me la passava benino, anzi, molto bene.

Eravamo un quarantina di prigionieri.

Fui l'unico a non firmare la cooperazione. Ormai gli altri mi guardavano con sospetto.

Gli unici a congratularsi con me furono i neozelandesi.

Dicevano che ero stato l'unico a comportarsi con onore.

Fui subito trasferito al campo 321 e rinchiuso in un gabbia isolata assieme ad altri otto.

Gabbia sta per "age ", un rettangolo di terreno di cento metri per cinquanta.

Avevamo un tenda, delle brandine decenti, ed eravamo trattati bene anche sotto il profilo alimentare da un comandante di campo sudafricano che cercava di non farci mancare nulla, e che si divertiva a passare di sera qualche ora con noi, ed a mangiare gli spaghetti che lui ci portava in omaggio e che noi cucinavamo.

Ai quattro angoli di tutte le gabbie erano stati piazzati altoparlanti che ci trasmettevano gli ordini del giorno ed un sommario delle notizie, un pochino manipolate dagli inglesi.

Dopo le otto di sera erano silenziosi, perchè verso quell'ora molti andavano a dormire.

La sera dell'otto settembre era per noi come una di tante altre sere. Stavamo preparando il sugo per gli immancabili spaghetti che sarebbero arrivati assieme al comandante di campo. Arrivò alle nove. Come al solito, un po' per celia ed un po' per rispetto, ci schierammo ai lati dell'ingresso della tenda per salutarlo stando sull'attenti.
Generalmente accettava l'omaggio sorridendo come ad uno scherzo e rispondeva militarmente. Quella sera era buio in volto , si fermò prima di passare fra noi e disse " Come ir ".

Pensammo di aver combinato qualcosa di grave, soprattutto perchè non aveva con se i soliti spaghetti. Ci raccogliemmo attorno a lui. Ci disse, con quel poco di italiano che aveva appreso stando con noi: " Per voi la guerra è finita. L'Italia ha chiesto l'armistizio. Per noi continua ".

Si sentiva che aveva un groppo alla gola. Il gruppo si sciolse in silenzio. Ognuno si allontanò per piangere per conto suo. Un soldato si vergogna delle proprie lacrime. Dopo un po' il capitano De Pangher, triestino e nostro capo gabbia, ci chiamò uno per uno.

Ci disse: " Cantiamo per piangere il nostro dolore ". Il comandante del campo si avviò verso l'uscita. De Pangher lo chiamò e lo pregò di rimanere con noi.

Accettò. Cantammo quasi sottovoce l'inno a Roma. L'emozione riempiva la melodia di stonature. Terminata, la ricominciammo, a voce più alta. Alla fine, il capo campo sudafricano ci pregò di ripeterla, per far capire agli altri chi noi eravamo. Questa volta, più che cantarla la gridammo. Il capo campo aveva gli occhi bagnati di lacrime come tutti noi e tentava di cantare con noi la nostra rabbia. Dalle gabbie che ci circondavano i prigionieri cooperatori ci guardavano, ancora ignari di quanto era successo.

Alla fine si allontanarono in silenzio, forse un tantino vergognosi. Questo è quanto mi resta di quella triste giornata.

Emilio Camozzi

TORNA ALL'INDICE
RICORDIAMO I NOSTRI UTENTI CHE DALLA SEGNALAZIONE DI INCORRETTEZZE O ERRORI NELLA BACHECA ALLA CANCELLAZIONE, PER MOTIVI TECNICI, PASSERANNO CIRCA 24 ORE.