EVOLUZIONE E CONTINUITA' STORICA DEI REPARTI SPECIALI DELLE FORZE ARMATE ITALIANE. DAGLI ARDITI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE AGLI ATTUALI INCURSORI
19 Apr 2004
Autore: dr Raoul Ravara

UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Scienze politiche

 

 

EVOLUZIONE E CONTINUITA' STORICA DEI "REPARTI SPECIALI" DELLE FORZE ARMATE ITALIANE: DAGLI ARDITI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE AGLI ATTUALI INCURSORI.

 

Relatore: Chiar.mo Prof. Maurizio ANTONIOLI
Correlatore: Chiar.mo Prof. Giuseppe Maria LONGONI

Tesi di Laurea di RAOUL RAVARA
matr. 564105

Anno Accademico 2002-2003

INDICE

INTRODUZIONE 3
GLOSSARIO 7

CAPITOLO 1
GLI ARDITI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE 15

1.1 Nascita e precursori 16
1.2 Caratteristiche 22
1.3 Addestramento e modalità d'impiego 28
1.4 Armamento e organici 32
1.5 Criteri organizzativi 38
1.6 Successi ed insuccessi 45

CAPITOLO 2
I REPARTI ARDITI NEL PRIMO DOPOGUERRA 57

2.1 Armistizio e scioglimento dei reparti d'assalto 58
2.2 Motivazioni dello scioglimento 62
2.3 Invio in Libia di alcuni reparti arditi 68
2.4 Gli arditi e l'impresa fiumana 73
2.5 1920: Ordine definitivo di scioglimento 83

CAPITOLO 3
LA SECONDA GUERRA MONDIALE 87

3.1 Un nuovo tipo di guerra 88
3.2 Valorizzazione delle forze speciali 96
3.3 Forze speciali dell'esercito italiano 100
3.4 Forze speciali dell'aeronautica 108
3.5 Forze speciali della marina militare 112
3.6 Impiego e risultati 118

CAPITOLO 4
IL SECONDO DOPOGUERRA 122

4.1 Ricostituzione delle FF.AA. 123
4.2 Nuovi scenari nel mondo bipolare 130
4.4 Gli attuali incursori della marina militare italiana 136
4.5 Gli attuali incursori dell'esercito italiano 142
4.6 Il Col Moschin ed il "Check point Pasta" 149
4.6 Le forze speciali nel mondo 153

GENERALE MARCO BERTOLINI 157

INTERVISTA AL GENERALE MARCO BERTOLINI 158

CONCLUSIONI 169

BIBLIOGRAFIA 171

INTRODUZIONE

Scopo della presente ricerca è di dimostrare l'evoluzione e la continuità storica dei reparti speciali delle forze armate italiane, dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri.
Durante la prima guerra mondiale, un conflitto caratterizzato dai combattimenti in trincea, all'interno dell'esercito italiano si riuscì a sperimentare e far nascere qualcosa di veramente innovativo in campo bellico: reparti d'assalto, noti anche come "reparti arditi", che, grazie ad un addestramento speciale, una mentalità offensiva ed un equipaggiamento particolare, riuscirono ad ottenere prestigiosi successi.
In una guerra di trincea, caratterizzata quindi da lunghi periodi di stasi operativa interrotti ogni tanto da paurose battaglie che si concludevano con la conquista di pochi chilometri di fronte, si pensò ad un nuovo tipo di soldato che avrebbe dovuto dare una svolta alla guerra contro le forze austriache. Questa nuova concezione bellica partiva dal presupposto che soldati addestrati nelle retrovie ed esonerati dai massacranti turni di trincea, potessero arrivare al combattimento freschi di energie, non logorati da mesi di inazione. A tal proposito, il generale Luigi Capello, comandante della Seconda Armata, decise nell'estate 1917 la costituzione di battaglioni d'assalto, nettamente distinti dal resto delle truppe per il particolare addestramento ed armamento. Questi battaglioni d'assalto avevano il duplice obiettivo di svolgere alcuni tra i più difficili compiti della guerra di trincea, modificando l'impianto e la condotta della battaglia attraverso l'utilizzo di tattiche d'assalto in una guerra di posizione, ma anche di offrire un modello positivo di combattente al resto delle truppe di fanteria.
Si delineava, quindi, oltre ad una nuova strategia bellica, un tentativo di ovviare alla diminuita combattività ed all'insufficiente addestramento della massa della fanteria con lo sviluppo di unità d'urto, selezionate e convenientemente preparate, cui era affidato il compito di guidare gli assalti alle trincee nemiche e di alzare il morale di un esercito ormai demotivato da più di due anni di guerra.
Per poter assolvere questo duplice obiettivo si decise di distinguere nettamente i reparti arditi dal resto delle truppe in vari modi: l'arruolamento volontario, l'esenzione dai turni di trincea, migliori condizioni di vitto e alloggio, un diverso trattamento economico, un regime disciplinare meno rigido e formale, un'uniforme speciale, contribuirono a mantenere e sviluppare all'interno dei reparti d'assalto uno spirito di corpo elevatissimo che li convinse della loro superiorità verso gli austriaci, ma anche verso il resto delle truppe italiane.
Il primo capitolo è quindi dedicato all'analisi della nascita dei reparti arditi e delle loro caratteristiche, per poi considerare il loro utilizzo sul campo di battaglia e la crisi seguita alla disfatta di Caporetto che portò ad una riorganizzazione ed al loro successivo sviluppo.
Il secondo capitolo analizza lo scioglimento dei reparti arditi seguito all'armistizio di Villa Giusti del 4 novembre 1918, cercando di delinearne le reali motivazioni, prima fra tutte la preoccupazione degli alti comandi suscitata dalla loro iniziale politicizzazione.
Le motivazioni che avevano portato alla costituzione dei reparti d'assalto vennero, ovviamente, a cadere alla fine della guerra, in un momento in cui l'unico interesse degli alti comandi dell'esercito era indirizzato alla smobilitazione ed alla sua riorganizzazione. La partecipazione, poi, di numerosi arditi all'impresa fiumana ed il legame con il nascente fascismo decretarono la fine degli arditi e la rinuncia a tutti i tentativi di rilanciare i reparti d'assalto.
Nel terzo capitolo della presente tesi si analizzano le contraddizioni che caratterizzarono la politica militare durante il fascismo e la scarsa lungimiranza nella preparazione bellica tra le due guerre mondiali. Inoltre, si evidenzia il nuovo tipo di guerra che caratterizzerà il secondo conflitto mondiale e la costituzione tardiva dei reparti speciali delle forze armate italiane. Segue una rassegna dei reparti speciali costituiti in seno ad ogni forza armata e le azioni più significative a cui presero parte. Quest'ultimi intrapresero azioni che, per quanto disperate, cominciavano ad avere una più marcata caratterizzazione "speciale", per modalità di infiltrazione e per la spiccata propensione ad operare dietro le linee avversarie.
I comandi italiani, infatti, si dimostrarono incapaci di comprendere appieno le esigenze di una guerra completamente diversa rispetto alla prima guerra mondiale e di orientare in questa direzione lo sviluppo delle forze armate e del loro utilizzo sul campo. Seppur tardivamente, questo nuovo modo di concepire la guerra portò alla valorizzazione delle cosiddette "forze speciali" durante la seconda guerra mondiale e, anche se quest'ultima fu caratterizzata dalla prevalenza della componente tecnologica rispetto alle masse di uomini della prima guerra mondiale, si comprese l'importanza e l'esigenza di approntare reparti ad alto livello di specializzazione per ogni specialità delle forze armate.
Nel secondo dopoguerra e nel quadro della ricostituzione delle nostre forze armate, i reparti speciali italiani hanno continuato ad esistere nonostante il mutato scenario internazionale.
Il quarto ed ultimo capitolo esamina, infatti, la situazione seguita alla sconfitta militare nella seconda guerra mondiale e la conseguente ricostituzione delle forze armate italiane, la loro evoluzione, l'inserimento dell'Italia nella NATO e la costituzione di reparti speciali che, facendo tesoro delle esperienze belliche, svilupperanno tecniche addestrative e dottrine d'impiego che porteranno le unità d'èlite delle nostre forze armate ad essere considerate unanimemente tra le migliori del mondo. In particolare il COMSUBIN (comando subacquei ed incursori) ed il 9° Reggimento d'Assalto Paracadutisti Col Moschin sono attualmente i due corpi d'elite delle nostre forze armate e sono gli eredi della tradizione e della bandiera di guerra rispettivamente della Decima MAS e del X reggimento arditi.
La presente tesi si conclude quindi con un'intervista al generale Marco Bertolini, attuale comandante della Brigata Paracadutisti Folgore e già comandante del 9° Reggimento Paracadutisti d'Assalto Col Moschin, per sapere se alcuni degli elementi che caratterizzavano gli arditi della "grande guerra" dal resto delle truppe siano ancora riscontrabili (importanza del presupposto motivazionale, carattere volontario, addestramento e armamenti differenti rispetto al resto delle truppe, differente trattamento economico) e se resistono richiami a quell'esperienza (inni, somiglianza nei fregi, ecc.) e a quella dei reparti speciali della seconda guerra mondiale. Il 9° reggimento Col Moschin, infatti, oltre ad essere considerato da tutti gli addetti ai lavori uno dei migliori reparti speciali al mondo, rappresenta l'unica unità della specialità con origini risalenti alla "grande guerra".

CAPITOLO 1

 

 

GLI ARDITI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

 

1.1 Nascita e precursori

Nell'estate 1917, presso la Seconda Armata dell'esercito italiano, vi fu la nascita di una nuova specialità di fanteria: i reparti d'assalto.
Da ben due anni, ormai, la guerra languiva in trincea. I soldati vi trascorrevano lunghi periodi di abbrutimento, interrotti ogni tanto da paurose battaglie che si risolvevano nella conquista, o nella perdita, di pochi chilometri di fronte. Stimolato da questa visione avvilente della guerra, il generale Luigi Capello, comandante della Seconda Armata, pensò ad un tipo di soldato che, addestrato nelle retrovie ed esonerato dai turni di trincea, arrivasse al combattimento fresco di energie, non logorato da mesi di inazione. Doveva trattarsi di speciali gruppi d'assalto, messi a disposizione d'ogni corpo d'armata perchè fossero adoperati in azioni di pattuglia o di sfondamento contro avamposti nemici.
Il primo reparto d'assalto nacque, quindi, grazie all'iniziativa combinata del generale Luigi Capello, del generale Francesco Saverio Grazioli, comandante della brigata Lambro e poi della 48. divisione, e del tenente colonnello Giuseppe Bassi, comandante di un battaglione di fanteria, che si era particolarmente impegnato nella ricerca e sperimentazione di nuove tecniche d'assalto idonee alla guerra di trincea.
Il 12 giugno 1917 fu costituita a Russig, nelle retrovie di Gorizia, una compagnia di formazione agli ordini di Bassi che, dopo due settimane d'intenso addestramento, fu presentata a Grazioli e poi a Capello, che approvarono caldamente i risultati del lavoro di Bassi e specialmente l'esercitazione a fuoco che concludeva la dimostrazione.
Questi esperimenti non mancarono di fare effetto sul comando supremo che, infatti, con la circolare 111.660 del 26 giugno 1917, stabilì che ogni corpo d'armata raccogliesse, dai reparti dipendenti, quei militari che volessero passare in uno speciale battaglione, detto, appunto, battaglione d'assalto.
Le altre armate non erano però in grado di dare immediata attuazione a quest'ordine, mentre Capello ottenne subito l'autorizzazione a costituire il I reparto d'assalto (il 5 luglio) che, vista l'inadeguatezza della sede di Russig, fu stanziato a Sdricca di Manzano, sulla riva destra del Natisone, dove era possibile dare alle esercitazioni a fuoco tutto lo sviluppo e il realismo necessario.
Il I reparto d'assalto fu ufficialmente consacrato, alla presenza del re, il 29 luglio 1917 e la data rimase a celebrare la nascita del corpo. Nell'agosto dello stesso anno fu costituito il II reparto, seguito tra settembre e ottobre da altri quattro reparti, numerati da III a VI.
La Terza Armata costituì, invece, il suo primo reparto d'assalto più tardi, il 10 ottobre 1917, a Borgnano, piccolo borgo fra Medea e Cormons, a pochi chilometri dall'Isonzo.
La nascita dei reparti d'assalto, detti anche reparti arditi, fu senza dubbio influenzata da esperienze precedenti: nell'ottobre 1915, infatti, il maggiore Cristofaro Baseggio aveva formato a Stringo, in Valsugana, la "Compagnia Volontari Arditi Esploratori Baseggio", chiamata in seguito, dai soldati, "Compagnia della Morte". Tale compagnia, forte di 13 ufficiali e 450 fra graduati e soldati, fu quasi annientata il 6 aprile 1916 nell'attacco al colle Sant'Osvaldo ed il 12 dello stesso mese, contando appena 54 superstiti, fu ufficialmente disciolta.
Nell'ottobre del 1915, anche il generale Cavaciocchi, comandante della 5. divisione, aveva costituito in Valtellina e in Valcamonica reparti di alpini scelti che furono poi trasformati in battaglioni sciatori. Nel giugno del 1916, ancora, il generale Grazioli aveva formato alcuni plotoni speciali, armati di pistole mitragliatrici, ai quali erano state affidate mansioni di pattuglia, di prelevamento di posti avanzati nemici, di esplorazione, di tagliafili. Questi soldati furono chiamati "arditi reggimentali" e poterono fregiarsi di uno speciale distintivo, formato dalle lettere V.E. (Vittorio Emanuele), intrecciate e sovrapposte al nodo dei Savoia.
A causa dell'intenso sfruttamento propagandistico di cui sono stati oggetto gli arditi, molti autori hanno negato con forza qualsiasi dipendenza dei reparti d'assalto italiani dalle Sturmtruppen (le truppe scelte dell'esercito austro-ungarico), ma recentemente, Giorgio Rochat, autore di Gli arditi della Grande Guerra, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1990, ha posto l'attenzione su una circolare del comando supremo della Terza Armata, datata 14 marzo 1917, che invitava i comandi militari italiani a porre la propria attenzione sui "riparti d'assalto presso l'esercito austro-ungarico, affinchè la conoscenza dei metodi d'azione seguiti dall'avversario offra il mezzo, non solo di opporvisi con adeguati procedimenti, ma altresì di adottare, ogni qual volta se ne presenti la convenienza, analoghi sistemi". Sempre nello stesso documento le Sturmtruppen erano descritte come reparti "appositamente costituiti per compiere piccole e ardite operazioni mediante azioni di sorpresa tendenti a disturbare il nemico, metterlo in allarme, catturare prigionieri, distruggere riparti, eccetera, o, concorrendo nelle azioni preparate, ad aprire la strada alle colonne d'attacco irrompendo con impeto nelle trincee nemiche e devastandole".
Da questa circolare emerge chiaramente che i reparti arditi derivarono dalle Sturmtruppen innanzi tutto come impostazione generale, cioè come tentativo di ovviare alla diminuita combattività ed all'insufficiente addestramento della massa della fanteria con lo sviluppo di unità d'urto, selezionate e convenientemente preparate, cui era affidato il compito di guidare gli assalti e di alzare il morale dell'esercito.
Il punto di maggiore differenza, tra l'esperienza italiana e quella delle Sturmtruppen, è però dato proprio dal differente rapporto tra reparti d'assalto e la massa della fanteria. Gli arditi nacquero e si svilupparono come corpo a sè stante, con un forte distacco dalla fanteria e quindi un elevato spirito di corpo e possibilità di azione assai maggiori, mentre le Sturmtruppen rimasero sempre parte integrante delle unità di fanteria dell'esercito austro-ungarico. In pratica, mentre le Sturmtruppen furono truppe scelte cui non si chiedeva di modificare l'impianto e la condotta della battaglia, ma di trascinare la massa passiva della fanteria, gli arditi furono vere e proprie truppe speciali, con un ruolo autonomo nella battaglia e questa fu la loro originalità e la loro forza.
Affermazioni come quella di Paolo Giudici, contenuta nel volume Reparti d'assalto, Milano, Alpes, 1928, p. 33., secondo cui gli arditi "nacquero per fioritura spontanea" sono senza dubbio frutto di una memorialistica di guerra che è spesso ispirata ad un'unilaterale e acritica esaltazione delle proprie esperienze belliche.
Ci sembra quindi di poter senza dubbio affermare che, nonostante la quasi totalità delle opere dedicate agli arditi concordino nell'illimitata esaltazione delle loro qualità e dell'assoluta originalità della loro esperienza, siano innegabili elementi di continuità con l'esperienza delle Sturmtruppen.
Era del resto inevitabile in una guerra tra due avversari a così stretto contatto, entrambi impegnati a sviluppare ogni strumento bellico possibile per sorprendere o contrattaccare il nemico.
Per quanto riguarda invece il ruolo delle truppe d'assalto negli altri grandi eserciti europei durante la prima guerra mondiale, è stato evidenziato come tedeschi, francesi e inglesi diedero poco rilievo sia alle truppe scelte sia alle truppe d'assalto, preferendo puntare sulla crescita omogenea di tutta la massa dei combattenti per quanto riguarda addestramento e armamento.
Le poche testimonianze riguardanti reparti che si differenziarono dal resto della fanteria riguardano, infatti, reparti specializzati che furono creati con compiti definiti, connessi in generale all'impiego di armi nuove come lanciafiamme e carri armati; ma anche in questo caso non si può parlare di truppe d'assalto poichè furono reparti che rientrano nella categoria delle truppe scelte, sono cioè combattenti selezionati per compiti di particolare difficoltà e rischio sulla base di fattori fisici e morali, ma non separati dai loro reparti di origine, di cui continuano a dividere la vita, l'addestramento e lo spirito di corpo.
Giorgio Rochat, a tal proposito, sottolinea il fatto che le truppe d'assalto abbiano avuto un ruolo solo marginale dove eserciti e paesi erano più forti e compatti ed invece un ruolo importante in Italia ed in Austria-Ungheria, che presentavano maggiori elementi interni di debolezza.

1.2 Caratteristiche

Le caratteristiche dei reparti arditi sono state ben esposte nel volume di Fernando Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova, Marsilio, 1969, che, citando la "circolare riservatissima" del Comando del corpo d'armata d'assalto, Norme per l'impiego tattico delle grandi unità d'assalto “Circolare n. 1130 datata 1 luglio 1918 (pp. 7-11)", evidenzia come i reparti arditi, in combattimento, dovevano essere caratterizzati da "perfetta elasticità nella composizione del corpo tattico da destinarsi ad ogni operazione"; sfruttamento del fattore sorpresa, poichè gli arditi potevano essere proiettati "su un punto qualsiasi del fronte per una spedizione offensiva, oppure lanciati sul fianco o magari a tergo di colonne nemiche irrompenti sul nostro territorio. Se nell'un caso o nell'altro riusciremo a piombare di sorpresa, il successo sarà assicurato. Quindi segretezza assoluta in ogni cosa; estrema rapidità di movimenti; abitudine ad imbastire prontissimamente un'azione qualsiasi, dopo una rapida ricognizione del terreno e della situazione; decisione massima di esecuzione, la quale dovrà essere sempre condotta a fondo senza esitazione".
Abbiamo appena visto come un'importante caratteristica degli arditi durante il combattimento fosse l'utilizzo del fattore sorpresa, continua, infatti, la circolare n.1130 ricordando che "irrompono all'ora stabilita, allo scoperto, e cercano d'un balzo di raggiungere l'unico riparo possibile, che sia nel terreno al di là della fronte avversaria, dove l'artiglieria nemica non avrà avuto nè tempo nè modo di portare il suo tiro, perchè disorientata dall'irruenza stessa del nostro attacco. Raggiunta quella zona, continuano a perforare dilagando e approfittando dell'attimo inevitabile di disorientamento nemico, per renderlo irreparabile a colpi di audacia e temerarietà , in attesa di essere rinforzati da altre truppe di linea".
L'economia delle forze, perchè se per tutti i reparti era un dovere assoluto "spendere" bene i propri soldati, per un reparto d'assalto, questo dovere era "ancora più essenziale". Ogni ardito, infatti, rappresentava, com'è scritto nella circolare, "per l'alto suo valore combattivo personale un prezioso fattore di forza" e quindi la sua perdita, se non compensata da "un adeguato rendimento", costituiva "un danno particolarmente grave: la vita per la patria va spesa bene, e la vita di un soldato ardito, benissimo".
La caratteristica del reclutamento volontario di tutti gli arditi è stata sottolineata da quasi tutte le fonti disponibili ma, ad un'attenta analisi di due delle opere più importanti sull'argomento, si può notare come vi fossero in realtà alcune eccezioni.
Nel volume di Padre Reginaldo Giuliani, (che fu il cappellano militare degli arditi della Terza Armata), a pagina tre si legge che: "parecchie circolari emanate dalle diverse autorità intorno ai nostri reparti, hanno ribadito che il passaggio ai battaglioni non poteva essere fatto che in seguito ad esplicita domanda scritta dell'interessato, ed alla dichiarazione di idoneità rilasciata dal corpo di provenienza e comprovata, dopo un periodo di esperimento, dal comandante del reparto stesso a cui il militare veniva destinato". Continua Giuliani affermando che: "Il primo requisito di ogni nuovo ardito consisteva nella libera volontà di diventarlo. Le prescrizioni del comando supremo stabilivano che non si concedesse l'aggregazione ai battaglioni d'assalto che in seguito a spontanea domanda del militare: qualche reclutamento, ordinato in massa per sopperire ad eccezionali necessità , non ha abolito la regola, che io ho visto praticata quasi dappertutto."
Nell'opera di Salvatore Farina, Le truppe d'assalto italiane, Roma, Edizione dell'Associazione Nazionale Arditi Roma, 1938, considerata la più solida e acuta opera sull'argomento, è evidenziato il fatto che solo gli ufficiali erano volontari, mentre la maggioranza degli arditi erano stati designati dai comandi dei reparti d'origine.
Giorgio Rochat sostiene invece che: "L'arruolamento per scelta soltanto individuale rappresenta un'eccezione, perchè il reclutamento degli arditi fu affidato di norma ai comandi delle unità di fanteria; secondo le istruzioni e una prassi consolidata, questi comandi davano la precedenza ai volontari, ma in loro assenza non esitavano a designare d'ufficio i nuovi arditi".
Per quanto riguarda quindi il reclutamento, siamo d'accordo con la tesi di Rochat, secondo la quale fu di tipo misto, capace di contemperare in grado variabile selezione dall'alto, inclinazioni individuali ed esigenze della macchina bellica e che l'assoluta volontarietà di tutti gli arditi fosse in realtà un mito.
Abbiamo visto come un elemento decisivo dei reparti arditi era l'autosufficienza in campo tattico, la capacità in pratica di raggiungere i propri obiettivi senza il concorso della fanteria. I reparti d'assalto furono creati e sviluppati non tanto ad integrazione della fanteria, quanto in contrapposizione implicita alla massa dei combattenti, con il
duplice obiettivo di svolgere alcuni tra i più difficili compiti della guerra di trincea attraverso nuove strategie e di offrire un modello positivo di combattente.
Questa funzione di traino per i battaglioni di fanteria, poco motivati e male addestrati, emerge chiaramente dalla lettura della rivista Esercito e Nazione, Rivista ufficiale per l'esercito italiano, pubblicata nel 1927:
"Comunque si comprese presto la duplice funzione dell'arditismo come strumento disciplinare e, dirò, di esemplare propaganda tra le fila delle grandi unità ".
Dal momento quindi che gli arditi furono creati come reparto a sè stante, era importante che, anche a livello esteriore, fossero facilmente distinguibili dal resto delle truppe. Per queste ragioni, i reparti d'assalto ebbero una uniforme speciale e pittoresca: pantaloni dei reparti ciclisti, maglione grigioverde e giubba aperta sul collo. Sui risvolti della giubba portarono fiamme nere, verdi o cremisi, secondo il corpo (fanteria, alpini o bersaglieri) che in maggioranza avevano dato elementi per la costituzione dei reparti arditi; sul braccio sinistro portarono, invece, il distintivo dei reparti: un gladio romano, con l'impugnatura a testa di sfinge e sulla cui crociera era inciso il motto sabaudo FERT, inghirlandato da un ramo d'alloro e da un ramo di quercia legati all'impugnatura dal nodo dei Savoia.
Dall'uniforme venne, inoltre, eliminato lo zaino per ragioni pratiche, perchè gli arditi avevano accantonamenti fissi dai quali rimanevano assenti al massimo una settimana per le azioni belliche, e quindi sarebbe stato inutile caricarli di un peso superfluo.
Fino alla nascita dei primi reparti arditi, nel luglio 1917, si può affermare che il rendimento insufficiente dei battaglioni di fanteria fosse attribuibile sia a cause di natura militare (insufficiente comprensione della guerra di trincea da parte dei comandi), sia a cause politiche (incapacità della classe dirigente di coinvolgere realmente le masse in un conflitto accettato passivamente); difatti, fino a quel momento, gli alti comandi cercarono di istillare nelle truppe un alto morale soltanto facendo appello al patriottismo, al senso del dovere e ad altri valori che spesso erano sentiti come astratti se non estranei.
Per ovviare a questi problemi, con gli arditi si decise di fare ricorso sia a valori morali, sia a vantaggi materiali. Abbiamo già visto come la divisa era sia un elemento di distinzione dal resto delle truppe, ma anche un elemento che contribuì a migliorare la mobilità dell'assaltatore e ad assicurare un minore dispendio di energia nel trasporto del proprio peso e di quello dell'equipaggiamento e del munizionamento. Oltre a questo si riservò ai reparti arditi un diverso trattamento che si sostanziò nell'esenzione dai massacranti turni di trincea, migliori condizioni di vitto e alloggio, un soprassoldo, un regime disciplinare meno rigido e formale ed una maggiore concessione di licenze e permessi. Nel volume di Cordova viene a questo proposito citata la circolare n. 4461 del Comando della Seconda Armata, datata 30 agosto 1917, che prescriveva, tra l'altro, il "Trattamento dei reparti d'assalto".
"Alloggiamenti: baracche comode che consentono un vero ristoro delle forze e che per evitare inutili marce saranno impiantate in prossimità del poligono ove si svolgono le istruzioni.
Servizio di trincea: i militari delle compagnie d'assalto non prestano servizi di trincea con gli altri reparti.
Servizio agli alloggiamenti: non è compito da militari delle compagnie d'assalto".
Per quanto riguarda invece il trattamento economico privilegiato, possiamo notare come fosse attribuito un soprassoldo giornaliero di venti centesimi per ogni ardito.
Fa giustamente notare Padre Reginaldo Giuliani che, queste disposizioni del comando supremo, furono ugualmente efficaci a mantenere la freschezza delle forze e a suscitare la vocazione dell'ardito. Praticamente tutte le opere sugli arditi concordano però nel dire che, i privilegi materiali, furono per alcuni una ragione parziale ma non totale della domanda d'ammissione ai battaglioni d'assalto.
Per concludere, possiamo sostenere che tutti gli elementi che caratterizzavano gli assaltatori dal resto delle truppe concorsero a dare agli arditi uno spirito di corpo elevatissimo che, con il consenso attivo degli alti comandi, li convinse della loro superiorità verso gli austriaci, ma anche verso il resto delle truppe italiane.
Considerando inoltre che le truppe d'assalto furono create nell'ultima fase di guerra, in un momento in cui è generalmente riconosciuto come i soldati italiani continuassero a combattere con disciplina e fedeltà ma senza particolare aggressività nè entusiasmo, si può capire l'interesse del comando supremo a mantenere e sviluppare reparti d'assalto di elevato morale, che costituivano una riserva di sicuro affidamento, ma soprattutto dimostravano al paese ed all'esercito che c'erano ancora combattenti entusiasti ed efficaci.

1.3 Addestramento e modalità d'impiego

L'addestramento dei reparti arditi rappresentò un fattore di profonda innovazione rispetto alla fanteria tradizionale. Fino a quel momento, infatti, ci si limitò a qualche esercitazione al poligono, agli esercizi in piazza d'armi e a lunghe marce, senza però una preparazione specifica per la guerra di trincea.
Nel campo di Sdricca di Manzano, l'addestramento fu invece condotto per consentire quella svolta tattica che i comandi supremi si erano auspicati con la creazione dei reparti arditi: l'utilizzo di tattiche d'assalto in una guerra di posizione.
Il campo di Sdricca fu la "culla" degli arditi, in cui i reparti d'assalto della Seconda Armata nacquero, si addestrarono e partirono per i loro successi; quest'esperienza, infatti, fu presa apertamente a modello dai reparti d'assalto delle altre armate.
L'addestramento per i reparti arditi si componeva, per buona parte del giorno, di esercizi ginnici: "Si arrampicavano sulle pertiche e sulle funi o si esercitavano alle parallele ed agli anelli; frequentavano, pure, scuole di lotta giapponese e di scherma con la baionetta o col pugnale, nonchè scuole di ciclismo, di equitazione, di nuoto e di alpinismo"; ma, continua Cordova,
"La vera scuola d'assalto era, tuttavia, costituita dalla scalata ad una collina (che simulava la postazione nemica), portata a compimento sotto il tiro di bombarde, di batterie da campagna e di mitragliatrici, poste a tergo o a fianco degli arditi in esercitazione".
Anche Rochat sostiene che l'addestramento era condotto con serietà ed ampiezza di vedute: molta ginnastica di base, elementi di lotta corpo a corpo con armi e senza, intense e realistiche istruzioni al lancio di bombe a mano ed al tiro con fucile e mitragliatrice, quindi, momento culminante, esercitazioni d'insieme sulla cosiddetta "collina tipo", che gli arditi dovevano assaltare sotto il fuoco di mitragliatrici e cannoni, in condizioni abbastanza vicine alla realtà .
Viene anche rilevato come, durante le esercitazioni a fuoco, gli arditi avevano a loro disposizione una larghezza di mezzi senza precedenti per il resto della fanteria. Scrive Farina, il quale passò personalmente per il campo di Sdricca di Manzano, che: "In ogni esercitazione venivano consumati in media da 12 a 15 mila petardi, da 30 a 40 mila proiettili, da 5 a 6 mila granate".
Sempre nel volume di Farina, si ricorda come, nel solo periodo intercorrente tra il 15 giugno 1917 ed il 24 ottobre 1917 furono svolte ben 516 esercitazioni a fuoco.
Un'attenzione particolare fu riservata poi all'utilizzo del pugnale; fino a quel momento, infatti, la fanteria era dotata solamente di fucile munito di sciabola baionetta. A causa però del peso totale fucile-baionetta (kg. 4,280) e della distanza necessaria a sferrare un colpo di baionetta (circa m.1,59), si decise di dotare gli arditi di pugnale, ritenuto, a ragione, più appropriato per azioni offensive, che si concludevano il più delle volte in un corpo a corpo nelle trincee avversarie.
Il pugnale, rispetto anche alla baionetta impiegata disgiuntamente dal fucile, possedeva dei requisiti superiori, che si richiedevano ad un'arma bianca: maggior potenza di penetrazione, dipendente dalla posizione del centro di gravità e dalla sua forma, e maggior maneggevolezza, a causa del minor peso e della forma dell'impugnatura.
L'addestramento all'utilizzo del pugnale ebbe anche un importante risvolto psicologico; dalla lettura del volume di Salvatore Farina, possiamo, infatti, costatare che:
"Il pugnale, arma bianca nuova, il cui addestramento avrebbe dimostrato la grande efficacia della lotta a corpo a corpo, suggestionò l'assaltatore nella convinzione di una grande fiducia in sè stesso. La sorpresa nell'impiego di un'arma nuova, che portava l'urto al contatto materiale, il che vuol dire desiderio di arrivare al corpo a corpo, la sicurezza nello scontro, la fama di essere maestri nell'uso del pugnale, costituirono gli elementi suggestivi perturbatori del nemico".
L'esaltazione del pugnale e della bomba a mano, caratteristica del mito degli arditi, era necessaria perchè la lotta corpo a corpo doveva costituire il momento culminante dell'assalto e perchè i nuovi reparti dovevano conquistarsi una fama di terribilità presso amici e nemici.
Quest'esasperazione nella preparazione fisica e nelle esercitazioni armate (sia a fuoco sia all'arma bianca), aveva come obiettivo quello di dotare gli arditi di una "professionalità " che spiegasse il proprio effetto anche sul morale degli assaltatori, che venivano così a convincersi della loro superiorità .
Gli arditi dovevano ripetere molte volte ogni gesto e ogni fase dell'assalto fino all'acquisizione di una serie di automatismi perchè, come diceva Bassi (comandante del I reparto e poi di tutti i reparti d'assalto della Seconda Armata, presiedè sempre alla scuola di Sdricca): "Le emozioni si attutiscono colla ripetizione molto più rapidamente di qualunque altra sorte di sentimento".
Si vide, con i primi combattimenti, quanto era stata efficace questa particolare impostazione nell'addestramento, poichè permetteva agli arditi di attaccare con il favore della sorpresa e di risolvere a proprio favore il corpo a corpo nelle trincee austriache, poi di penetrare in profondità nel dispositivo nemico senza attendere ordini superiori e di fronteggiare con le proprie forze i contrattacchi con una difesa aggressiva, fatta di manovre sui fianchi e attacchi all'arma bianca.
L'intero addestramento era quindi finalizzato alla preparazione di combattenti di tipo nuovo sul piano fisico, professionale e morale poichè, alla base di tutta l'opera di Bassi, c'era la convinzione che un corpo d'èlite dovesse nascere non da vocazioni individuali all'eroismo, ma da una preparazione adeguata da tutti i punti di vista, tecnici e morali.
Per quanto riguarda le modalità d'impiego dei reparti d'assalto possiamo evidenziare come, i reparti d'assalto della Seconda Armata, furono preparati essenzialmente per colpi di mano, contrattacchi, azioni ad obiettivi limitati e assalti di sorpresa ma, per il loro completo successo, era assolutamente indispensabile l'appoggio della fanteria.
Come vedremo, il limite dei successi degli arditi fu proprio questo: una mancanza di coordinamento tra l'azione dei reparti d'assalto e le normali unità di fanteria che avevano il compito di consolidare e sfruttare i successi degli arditi.

1.4 Armamento e organici

La ricostruzione esatta delle forze dei reparti d'assalto durante la prima guerra mondiale è impossibile per l'insufficiente documentazione disponibile e, solo approssimativamente, si è calcolato quanti arditi furono creati nel 1917, che sorte ebbero nell'inverno 1917-1918 e quanti furono ricostituiti nel 1918.
Sappiamo però che, alla vigilia di Caporetto, vi erano venti reparti d'assalto o poco più, di forza ed efficienza assai variabili; solo i reparti della Seconda Armata potevano considerarsi pienamente addestrati, mentre quelli della Terza Armata erano a buon punto della loro preparazione.
Si calcola anche che, nell'ottobre 1917, gli arditi della Seconda Armata fossero cinquemila circa.
Per quanto riguarda l'armamento in dotazione ai reparti arditi, facciamo soprattutto riferimento all'opera di Salvatore Farina che analizza in modo approfondito la completa dotazione di un assaltatore.
All'epoca della costituzione del I reparto d'assalto, la fanteria italiana aveva in distribuzione dei mezzi che mal si conciliavano con le nuove funzioni che i reparti d'assalto dovevano svolgere.
Il criterio di scelta delle armi doveva avere lo scopo di alleggerire l'assaltatore da pesi superflui, aumentando contemporaneamente la potenza di fuoco del reparto, il cui impiego autonomo richiedeva una disponibilità di mezzi adeguati.
L'esame delle proprietà tattiche delle armi in dotazione alla fanteria, determinò la scelta e la sostituzione con nuove di quelle ritenute non idonee. Così il reparto d'assalto venne a disporre dei seguenti mezzi:
Moschetto modello '91.
Petardo offensivo Thèvenot.
Petardo fumogeno.
Pistola mitragliatrice.
Mitragliatrice Fiat M.'914.
Cannone M. 65/17.

Moschetto modello '91:
Fu deciso l'utilizzo del moschetto poichè le caratteristiche del fucile (lunga gittata, tensione di traiettoria, forza d'urto e potenza di penetrazione del proiettile) non potevano essere sfruttate completamente in una guerra d'assalto, in cui il peso e la maneggevolezza risultavano più importanti della potenza di fuoco. Inoltre, il peso del fucile di kg. 3,900, andava a detrimento del numero delle bombe che l'assaltatore poteva portare con se.
Per tutti questi motivi si decise di sostituire il fucile con il moschetto modello '91, il quale era meno pesante (kg. 2,700), molto maneggevole, più corto e alle piccole distanze possedeva gli stessi requisiti balistici del fucile.
La facilità di reintegrazione delle munizioni consumate, data dal tipo di azioni che dovevano condurre gli arditi, fece ridurre la dotazione individuale da 168 (kg. 4,350) a 72 cartucce (kg. 1,900), ottenendo un'ulteriore riduzione di carico dell'assaltatore di kg. 2,450 che andò a beneficio di una maggiore dotazione individuale di bombe a mano.

Petardo Thèvenot:
Le granate a mano in dotazione all'esercito erano di più specie: offensive e difensive, a forma cilindrica con manico, a forma lenticolare, ovoidale, sferica. Erano anche varie per peso: ad esempio la Carbone pesava gr. 1000, la Excelsior Thèvenot tipo P.2 gr. 630, la lenticolare gr. 600, la Sipe gr. 530, il petardo offensivo Thèvenot tipo AL (grigio) gr. 400.
Fra tutte le bombe a mano in distribuzione, il petardo offensivo Thèvenot tipo AL (grigio), presentava i migliori requisiti per un impiego in movimento e come arma individuale di accompagnamento all'urto.
Questo petardo, ad eccezione della punta del percussore, non conteneva grossi pezzi metallici, essendo costituito tutto in lamiera sottile che si frantumava in piccolissime schegge. Non era perciò pericoloso per chi lo lanciava, avendo un raggio d'azione di circa dieci metri, mentre aveva un efficacissimo effetto su chi si trovava vicino al punto d'esplosione, a causa della forte azione della carica relativamente grande di esplosivo ad alta potenza (gr. 170 di esplosivo "Echo").
Il petardo inoltre era munito di un dispositivo che ne evitava lo scoppio, se lasciato cadere inavvertitamente a terra, anche dopo averlo privato della coppiglia di sicurezza.
A questi importanti requisiti si associava il peso di gr. 400 che consentiva una maggiore dotazione individuale di bombe, e la forma cilindrica che ne facilitava il lancio.

Petardo fumogeno:
Il petardo fumogeno, di cui si dotarono i reparti d'assalto, era caricato con fosforo, il quale incendiandosi allo scoppio, produceva per un raggio di vari metri un denso fumo che serviva a mascherare ottimamente l'avanzata degli assaltatori e a rendere cieche le mitragliatrici nemiche.

Pistola mitragliatrice:
Era l'unica arma automatica leggera in distribuzione, semplice e di notevole celerità di tiro.
Il suo limite era costituito dal limitato valore offensivo, ma, attraverso modificazioni, potè essere accresciuto in modo da accompagnare la manovra d'attacco con la discreta efficacia delle sue raffiche.
Rispetto al modello originale fu abolito lo scudo, che per il suo peso (kg. 26) non poteva permettere all'arma quella mobilità indispensabile negli assalti e per la stessa ragione la cassetta portapistola; fu semplificato inoltre il sistema di caricamento.
Nel settembre 1917, Bassi portò a termine lo studio di un nuovo sostegno per la pistola mitragliatrice, che applicato al tiratore, rimuoveva le precedenti difficoltà d'impiego di quest'arma con il sistema della cinghia di cuoio.
Venne applicato un sostegno di metallo leggero che veniva applicato al tiratore con un semplice incrocio a cinghie e la sua conformazione era stata studiata in modo da non comprimere il petto dell'assaltatore. La pistola era poi innestata su un tubo a forma di esse che permetteva la snodabilità necessaria per permettere il tiro in tutte le direzioni, sia in senso orizzontale che verticale, sia in posizione a terra.Il sostegno portatile richiese, a sua volta, una correzione al sistema di puntamento della pistola mitragliatrice.
Tutte le modifiche apportate permisero l'importantissimo vantaggio di poter eseguire il fuoco ininterrottamente in marcia e in corsa.

Mitragliatrice Fiat mod.'914:
Per i reparti d'assalto fu decisa una dotazione di 20.000 cartucce per ogni squadra mitraglieri, calcolata in base al fabbisogno della squadra per il combattimento in terreno libero, nel qual caso si doveva fare assegnamento sulle sole munizioni portate da ognuno. Il munizionamento (6.000 cartucce) era portato a spalla, in borse di tela impermeabili che si distribuivano ai tiratori ed ai fornitori; le rimanenti cartucce (14.000) erano trasportate con due muli, unitamente agli altri materiali di ricambio e di rifornimento acqua.
Si deve tener presente che in tale forma di combattimento, l'unità d'assalto veniva sostituita da altre truppe, subito dopo il raggiungimento dell'obiettivo e consolidata la posizione.

Cannone mod. 65/17:
La sorpresa dell'attacco aveva richiesto la soppressione del tiro di preparazione da parte dell'artiglieria, che aveva fra i vari obiettivi, quello di neutralizzare gli organi offensivi nemici.
Per questo motivo si rivolse l'attenzione alla ricerca di un'arma che, aumentando la capacità di fuoco del reparto, concorresse alla protezione degli assaltatori durante l'avanzata.
Si decise allora di utilizzare il cannone mod. 65/17 contemporaneamente all'impiego delle mitragliatrici, i cui proiettili consentivano di avanzare a distanza ravvicinata sotto l'arco delle due traiettorie, conseguendo il duplice risultato di offrire una valida protezione agli arditi durante l'avanzata e, ad obiettivo raggiunto, di obbligare il nemico a rimanere riparato nei ricoveri.
Il fuoco delle mitragliatrici Fiat mod.'914 dalla base di partenza e quello delle pistole mitragliatrici che prendevano parte all'assalto, sparando senza sosta, avevano il compito della protezione diretta degli arditi lanciati contro le trincee nemiche; le pistole mitragliatrici, insieme ai moschetti, dovevano poi fornire il nerbo della difesa delle posizioni conquistate contro il ritorno del nemico.
L'utilizzo combinato delle varie armi in dotazione ai reparti ed il rigoroso e realistico addestramento, furono le grandi idee innovatrici del tenente colonnello Giuseppe Bassi, introdotte per la prima volta nel campo dei reparti arditi a Sdricca di Manzano.

1.5 Criteri organizzativi

Per quanto riguarda l'organizzazione interna ai reparti d'assalto, dipendiamo quasi esclusivamente dall'opera di Salvatore Farina, che analizza in modo particolareggiato le varie unità tattiche.
Il criterio base che doveva informare l'organizzazione di un reparto d'assalto, era determinato dal suo impiego tattico e da quello delle minori unità che lo componevano. Queste dovevano avere, anche singolarmente, quella potenza di fuoco e quella capacità di penetrazione adeguata agli obiettivi da conseguire.
Il plotone, unità tattica per le operazioni di dettaglio, doveva avere una propria individualità per assolvere il compito staccato dall'unità madre (la compagnia).
L'innesto delle armi automatiche nel plotone e nella compagnia, richiese la trasformazione della sezione pistole mitragliatrici e della sezione mitragliatrici Fiat in squadra, alle dirette dipendenze le une del comandante di plotone, le altre del comandante della compagnia per l'armonica fusione del movimento col fuoco, che, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, era necessaria per assicurare una valida protezione all'avanzata degli arditi.
Così la squadra, primo ed essenziale elemento di manovra, assunse una personalità importante nel quadro del combattimento, le cui azioni indipendenti, ma concomitanti nello sforzo, si completavano a vicenda nell'espugnazione della difesa avversaria.
Il reparto d'assalto era costituito da un comando, tre compagnie moschettieri e una sezione someggiata.
Organicamente era formato su quattro compagnie, delle quali la quarta forniva i complementi per colmare gli eventuali vuoti del rispettivo reparto.
Fino a quel momento ogni comando di Brigata di fanteria, disponeva, nelle immediate retrovie, di un battaglione complementare dal quale veniva tratto il fabbisogno in uomini per coprire le deficienze nei rispettivi reggimenti.
L'innovazione nell'organizzazione dei reparti d'assalto fu di inquadrare la compagnia complementi direttamente nel reparto, per conferire una stabilità organica alle unità minori (squadra, plotone, compagnia) che spesso dovevano essere ricostituite con l'afflusso dei nuovi elementi.
La compagnia complementi inquadrata nel reparto offrì i seguenti vantaggi: affiatamento reciproco, preparazione morale e tecnica identica per tutte le compagnie, afflusso di complementi organici dalle compagnie complementi alle compagnie dei reparti.
Il reparto d'assalto doveva, infatti, possedere un requisito costante: l'efficienza, immutabile ed intatta anche dopo un'azione, in modo da poter rispondere in qualunque momento a quell'immediatezza e tempestività d'impiego che caratterizzavano le funzioni degli arditi.
Con questo sistema il reparto mantenne inalterata la propria efficienza.
Vediamo ora come, a Sdricca di Manzano, furono organizzate le unità minori del reparto.
Punto centrale fu la constatazione da parte di Bassi che la coppia, elementare forma a due che nell'esercito rappresenta il primo anello della catena che costituisce l'organismo militare, potesse essere sfruttata per trarne profitto in campo tattico.
Coppia tattica:
Essa nasce spontanea per attrazione di una forza, di cui possiamo trovare la ragione nell'ambiente e nella simpatia per affinità di caratteri, di sentimenti, di idee, di interessi, che vengono a legare due soldati nel loro periodo militare.
La coppia sviluppò un sentimento nuovo: la responsabilità , ignota al fante isolato quando era inquadrato nella squadra; sentimento che richiese una mutua collaborazione mentale, risoltasi in una divisione del lavoro così importante nel combattimento.
La collaborazione a due venne a completarsi con la funzione assistenziale reciproca, il cui valore era di primissimo ordine. Ogni assaltatore aveva in distribuzione il pacchetto di medicazione ed era istruito sul suo uso e sulle prime medicazioni di pronto soccorso. Durante il combattimento se uno dei componenti la coppia rimaneva ferito, era prontamente soccorso e medicato dal compagno; se la ferita era lieve la coppia riprendeva il combattimento, in caso contrario il compagno illeso trasportava il ferito al prossimo posto di medicazione.
Agli assaltatori fu concessa la più ampia libertà di scelta nella costituzione delle coppie tattiche, proprio per favorire un'aggregazione spontanea, basata sulle affinità tra elementi e non su una scelta imposta dall'alto.
Il principio della cooperazione, che divenne così un'abitudine fin dal primo elemento della squadra, creò rapidamente una comunione di sentimenti capaci di dare alla squadra stessa una grande omogeneità ed un altissimo morale.

Squadra:
La squadra era composta di cinque o sei coppie, dieci-dodici uomini, compresi il caposquadra ed il vice caposquadra, i quali facevano coppia rispettivamente con un ardito, per la continuità del comando nel caso in cui il comandante dell'unità elementare venisse messo fuori combattimento.
La squadra poteva essere d'assalto o d'attacco; nel primo caso era composta di cinque coppie e avevano il compito di piombare sugli elementi di vigilanza, tagliare le comunicazioni telefoniche e portarsi al di là della linea raggiunta, irradiandosi ad arco per la protezione dei fianchi e per bloccare materialmente i vari afflussi dalle linee retrostanti.
La squadra d'assalto non era dotata di moschetto poichè, l'assalto agli elementi di vigilanza nemica, era compiuto con l'impiego esclusivo di bombe e di pugnale; inoltre le operazioni di taglio dei fili telefonici e dell'apertura dei varchi della seconda zona difensiva dovevano eseguirsi con la massima speditezza ed il moschetto avrebbe ostacolato dette operazioni.
La squadra d'attacco era, invece, composta di cinque coppie ed aveva il compito di concorrere alla disarticolazione della difesa nemica per concorrere poi, con la squadra d'assalto, alla conquista dell'obiettivo finale. A posizione raggiunta si distendeva ad arco, innestandosi tra le coppie della squadra d'assalto.
La squadra aveva a disposizione gli attrezzi leggeri con i quali ciascuna coppia si scavava un provvisorio riparo di terra. In caso di ritorni offensivi del nemico, la squadra concorreva al contrassalto con il fuoco dei moschetti e dei petardi, rimanendo sul posto a guardia della posizione conquistata, in modo da poter respingere altri contrattacchi nemici che mirassero contemporaneamente sul fronte o su uno dei fianchi della posizione raggiunta.

Plotone d'attacco:
Il plotone era formato da quattro squadre, una d'assalto e tre d'attacco, ed aveva il seguente organico: un ufficiale, un sottufficiale, sette caporali maggiori o caporali, un attendente portaordini, 34 arditi.
Il plotone in scaglione di fuoco, si disponeva con le squadre d'attacco affiancate ed in testa la squadra d'assalto, seguite da una squadra munita di pistole mitragliatrici.
I plotoni in scaglione di rincalzo, che seguivano ad una distanza adeguata quelli di prima linea, sommergevano definitivamente le eventuali resistenze nemiche ancora efficienti, ed uno di essi andava a costituire, a posizione raggiunta, il nucleo di manovra del comandante della compagnia.

Plotone specialisti:
Era composto di una squadra mitraglieri col seguente personale: un capo squadra, due graduati capi-arma, otto serventi, un meccanico e sei porta munizioni; ed aveva il compito principale di accompagnare gli assaltatori che muovevano alla conquista delle posizioni avversarie con tiro eseguito al di sopra di essi (detto tiro d'accompagnamento).
Vi era poi una squadra guastatori, composta da sei coppie e specializzata nelle operazioni relative all'innesto della capsula elettrica, al collocamento sotto il reticolato ed al brillamento della bomba per bombarda.
In ultimo vi era una squadra segnalatori, composta da tre graduati con tre telefonisti muniti di apparecchio telefonico da pattuglia, e quattro portatori di filo, che potevano stendere una linea telefonica di quattro chilometri.

Compagnia d'assalto:
Era formata su quattro plotoni d'attacco ed uno di specialisti con una forza organica di cinque ufficiali, sei sottufficiali, 35 caporali maggiori e caporali, 180 arditi.
La compagnia si spiegava su tre scaglioni: il primo, scaglione di fuoco, era costituito da due plotoni; il secondo ed il terzo scaglione, costituiti rispettivamente da un plotone, seguivano a relativa distanza, con funzioni di rincalzo, uno a destra e l'altro a sinistra. Tale disposizione dei plotoni dava modo al comandante della compagnia di eseguire con una certa elasticità la manovra per far fronte a qualunque minaccia proveniente da qualsiasi direzione, e di avere guardati e coperti i fianchi.
Conquistato l'obiettivo iniziava la delicata operazione del cambio; i plotoni di fanteria, giunti sulla posizione, si innestavano fra i plotoni d'assalto in modo che i fanti andassero a disporsi tra le coppie degli assaltatori. Avvenuta la consegna della linea tra i capi plotone, i plotoni d'assalto ripiegavano sulla trincea di partenza a scaglioni di plotone, a distanza di un quarto d'ora l'uno dall'altro. Rimanevano sul posto il comandante della compagnia d'assalto con la squadra guastatori e la squadra mitraglieri; questi vari elementi ritornavano alla base di partenza non appena gli ufficiali e la truppa di fanteria si fossero bene orientati, e la situazione non presentasse alcun sintomo di allarme immediato.

Reparto d'assalto:
Formato su tre compagnie con 24 pistole mitragliatrici, otto mitragliatrici pesanti e una sezione someggiata, aveva una forza organica di 19 ufficiali, 21 sottufficiali, 108 caporali maggiori e caporali, 568 arditi e 37 artiglieri.
Il reparto si spiegava con due compagnie in scaglioni di fuoco e le terza compagnia in secondo scaglione.
Analizzando le singole unità tattiche che componevano il I reparto d'assalto della Seconda Armata, possiamo notare come il colonnello Bassi studiò una dosatura di mezzi tale da garantire una costante superiorità di fuoco (che costringeva il nemico a tenersi riparato nell'impossibilità di impiegare i propri mezzi di offesa); lo scaglionamento in profondità della mitragliatrice, che accompagnava ininterrottamente le truppe assalitrici fino alla meta, ed il tiro di sbarramento, che proteggeva il possesso della posizione conquistata, furono gli obiettivi che Bassi perseguì attraverso i criteri organizzativi utilizzati dai reparti arditi a Sdricca.

 

 

 

1.6 Successi ed insuccessi

I successi e gli insuccessi dei reparti arditi durante la prima guerra mondiale risultano di difficile ricostruzione, a causa delle informazioni insufficienti e della difficoltà di isolare le loro azioni nelle battaglie in cui s'inserirono.
Solo per quanto riguarda i reparti d'assalto della Seconda Armata abbiamo dati certi; cercheremo quindi di descrivere a grandi linee quelli che furono i loro successi maggiori e le sconfitte che incrinarono il mito della loro invincibilità .
La prima azione bellica cui presero parte gli arditi di Sdricca fu la battaglia della Bainsizza, quando, nella notte tra il 18 e il 19 agosto 1917, la 1. e la 2. compagnia del I reparto d'assalto aprirono la via alla 22. divisione del XXVII corpo d'armata, forzando l'Isonzo a Loga ed Auzza e conquistando il sovrastante Monte Fratta.
Fu un successo pieno, furono catturati cinquecento prigionieri e otto mitragliatrici, tuttavia la rapidità di questa prima avanzata non fu sfruttata dai battaglioni di fanteria, che solo il 20 mattina rilevarono gli arditi sul monte conquistato.
Nella stessa notte tra il 18 e il 19 agosto la 3. compagnia del I reparto, lanciò un attacco a sorpresa a Belpoggio, propaggine del Monte San Marco, subito ad est di Gorizia. Gli assaltatori espugnarono all'arma bianca due ordini di trincee e le difesero dai contrattacchi fino alla sera del 19, poichè i rincalzi della fanteria erano bloccati dal fuoco dell'artiglieria austriaca. Si trattò di un'azione ad obiettivi limitati condotta con successo in cui le perdite furono dovute soprattutto al mancato arrivo dei rincalzi.
Qualche settimana dopo, il I reparto d'assalto tornò in azione sulla Bainsizza; le brigate di fanteria della Seconda Armata si logoravano nel tentativo di espugnare i monti San Gabriele e San Daniele, un complesso difensivo potentemente fortificato che aveva il compito di impedire l'aggiramento da nord del Carso all'esercito italiano. Per sbloccare la situazione di stallo, Capello decise di utilizzare gli arditi e ordinò a Bassi di preparare un attacco al San Gabriele.
Furono utilizzate la 2., 3. e la 4. compagnia, 475 uomini in tutto, alla testa di tre colonne di fanteria che dovevano sferrare l'attacco vero e proprio.
All'alba del 4 settembre l'assalto degli arditi ebbe inizio, ma la 4. compagnia, a destra, dovette arrestarsi dinanzi al caposaldo di Santa Caterina; la 3. compagnia, a sinistra, riuscì a prendere di slancio il fortino di Dol, aggirando poi da nord il San Gabriele, mentre la 2. compagnia, al centro, riuscì in tre quarti d'ora a conquistare tutte le trincee austriache, giungere in cima al monte ripulendo il sistema di fortificazioni, gallerie, caverne e ricongiungendosi poi con la 3. compagnia sulla sella tra il San Gabriele e il San Daniele.
A questo punto gli arditi si trovarono soli, perchè il fuoco d'interdizione austriaco riuscì a distruggere i battaglioni di fanteria che dovevano agire da rincalzo; nonostante le forti perdite e l'armamento inadeguato alla difensiva, gli arditi riuscirono a resistere ai contrattacchi, conservando la vetta del San Gabriele e il fortino di Dol fino a sera, quando finalmente la fanteria riuscì a rilevarli.
Complessivamente le tre compagnie del I reparto d'assalto catturarono 3100 prigionieri (tra cui un generale e due colonnelli), 55 mitragliatrici e 26 cannoncini da trincea; avevano avuto 61 morti in combattimento ed un numero di feriti pari alla metà circa della loro forza.
Il 29 settembre gli arditi tornarono nuovamente sulla Bainsizza, a Madoni, con la 1. compagnia del II reparto. Dopo un'azione breve ma intensa dell'artiglieria, la 1. compagnia, rinforzata da mezza compagnia di arditi reggimentali della brigata Venezia, scattò in avanti sfruttando il fattore sorpresa e conquistò tre ordini di trincee, difendendole dai successivi contrattacchi. Le perdite furono pesanti (non disponiamo però di dati precisi) ma il successo pieno; furono catturati 2400 prigionieri e 25 mitragliatrici.
Queste furono le più importanti azioni degli arditi della Seconda Armata prima di Caporetto, coinvolsero un numero limitato di uomini, in sostanza qualche centinaio di assaltatori, meno di cinquecento sul San Gabriele, loro massimo successo.
E' opinione condivisa come, gli arditi della Seconda Armata, dimostrarono di saper condurre assalti con un'efficacia nuova rispetto alle precedenti esperienze nell'esercito italiano.
Di fronte a questi successi era difficile non credere che fosse stato messo a punto lo strumento per dominare e risolvere la guerra di trincea. Qui però si evidenziò il limite di questi primi successi: la difficoltà di coordinare l'azione degli arditi con le normali unità di fanteria di rincalzo.
Fu questa la nota negativa della decisione di fare degli arditi una specialità a sè, anzichè integrarli nella fanteria; non era, infatti, stata presa alcuna misura per assicurare la collaborazione tra le truppe d'assalto, che dovevano conquistare celermente gli obiettivi preposti, ed i pesanti battaglioni che li seguivano (di cui non condividevano nè l'addestramento, nè l'armamento).
Bisogna però anche ricordare un problema di fondo: lo sfruttamento del fattore sorpresa da parte degli arditi imponeva la rinuncia ad una massiccia preparazione d'artiglieria; tale strategia veniva però a ritorcersi contro la fanteria di rincalzo, che doveva attraversare una zona battuta dal fuoco di interdizione dell'artiglieria nemica per riuscire a rilevare gli assaltatori e consolidarne le conquiste.
Come abbiamo visto, quindi, il mito degli arditi ebbe inizio con i successi dei reparti della Seconda Armata che, a meno di un mese dalla sua costituzione ufficiale, presero parte alla XI battaglia dell'Isonzo e venne ancor più alimentato dopo la conquista del monte San Gabriele del 4 settembre.
Ancor prima dei loro successi, però, il I reparto d'assalto divenne il modello per lo sviluppo della specialità , tanto che il 10 agosto il comando supremo ordinò alle armate Prima, Terza e Quarta di inviare per quindici giorni un ufficiale superiore al campo di Sdricca, che avrebbe poi dovuto costituire i reparti d'assalto della propria armata.
Abbiamo precedentemente evidenziato come, alla vigilia di Caporetto, vi erano venti reparti d'assalto o poco più, di forza ed efficienza assai variabili e che solo i reparti della Seconda Armata potevano considerarsi completamente addestrati.
In questo primo periodo, inoltre, il comando supremo lasciò l'iniziativa della formazione e della preparazione degli arditi alle singole armate, comportando così una notevole disomogeneità di organizzazione e preparazione tra i diversi reparti d'assalto.
Il 24 ottobre 1917, le truppe austriache, sostenute da rinforzi tedeschi, inflissero una grave sconfitta all'esercito italiano, scompaginandone le linee a Caporetto. Ne seguì una precipitosa e disordinata ritirata che spostò la linea del fronte fino al fiume Piave, lasciando quindi in mano al nemico l'intero Friuli, la Carnia, il Cadore ed una parte del Veneto.
Alla ritirata di Caporetto seguirono violente critiche sull'andamento impresso alle operazioni belliche da parte dei Comandi Supremi; tali critiche investirono anche il comportamento degli arditi ed a seguito di queste fu istituita una Commissione d'inchiesta.
Le accuse mosse agli arditi riguardavano il loro comportamento durante la ritirata ed in particolare ad episodi di disgregamento dei reparti, violenza, saccheggi ed indisciplina. Le polemiche più dure investirono i reparti d'assalto della Seconda Armata che, dopo i primi giorni della battaglia in cui furono fatti muovere tra la Bainsizza e Udine, vennero posti agli ordini del XXVII corpo d'armata di Badoglio.
Il 28 ottobre il I reparto d'assalto fu incaricato della difesa di Udine; privo di mitragliatrici e con il solo munizionamento individuale, il reparto resistè mezza giornata, poi fu travolto, lasciando sul terreno 390 tra morti e feriti e 70 prigionieri, mentre un centinaio di uomini riuscì a sfuggire all'accerchiamento.
Gli altri reparti costituirono la retroguardia del XXVII corpo d'armata, prodigandosi in piccole azioni di contenimento, combatterono sul Tagliamento a difesa di Pinzano, poi ripiegarono sul Piave. Il 3 novembre i reparti della Seconda Armata, concentrati a Pieve di Soligo, poterono riordinarsi e riarmarsi; combatterono quindi in difesa della testa di ponte di Vidor fino al 10 novembre, poi furono ritirati nelle retrovie, ma non avevano perso la loro efficienza ed, infatti, poterono essere utilizzati sul Monfenera poco dopo.
Da questi resoconti appare subito chiaro che gli alti comandi, nel tentativo di tamponare le falle, a seguito del crollo del fronte, impiegarono i reparti arditi come normali truppe di fanteria, senza considerare che, a livello di addestramento e di armamento, non erano idonei alla difensiva; Nonostante ciò i reparti d'assalto conservarono un solido nucleo combattivo e riacquistarono efficienza e compattezza non appena la ritirata si fece più lenta e ordinata.
Quanto agli atti di violenza è noto a tutti che, quando centinaia di soldati rimasero senza rifornimenti, non mancarono furti e rapine ai danni della popolazione ad opera di sbandati e di unità regolari, ma il tentativo di attribuire agli arditi una responsabilità maggiore rispetto alle altre truppe non sembra avere fondamento.
In definitiva concordiamo con Rochat quando sostiene che, il comportamento dei reparti d'assalto della Seconda Armata nella ritirata, fu adeguato alla loro fama di truppe di alto morale, colpite ma non travolte dalla crisi dell'esercito, capaci quindi di ripiegare in relativo ordine e con una disciplina non molto diversa dalle altre unità . Nessun reparto d'assalto si sfasciò, ed anzi gli arditi poterono tornare in linea già nella battaglia del Grappa.
Nel novembre 1917, a seguito del disastro di Caporetto, il generale Cadorna fu sostituito a capo dell'esercito italiano dal generale Armando Diaz.
Il comando supremo di Diaz elaborò un piano per il riordinamento dell'esercito che prevedeva, tra l'altro, la riorganizzazione dei reparti d'assalto; la precedenza era ovviamente attribuita al rafforzamento delle normali unità di fanteria, da cui in ultima analisi dipendevano le sorti della battaglia.
I battaglioni ebbero perciò un armamento più potente e vario, un addestramento più curato e condizioni generali di vita meno massacranti; fu inoltre deciso il consolidamento della divisione, che diventava di norma inscindibile, con lo scopo di garantire un migliore affiatamento tra le varie armi.
I reparti d'assalto si erano dimostrati molto efficaci, quindi dovevano essere conservati con le loro caratteristiche, ma dovevano perdere quell'autonomia e quel ruolo particolarissimo che Capello aveva loro richiesto, e inserirsi senza scosse nelle ordinate strutture del nuovo esercito come regolari truppe suppletive di corpo d'armata.
Il colonnello Bassi fu allontanato dal comando dei sei reparti d'assalto della Seconda Armata e destinato ad un reggimento di fanteria; fu quindi deciso di non ricostituire i campi d'addestramento d'armata, perchè il concentramento a Sdricca di tanti arditi alle dipendenze dirette di Capello pareva aver dato loro troppa indipendenza, ed i reparti d'assalto passarono agli ordini dei comandi di corpo d'armata, in ragione di un reparto ogni corpo d'armata.
In tal modo divenne possibile un'organizzazione uniforme dei reparti arditi per tutto l'esercito, senza le grandi differenze che avevano caratterizzato i reparti d'assalto delle varie armate nel 1917.
Con un gesto molto significativo in tal senso, fu decisa, l'8 gennaio 1918, dal comando supremo, una numerazione unica per i ventuno reparti d'assalto esistenti o programmati, al posto della vecchia numerazione per armata che li aveva fino ad allora contraddistinti. Dopo una serie di scioglimenti, ricostituzioni e cambiamenti di numero, i ventuno reparti d'assalto dovevano avere i numeri da I a XIII, XVI e XVII, da XIX a XXIV.
Tutti i reparti d'assalto furono inoltre organizzati secondo uno schema uniforme: tre compagnie di 150 arditi armati di moschetto, pugnale e bombe thèvenot, tre sezioni mitragliatrici, sei sezioni di pistole mitragliatrici e sei sezioni di lanciafiamme; in totale circa 600 uomini. In pratica, gli arditi mantenevano la ricca dotazione di armi automatiche, riunite però in apposite sezioni anzichè integrate nelle compagnie e nei plotoni d'assaltatori come avveniva a Sdricca.
Immutata era la divisa, che nel 1918 fu completata con il fez nero e poi forzatamente modificata con l'introduzione di camicia grigioverde e cravatta nera invece del maglione grigioverde, non disponibile nelle quantità necessarie. Furono mantenuti anche gli altri privilegi, dal soprassoldo all'abolizione dello zaino.
Nel gennaio 1918, il I ed il II reparto d'assalto (composti da arditi già addestrati, provenienti tutti dal campo di Sdricca) furono inviati nell'altopiano di Asiago, dove parteciparono alla cosiddetta battaglia dei tre monti: Valbella, Col del Rosso, Col d'Echele.
All'azione parteciparono, oltre agli arditi, tre brigate di fanteria, tre reggimenti di bersaglieri, cinque battaglioni alpini ed un notevole schieramento di artiglieria.
Il 28 e il 29 gennaio, dopo durissimi combattimenti, i tre monti furono conquistati; oltre 2500 furono i prigionieri catturati; cento mitragliatrici, 15 bombarde ed alcuni cannoni furono, invece, il materiale bellico conquistato.
Vediamo ora le vicende del VI reparto d'assalto della Quarta Armata che, a seguito della riorganizzazione, fu assegnato al IX corpo d'armata, sul Grappa, di cui assunse il numero, secondo le nuove disposizioni del comando supremo. Nel febbraio il comando del IX reparto venne assunto dal maggiore Giovanni Messe, ufficiale energico e provato, che rilanciò l'addestramento secondo le esperienze di Sdricca: molta ginnastica, molto poligono, realistiche esercitazioni a fuoco, avanzata sotto l'arco della traiettoria dell'artiglieria e assalto alla "collina tipo"; in questo modo il reparto divenne un eccellente strumento bellico, come dimostrarono le sue imprese sul Grappa nel giugno 1918.
L'offensiva austriaca sul Grappa riuscì a sfondare il IX corpo d'armata e, a mezzogiorno del 15 giugno 1918, le truppe austriache riuscirono ad occupare le posizioni avanzate di Col del Miglio, Col Moschin, Col Fenilon e Col Fagheron, i capisaldi della linea di resistenza. L'esercito italiano iniziò quindi un intenso fuoco di sbarramento sulle posizioni perdute, bloccando l'afflusso di rincalzi e rifornimenti; il IX reparto d'assalto potè quindi sferrare l'assalto al Col Fagheron in condizioni favorevoli, riconquistando di slancio la posizione nel primo pomeriggio.
Procedè quindi contro il Col Fenilon, che fu raggiunto e conquistato con un centinaio di prigionieri; all'alba del 16 il IX reparto d'assalto attaccò e occupò anche il Col Moschin, prendendo 300 prigionieri e 25 mitragliatrici. Nel giro di ventiquattrore, la vitale linea di resistenza sul versante occidentale del Grappa era stata perduta dal IX corpo d'armata e riconquistata dal IX reparto d'assalto, comandato dal maggiore Messe.
Il 24 giugno il IX reparto fu lanciato all'assalto dell'Asolone, contro posizioni ben presidiate e protette da un intenso fuoco d'artiglieria, a prezzo di forti perdite il reparto di Messe riuscì ad arrivare sulla vetta dell'Asolone cacciando gli austriaci, ma non riuscì a resistere al fuoco di artiglieria ed ai contrattacchi e dovette cedere il terreno conquistato; nel combattimento morirono 19 ufficiali e 305 arditi, circa la metà della sua forza, dimostrando ancora una volta agli alti comandi che il valore degli arditi non bastava a sfondare il fronte nemico senza il fattore sorpresa ed una preparazione accurata degli assalti.
Il 10 giugno, intanto, fu costituita, con nove reparti d'assalto, la 1. divisione d'assalto, agli ordini del generale Ottavio Zoppi; ad essa fece seguito, il 27 giugno, la 2. divisione d'assalto agli ordini del generale Ernesto de Marchi.
Le due divisioni furono riunite nel corpo d'armata d'assalto, agli ordini del generale Francesco Saverio Grazioli (che abbiamo già incontrato nella fase della nascita dei reparti d'assalto), ed ebbero uguale composizione: tre gruppi d'assalto, ognuno composto di due reparti d'assalto e un battaglione bersaglieri, un gruppo di artiglieria da montagna e un battaglione genio, un battaglione bersaglieri ciclisti ed uno squadrone di cavalleria. La mancanza di artiglieria dimostrava che alle divisioni d'assalto si continuava a chiedere soltanto assalti rapidi, senza preparazione diretta d'artiglieria nè preparazione in profondità .
La creazione di una divisione e di un corpo d'armata d'assalto rappresentava un cambiamento nella linea di condotta del comando supremo decisa dopo Caporetto; un mese prima aveva, infatti, ordinato che ogni reparto d'assalto assumesse il numero del corpo d'armata cui era assegnato per sottolineare proprio la stabilità di questo legame e l'importanza dell'affiatamento tra arditi e fanteria, ed ora invece toglieva a nove (e poi dodici) corpi d'armata i loro reparti d'assalto per impiegarli in massa sul campo di battaglia. L'intenzione del comando supremo era di formare una massa di arditi capaci di attuare un'ampia rottura del fronte.
La convinzione però che sarebbe bastato ampliare le dimensioni dell'assalto per assicurare la ripetizione su grande scala dei successi degli arditi risultò errata, poichè le divisioni d'assalto non presentavano progressi rispetto ai reparti d'assalto della Seconda Armata di Capello, ma semmai diminuivano l'efficacia dei loro reparti ammassandoli in formazioni ricche di uomini e povere di mezzi.
Tale conclusione ci sembra confermata dal fatto che, le azioni delle due divisioni d'assalto impiegate nella battaglia di Vittorio Veneto (che portò all'armistizio con gli austriaci firmato a Villa Giusti), non ebbero il risultato sperato; le circostanze (in primo luogo la piena del Piave) fecero fallire la manovra a tenaglia del corpo d'armata d'assalto, negando a quest'ultimo un ruolo nella battaglia.
Il 29 ottobre 1918 l'intero fronte austriaco sul Piave fu travolto ed anche le due divisioni d'assalto varcarono il fiume ed avanzarono nella pianura, mentre l'esercito austriaco entrava in una profonda crisi. I successi dei giorni seguenti non meritano quindi rilievo, perchè ottenuti contro un nemico che non si batteva più.
In questi ultimi giorni di combattimenti, vi furono situazioni caotiche, come ad esempio a Sernaglia, in cui si trovarono ad agire fianco a fianco 8.000 tra arditi e bersaglieri e l'organizzazione di comando saltò. L'esperienza delle due divisioni d'assalto a Vittorio Veneto sembra confermare la difficoltà di passare da un'unità elementare di combattimento come il reparto d'assalto, collaudato ed efficace su obiettivi limitati, ad una grande unità complessa, con compiti più ambiziosi e mezzi tecnici inferiori alle necessità .

CAPITOLO 2

I REPARTI ARDITI NEL PRIMO DOPOGUERRA

2.1 Armistizio e scioglimento dei reparti d'assalto

La vittoria italiana di Vittorio Veneto del 3 novembre 1918 pose fine alla guerra con l'Austria ed il giorno seguente, a Villa Giusti, presso Padova, fu firmato l'armistizio. L'11 novembre, con la definitiva resa della Germania, si celebrò la fine della prima guerra mondiale.
La fine degli arditi come specialità dell'esercito fu praticamente decisa dagli alti comandi all'indomani stesso dell'armistizio. Nel novembre 1918 il generale Francesco Saverio Grazioli, che nel 1917 era stato uno dei padri degli arditi e nel 1918 aveva impostato e comandato il corpo d'armata d'assalto, propose senza mezzi termini l'abolizione dei reparti d'assalto.
La posizione di Grazioli è chiaramente espressa in un "promemoria sulla sorte possibile delle truppe d'assalto" diretto al comando dell'Ottava Armata, datato 18 novembre 1918, in cui sostiene che:
"Cessata la guerra, cessata l'occasione di menar le mani, di dar prova della loro audacia, di far bottino, di farsi belli delle loro imprese, la loro natura scapigliata ed esuberante o si perderà , ed allora diventeranno ordinaria fanteria che non giustificherebbe le forme esterne e l'appellativo ufficiale loro proprio, ovvero persisterà , ed allora sarà estremamente difficile a chicchessia di contenerla, di evitare deplorevoli infrazioni disciplinari e forse reati, che offuscherebbero la loro stessa gloriosa fama andatasi formando con la guerra."
Gli arditi erano stati creati per far fronte ad esigenze particolari della guerra di trincea ed erano caratterizzati da un addestramento curato ed efficace ma, come abbiamo visto, anche da una serie di privilegi che li distinguevano dalle altre truppe di fanteria. Gli strappi alla disciplina, il soprassoldo, l'esenzione dai massacranti turni di trincea, migliori condizioni di vitto e alloggio e la concessione di una divisa particolare ebbero il duplice scopo di dare agli arditi uno spirito di corpo elevatissimo ed un'aggressività eccezionale, come contropartita dei rischi che correvano, ma furono anche elementi costitutivi del mito, espressione della volontà degli alti comandi di fornire all'opinione pubblica ed alla massa di combattenti un mito positivo di soldato vittorioso.
Queste motivazioni vennero, ovviamente, a cadere alla fine della guerra, in un momento in cui l'interesse degli alti comandi era indirizzato alla smobilitazione dell'esercito ed alla sua riorganizzazione.
Come giustamente fa notare Rochat, l'ardito fu sempre un simbolo ambiguo: "non l'eroe senza macchia nè senza paura, nè il soldatino tutto patria e famiglia della tradizione oleografica, ma l'eroe terribile, ricco di qualità così spiccate da diventare anche vizi. Si pensi alla sua fama di accoltellatore: il pugnale dell'ardito incuteva fiducia a lui e timore agli austriaci, ma dava qualche brivido e pensiero anche all'opinione pubblica che pure gli si affidava."
Continuando la lettura del promemoria di Grazioli si può constatare come, l'unico impiego che il generale prospettava per gli arditi era l'invio in Africa come "truppa coloniale metropolitana".
Le conclusioni di Grazioli furono pienamente approvate dal generale Caviglia, comandante dell'Ottava Armata, e subito accettate e tradotte in pratica dal comando supremo, che destinò in Libia la 1. divisione d'assalto, sciolse in novembre il corpo d'armata d'assalto, tra gennaio e febbraio 1919 tutti i reparti d'assalto non indivisionati ed il 26 febbraio la 2. divisione d'assalto.
Salvo ritardi nelle operazioni burocratiche, nel marzo 1919 gli unici reparti d'assalto ancora esistenti erano i sei della 1. divisione d'assalto destinati in Africa.
Bisogna tener presente che il 1919 diede inizio a quello che viene comunemente chiamato "biennio rosso", un periodo dominato dalle grandi lotte di massa e da aspri scontri all'interno della classe dirigente; il primo e più acceso terreno di scontro fu la valutazione politica della guerra appena conclusa.
La protesta di massa contro la guerra esplose violentemente nell'estate 1919; la stampa socialista, e in particolar modo l'Avanti!, offre una testimonianza del rapidissimo sviluppo e della grande asprezza della campagna contro quella che venne definita la guerra "infame". La prospettiva patriottica veniva brutalmente rovesciata: non più eroismi coscienti e operazioni abilmente preparate, ma comandi incapaci per stupidità e cieco autoritarismo, soldati logorati dalla vita abbrutente di trincea e massacrati in attacchi fallimentari.
Parallelamente alla campagna antimilitarista socialista si sviluppò, all'interno dei reparti arditi, la convinzione, alimentata in modo notevole da due anni di guerra, di essere una aristocrazia militare, cui la nazione intera doveva essere debitrice della vittoria che aveva lavato l'onta di Caporetto.
Queste rivendicazioni segnarono l'ingresso degli arditi nella lotta politica del dopoguerra ed avvenne attraverso la mediazione di due gruppi diversi, ma vicini e presto alleati: i futuristi e il Popolo d'Italia di Mussolini. Tra le varie componenti dell'interventismo patriottico i futuristi furono i primi a rivolgersi agli arditi come ad una forza politica autonoma e rinnovatrice, che nelle contese del dopoguerra poteva e doveva continuare l'opera intrapresa in guerra.
Considerando che nei primi mesi del 1919 la smobilitazione dell'esercito e lo scioglimento di reparti e grandi unità erano appena agli inizi, il drastico ridimensionamento delle truppe d'assalto esprimeva chiaramente l'avversione degli alti comandi verso gli arditi, maturata quando la loro politicizzazione era ancora nella fase iniziale.

 

2.2 Motivazioni dello scioglimento

La motivazione principale che indusse gli alti comandi a decretare lo scioglimento dei reparti arditi, nei primi mesi del 1919, fu la preoccupazione suscitata dalla loro politicizzazione.
Il 20 settembre 1918, il tenente (e poi capitano) degli arditi Mario Carli, lanciò un Primo appello alle fiamme sul settimanale Roma futurista per lamentarsi delle prime voci relative allo scioglimento dei reparti d'assalto e, sempre sullo stesso giornale, il 10 dicembre 1918 lanciò un Secondo appello alle fiamme per la fondazione di un'Associazione arditi.
La "Associazione fra gli arditi d'Italia" fu, in effetti, fondata a Roma da Mario Carli l'1 gennaio 1919; qualche giorno dopo, il 19 gennaio, Ferruccio Vecchi (capitano degli arditi e futurista) costituì la sezione milanese dell'Associazione arditi, che aveva come recapito l'abitazione di Filippo Tommaso Marinetti, ideatore e leader dei futuristi.
L'Associazione era stata costituita con lo scopo prevalente di prestare aiuto agli arditi smobilitati attraverso rivendicazioni di tipo corporativo ed, infatti, il suo statuto enunciava all'articolo 2 che: "L'Associazione non ha scopo politico". Malgrado ciò infrangeva i regolamenti dell'esercito perchè si rivolgeva, senza autorizzazione, anche ai militari in servizio ma le autorità intervennero così blandamente da fornire, di fatto, un avallo.
Gli arditi furono, anzitutto, antisocialisti in modo deciso. Il Partito Socialista si era mantenuto, durante la guerra, rigidamente neutralista; il suo atteggiamento era stato compendiato nella formula di Costantino Lazzari : "Nè aderire, nè sabotare". Furono antigiolittiani, poichè nel 1915 si erano pronunciati contro la guerra, insistendo sulla possibilità di ottenere le rivendicazioni italiane attraverso trattative diplomatiche.
Furono anche contro il Partito Popolare che, sebbene fosse stato fondato nel gennaio 1919, rappresentava per gli arditi la continuazione di quel clericalismo che, con Benedetto XV, aveva definito la guerra una "inutile strage".
I primi mesi del 1919 furono quindi dedicati ad organizzare l'Associazione; in quest'opera gli arditi furono affiancati dai futuristi, con i quali condividevano una forte matrice interventista.
I futuristi esercitarono un ascendente notevole sull'Associazione arditi e concorsero in modo determinante a fissarne le linee del programma e d'azione. Futuristi ed arditi, cioè, o Arditi-Futuristi, come fu anche sinteticamente detto, costituirono per qualche tempo un binomio indissolubile.
Nella Milano tesa e preoccupata dei primi mesi di smobilitazione l'Associazione arditi raggiunse rapidamente una certa consistenza e notorietà , in stretto contatto, oltre che con i futuristi, con Mussolini e con le forze più irrequiete del fronte patriottico.
In cambio di un appoggio politico, propagandistico ed economico (fu Mussolini a procurare loro i finanziamenti di industriali che permisero all'Associazione di vivere e in marzo di aprire una piccola sede in via Cerva) gli arditi milanesi accettarono di qualificarsi come braccio armato del nascente fascismo. Squadre di arditi armati presidiarono regolarmente la redazione del Popolo d'Italia in via Paolo da Cannobbio e poi la sede della loro associazione in via Cerva, con la connivenza della polizia; e il 23 marzo 1919 due manifestazioni pubbliche riunirono praticamente lo stesso nucleo di militanti, la celebrazione dell'arditismo tenuta da Mario Carli e la fondazione dei fasci di combattimento presieduta da Ferruccio Vecchi.
A marzo l'Associazione arditi contava sezioni a Torino, Napoli, Ancona, Firenze, Palermo, Genova, Mondovì oltre che a Roma e Milano; non sappiamo però molto sull'attività di queste sezioni, anche perchè soltanto a Milano gli arditi riuscirono ad avere un certo ruolo politico.
Il legame tra il nascente fascismo e gli arditi fu consacrato il 15 aprile 1919. Per quel giorno i socialisti milanesi avevano proclamato lo sciopero generale in segno di protesta contro l'uccisione di un loro militante per mano della polizia, con un grande comizio di protesta all'Arena ed un corteo nel centro della città . Gli arditi, capeggiati da Ferruccio Vecchi, si incaricarono di organizzare una risposta con una contromanifestazione patriottica che non superò i trecento aderenti, tra cui però una quarantina di arditi armati ed una ventina di ufficiali di complemento. Quando il corteo socialista si affacciò all'ingresso di piazza Duomo, gli arditi lo attaccarono lanciando bombe a mano e lo volsero rapidamente in fuga, poi si diressero verso la sede dell'Avanti! in via San Damiano. Il cordone di soldati che presidiavano l'edificio fu travolto facilmente (un soldato restò ucciso), la resistenza dei redattori socialisti fu sopraffatta dal fuoco degli assalitori e la sede del quotidiano operaio fu conquistata, devastata e poi data alle fiamme. Mussolini, che pure, durante l'azione, era rimasto alla sede del suo giornale, accolse gli arditi che si erano recati a omaggiarlo subito dopo l'attacco e glorificò l'episodio su il Popolo d'Italia. Nei giorni seguenti Vecchi e Marinetti, che avevano diretto le operazioni, dovettero scomparire dalla circolazione. Furono presi alcuni provvedimenti disciplinari, ma piuttosto blandi ed in forma tale da dimostrare che le autorità politiche e militari, in sostanza, coprirono i responsabili dell'aggressione e dell'incendio contro la protesta di massa promossa dai socialisti.
Gli arditi, se volevano evitare di essere assorbiti del tutto nel movimento mussoliniano, in cui pure militavano, e conservare un'identità di gruppo, dovevano cercare di assumere l'iniziativa nell'unico campo in cui erano maestri, lo scontro armato: e fu appunto ciò che avvenne con l'aggressione al corteo socialista e l'incendio della sede dell'Avanti! il 15 aprile. Questa scelta degli arditi rappresentò un salto di livello nella lotta politica italiana: per la prima volta pistole e bombe a mano erano state impiegate su così larga scala da permettere a pochi uomini bene addestrati e militarmente organizzati di avere ragione di molte migliaia di scioperanti, con l'aperta connivenza delle forze dell'ordine. Fu l'esordio clamoroso dello squadrismo, che gli arditi sfruttarono per rafforzarsi.
La novità rappresentata dagli arditi nella scena politica italiana è chiaramente espressa da Renzo De Felice, il più noto storico del fascismo, che scrive: "La lotta politica italiana era stata una lotta in famiglia, di oratori, di manifesti, di giornali, di manifestazioni e di comizi rumorosi ma pacifici. Ora gli arditi misero la lotta politica su un piano nuovo, organizzandola con criteri militari."
Possiamo inoltre notare come, nel 1919, i reduci di tutte le armi si andavano organizzando unitariamente nella Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra (Anmig) e nella Associazione nazionale combattenti (Anc), entrambe di orientamento patriottico e liberal-democratico. In questo quadro il fatto che la più giovane specialità dell'esercito ritenesse di dover creare una propria organizzazione sottintendeva una scelta isolazionista ed elitaria che continuava l'atteggiamento di distacco e di superiorità sempre tenuto dai reparti d'assalto verso gli altri corpi dell'esercito.
Come abbiamo già evidenziato, nel marzo 1919 gli unici reparti d'assalto ancora esistenti erano i sei della 1. divisione inviati in Libia, ma, paradossalmente, fu proprio l'affermazione dell'Associazione arditi nelle lotte civili a convincere le autorità militari a rilanciare la specialità . In aprile, Caviglia, divenuto ministro della guerra, decise la ricostituzione di un certo numero di reparti d'assalto (di cui cinque mesi prima aveva chiesto lo scioglimento) e, in una circolare diretta ai comandi dipendenti si riferì agli episodi di violenza degli arditi sostenendo: "E' invece mio intendimento di non addivenire allo scioglimento di un Corpo che ha dato tanto glorioso contributo alla nostra vittoriosa guerra. E in tale proposito mi conferma sempre più l'atteggiamento ormai palese dei partiti sovversivi di attirare dalla loro parte gli arditi, cercano di allarmare il Paese esagerando ogni più piccolo incidente in cui i medesimi abbiano preso parte ed indurre il Governo a sopprimere un Corpo in cui ormai ravvisano il più pericoloso ostacolo all'attuazione dei loro iniqui piani."
Questa dichiarazione del ministro della guerra Caviglia rappresentò, di fatto, una specie di salvacondotto per la lotta ai sovversivi condotta dagli arditi, sia in congedo sia in servizio e dava l'indice del mutato atteggiamento degli alti comandi verso la politicizzazione dei reparti d'assalto.

2.3 Invio in Libia di alcuni reparti arditi

Dalla lettura del "promemoria sulla sorte possibile delle truppe d'assalto", stilato dal generale Grazioli nemmeno quindici giorni dopo la fine delle ostilità , si può constatare come venga presa in esame la possibilità che un impiego bellico delle truppe d'assalto potesse essere destinato a continuare.
Dopo una premessa, nella quale si richiamava l'attenzione sul fatto che la peculiarità delle truppe d'assalto non era stato uno speciale armamento bensì uno speciale addestramento che ormai doveva essere pianificato come estensibile a tutta la fanteria, il generale Grazioli suggeriva che:
" si affaccia qui l'ipotesi di un loro impiego come truppa coloniale metropolitana, impiego che io ritengo (anche per l'esperienza che ho delle colonie) possibilissimo e utilissimo purchè a base di reclutamento volontario, compresi gli ufficiali. L'idea merita di essere presa in considerazione d'accordo col ministero delle colonie, badando però che sono truppe che per rendere molto esigono trattamenti speciali larghi e remunerativi."
Questo suggerimento fu accolto dal comando supremo che, alle due divisioni chieste dal ministro delle colonie per la ripresa delle operazioni in Tripolitania aggiunse la 1. divisione d'assalto che tuttavia, per motivi connessi alla scarsa disponibilità di navi mercantili, fu costretta a ritardare la partenza dal porto di Venezia fino al 18 marzo 1919. Fra gennaio e febbraio tutti i reparti d'assalto non indivisionati furono sciolti ed i militari che ad essi appartenevano utilizzati come complementi per la divisione che si accingeva a partire per l'Africa. Al momento dello scioglimento della 2. divisione d'assalto gli arditi che ne facevano parte furono invece tutti rinviati all'arma o specialità d'origine.
L'occupazione italiana in Libia si era ridotta dopo il 1914 ad una stretta striscia di territorio lungo il Mediterraneo, con diverse discontinuità . Il presidio dei centri costieri maggiori era mantenuto, ma gli insorti arabi controllavano tutto il retroterra e si spingevano a breve distanza dalle città .
In vista delle prossime trattative di pace, era importante che l'Italia potesse riaffermare saldamente il proprio dominio sulla colonia; perciò, subito dopo la fine delle ostilità , il ministero delle colonie, che era allora responsabile anche della difesa dei territori oltremare, chiese al comando supremo le truppe necessarie alla riconquista.
In realtà Tripolitania e Cirenaica erano già presidiate da notevoli aliquote di truppe, ammontanti nell'ottobre 1918 a circa 80.000 uomini; ma evidentemente mancavano sia gli armamenti adeguati, sia i mezzi per assicurare l'opportuna mobilità . Con pronta adesione alla richiesta il comando supremo dispose verso la fine di novembre la costituzione di un piccolo ma robusto corpo di spedizione.
Il concetto direttivo era basato sulla costituzione, facendo largo affidamento sulle truppe già sul posto, di un corpo di operazioni su tre divisioni, due del tipo normale ed una d'assalto. Quest'ultima, leggera e largamente dotata di mezzi meccanici, era in eccedenza rispetto alle richieste del governo della Tripolitania. In vista del suo impiego in Africa, infatti, la 1. divisione d'assalto fu privata della cavalleria e del battaglione ciclisti e rinforzata con la 15. squadriglia autoblindomitragliatrici.
Alla base dell'invio in Africa della 1. divisione d'assalto vi era perciò la convinzione che, in particolar modo la Libia, sarebbe andata incontro negli anni a venire, a grosse operazioni di riconquista, comportanti difficili problemi di controguerriglia per i quali la grande unità d'assalto, per la sua articolazione, per le proprie caratteristiche e per quelle del teatro operativo poteva risultare particolarmente utile.
Oltre alle motivazioni di carattere militare che suggerirono l'invio degli arditi in Libia vi furono anche considerazioni di natura politica, in particolare la preoccupazione espressa dai comandi che le stesse ottime qualità belliche e personali dimostrate in guerra sarebbero state fonte di preoccupazione e che il loro impiego in servizio di ordine pubblico avrebbe potuto costituire un pericolo grave, anche per certi tentativi dei futuristi di annetterseli.
Come abbiamo già visto, però, in aprile Caviglia, divenuto nel frattempo ministro della guerra, riteneva di dover recedere dalla posizione assunta nel novembre precedente sulla scia della proposta Grazioli e disponeva per la ricostituzione di un certo numero di reparti d'assalto, con personale variamente recuperato, presso i Corpi d'Armata e le divisioni territoriali. Molti anni dopo, terminata anche la seconda guerra mondiale, Caviglia giustificava l'inversione di tendenza con queste parole:
"ma quale Ministro della Guerra vidi la necessità di conservarle. Nei momenti politici torbidi che stava attraversando l'Italia, essi costituivano una forza utile nelle mani del governo, perchè erano assai temuti per la loro tendenza all'azione rapida e violenta. Sciogliendoli, sarebbero passati a rinforzare i partiti rivoluzionari. Conveniva mantenerli anche perchè per mezzo dei battaglioni organizzati si poteva controllare parte degli arditi già congedati, i quali si mantenevano sempre in relazione con i rispettivi reparti."
In conseguenza di ciò, l'1 maggio 1919 il generale Pirzio Biroli era nominato ispettore dei reparti arditi del territorio. Nel giugno 1919 la 1. divisione d'assalto rientrava dalla Libia e, dopo un breve periodo di permanenza alle dipendenze della Prima Armata fra Cremona, Guastalla e Reggio Emilia, veniva inviata da Alberico Albricci, subentrato a Caviglia quale ministro della guerra a seguito della crisi del governo Orlando, nella zona fra Aidùssina e Postumia, nei pressi della linea d'armistizio. Era un'ulteriore inversione di tendenza in negativo nei confronti delle truppe d'assalto, perchè il trasferimento della 1. divisione d'assalto al confine orientale coincideva con il contemporaneo, accelerato rientro dalla zona di guerra in territorio nazionale delle altre unità dell'esercito.
La decisione di Albricci, di stanziare nei pressi della linea armistiziale i reparti d'assalto ancora in vita, rispondeva alla necessità politica di evitare in tutti i modi la possibilità di scontri armati tra gli arditi ed i socialisti in rapida crescita. Anche il nuovo presidente del consiglio, Nitti, non tardò a chiedere lo scioglimento dei reparti d'assalto, sulla base di rapporti di polizia che accusavano l'Associazione arditi di provocare incidenti e soprattutto di orientarsi "in senso di ostilità alle istituzioni".
Dal punto di vista militare, il rientro dalla Libia della 1. divisione d'assalto fu deciso dopo che il 14 aprile 1919 fu stipulato un accordo, destinato peraltro ad una breve durata, con i principali esponenti della popolazione tripolina che fece ritenere la presenza di una divisione d'assalto superflua per i compiti da svolgere.
Inviata il 18 marzo 1919 in Libia per i motivi precedentemente esposti, la 1. divisione d'assalto venne fatta rientrare in Italia dopo appena tre mesi; in pratica gli alti comandi dell'esercito, dopo aver guardato con diffidenza ed ostilità la nascente politicizzazione dei reparti d'assalto nel 1918, ne avevano riscoperto gli aspetti positivi nel 1919: quand'ecco che la sedizione dannunziana (alla quale parteciparono una parte degli arditi) veniva ad evidenziare i pericoli per l'unità e la forza dell'esercito.

 

2.4 Gli arditi e l'impresa fiumana

I sentimenti nazionalistici che animavano il dopoguerra assegnavano alla vittoria il fine preminente di ottenere acquisti territoriali. Questi erano già previsti da quel documento diplomatico segreto, il Patto di Londra, in base al quale l'Italia era entrata in guerra, ma intorno a quegli accordi le cose si complicarono.
Concluso il 26 aprile 1915, quando non erano presunte nè la dissoluzione dell'impero asburgico, nè la rivoluzione russa, il Patto di Londra prevedeva l'acquisizione da parte dell'Italia di una larga parte della Dalmazia, un territorio lungo la costa orientale dell'Adriatico, popolato in gran parte da slavi. La concessione all'Italia di questo territorio, era stata dettata da due considerazioni: l'opportunità che, mediante il controllo di un tratto della costa orientale dell'Adriatico, l'Italia potesse meglio garantirsi da possibili attacchi militari provenienti da est, in una zona priva di difese naturali; la volontà di impedire che la Russia, attraverso l'acquisizione di quel territorio da parte di uno stato slavo da lei dipendente, giungesse a stabilire proprie basi navali sulla costa adriatica. Ma alla fine della guerra queste considerazioni erano ormai prive di valore.
Al tempo stesso era emersa però una nuova rivendicazione italiana non prevista dal Patto di Londra, quella di Fiume, una città sul Golfo del Carnaro, poco oltre la costa dell'Istria, la cui popolazione, nella grande maggioranza italiana, desiderava ora di congiungersi all'Italia. Si aggiunga che la richiesta dell'applicazione del Patto di Londra, in una situazione radicalmente mutata, era complicata dal fatto che quel patto non era stato sottoscritto dagli Stati Uniti ed era un documento di quella diplomazia segreta che il presidente americano Woodrow Wilson apertamente avversava.
A sostegno della rivendicazione fiumana, si scatenò in Italia una campagna di stampa, incitata dalle parole del poeta Gabriele D'Annunzio il quale, dopo aver partecipato attivamente alla guerra, dichiarò che se le più estreme richieste di acquisizioni territoriali non fossero state soddisfatte la vittoria italiana sarebbe stata "mutilata". In tal modo egli dava vita al mito della "vittoria mutilata".
La questione fiumana era però destinata a creare ulteriori problemi dal momento che la costa orientale adriatica si trovava in due diverse situazioni rispetto agli accordi internazionali. Se, infatti, tutta l'area compresa entro la linea d'armistizio era sotto l'assoluto controllo delle forze italiane, i segmenti costieri compresi fra Volosca e Lisarica, a nord, e fra Punta Planka e gli incerti confini albanesi a sud, potevano, in base a quanto previsto dalle clausole armistiziali, essere controllati dalle potenze alleate ed associate. Ne conseguiva come l'occupazione di importanti centri come Fiume, Spalato, Cattaro dovesse avere carattere interalleato.
La città di Fiume si trovava pochi chilometri ad est della linea di armistizio e la popolazione, italiana per circa due terzi, aveva costituito un proprio Consiglio Nazionale che già dal 30 ottobre 1918 aveva chiesto l'annessione all'Italia.
Il grado di tensione andava così progressivamente crescendo tanto in Italia quanto a Fiume, certamente alimentato, in quest'ultima località , dal fatto di essere nel frattempo divenuta base di una forza navale interalleata entrata in porto il 4 novembre 1918 al comando dell'ammiraglio americano Rainer e dall'arrivo il 14 novembre di un reggimento serbo che, d'intesa con la minoranza slava, aveva occupato gli edifici nevralgici lasciando alla parte italiana il solo comune ed aveva armato gruppi di prigionieri serbi liberati e di volontari croati del luogo. Permanevano inoltre in città anche due battaglioni austriaci. Tale era la situazione alla metà di novembre, e la valutazione dei pericolosi sviluppi che ne sarebbero potuti conseguire, tenendo conto che erano già in atto disordini crescenti, inducevano il nostro governo a procedere all'occupazione della città con la motivazione della doverosa salvaguardia dell'ordine pubblico, il che era del resto contemplato nelle condizioni di armistizio che consentivano, in caso di necessità , l'occupazione di territori anche oltre la linea armistiziale stabilita. Il 15 novembre 1918, pertanto, Diaz, in accordo con gli alleati che avevano aderito a partecipare all'occupazione, emanava gli ordini necessari ed il 17 novembre la brigata "Granatieri" entrava in città , raggiunta il 20 da un battaglione di fanteria americano che, se pur alle dipendenze del comando supremo italiano, conferiva alla spedizione il doveroso carattere interalleato. Il 28 novembre 1918 il generale Grazioli fu nominato comandante delle truppe italiane ed alleate occupanti Fiume.
Grazioli giungeva a Fiume il giorno stesso in cui cominciarono gli incidenti fra la popolazione e le truppe francesi, primi di una lunga serie. Nei giorni successivi il presidio di Fiume si rafforzò e giunse ai primi di dicembre a comprendere, oltre alla brigata "Granatieri", il 202° reggimento fanteria della brigata "Sesia", l'VIII battaglione bersaglieri ciclisti, il 6° reggimento artiglieria da campagna, il XXVIII reparto d'assalto, minori reparti italiani, un battaglione americano e uno britannico. Il battaglione francese dipendeva dall'Armèe d'Orient ed il suo comandante, generale Traniè, si poneva in posizione non di subordinato a Grazioli, ma di interlocutore e spesso di antagonista in funzione pro-jugoslavia.
Intanto, alla conferenza di pace di Parigi la richiesta del rispetto del Patto di Londra più Fiume non fu presa in considerazione e nel giugno 1919, dopo tale insuccesso diplomatico, il governo Orlando fu costretto alle dimissioni; il nuovo governo fu presieduto da Francesco Saverio Nitti.
Nell'estate 1919 la situazione dell'ordine pubblico a Fiume era continuamente peggiorata; dopo mesi e mesi di tensione, ad una certa stanchezza della popolazione italiana di Fiume faceva riscontro il formarsi, spesso sotto l'influenza degli ambienti estremisti di Trieste, di gruppi nazionalisti decisi a ricorrere anche ad azioni violente pur di assicurare l'annessione di Fiume all'Italia. Nella città , la presenza di contingenti alleati, dopo la partenza in febbraio del reparto americano, si era ridotta ad un battaglione britannico, uno indocinese dell'esercito francese e un distaccamento serbo-croato-sloveno. Francesi e serbi non dipendevano dal comando di Grazioli, ma dall'Armèe d'Orient. La supposizione, non del tutto errata, che britannici e francesi, questi in particolare, favorissero la causa jugoslava portava gli elementi più oltranzisti della maggioranza italiana della città a frequenti tafferugli con militari isolati, nei quali talvolta furono coinvolti anche ufficiali e soldati italiani, presenti a Fiume in forte numero, circa 13.000 uomini in luglio.
L'incidente più grave avvenne il 6 luglio 1919 quando furono uccisi nove soldati francesi.
Intanto, la posizione di Grazioli a Fiume era divenuta difficile per gli stretti legami stabiliti con gli ambienti cittadini più oltranzisti e per la contrarietà che gli dimostravano i comandanti alleati. Il 30 agosto, infatti, fu richiamato a Roma e sostituito dal generale Vittorio Emanuele Pittalunga, il quale aveva ricevuto da Nitti direttive precise. Gli erano stati raccomandati riserbo e imparzialità nei confronti della popolazione e cordialità nei rapporti con gli alleati, cercando di evitare qualsiasi manifestazione che potesse esaltare i fiumani, dato che l'Italia era costretta rinunciare a Fiume per la grave situazione all'interno del paese.
Il 9 settembre il comando supremo ordinava che il presidio della zona di Fiume fosse d'urgenza ridotto alla sola brigata "Regina", con un battaglione in città e gli altri lungo la linea armistiziale; questi provvedimenti corrispondevano esattamente alle decisioni della conferenza di pace, che aveva integralmente accettato le proposte della commissione interalleata d'inchiesta sugli incidenti avvenuti a Fiume.
In quegli stessi giorni lo scioglimento di unità era particolarmente intenso, con frequenti mutamenti di sede e di dipendenza gerarchica che avevano scosso la compattezza di tutte le truppe in zona di guerra. Non era inoltre pensabile che la propaganda nazionalista, favorita dall'alto per un lungo periodo, non avesse lasciato tracce nelle menti di militari di ogni grado.
In una situazione così fluida fu facile il successo della congiura nata in un gruppo di ufficiali della brigata "Granatieri", poi estesa a Gabriele D'Annunzio ed ai capi del battaglione volontari fiumani (comandati dal capitano degli arditi Giovanni Host-Venturi). Furono centocinquanta di quest'ultimi a muoversi per primi nella notte del 12 settembre uscendo da Fiume verso ovest dove si incontrarono con una ventina di ufficiali e circa duecento uomini di truppa appartenenti al I e al II battaglione del 2° granatieri, partiti da Ronchi e da Monfalcone agli ordini del maggiore Reina. Alla testa della colonna si pose D'Annunzio. Al passaggio della colonna dannunziana per Castelnuovo si unirono ad essa cinque ufficiali e trenta militari di truppa della 4. squadriglia autoblidomitragliatrici con cinque mezzi, a Castua raggiunse gli insorti il tenente colonnello Repetto, comandante del 3° gruppo d'assalto. Il suo esempio fu subito seguito da quasi tutto l'VIII reparto d'assalto, con alla testa il maggiore Nunziante, con otto ufficiali e 250 arditi, e dalla 2. compagnia del XXII reparto d'assalto, schierata allo sbarramento di Cantrida. Il 3° gruppo d'assalto era giunto nella zona da pochi giorni, ma qualche contatto con Fiume era già stato stabilito dall'VIII reparto d'assalto, che fu il più compatto nella secessione.
Nella giornata del 12 settembre 1919 giunsero a Fiume in totale circa sessanta ufficiali e mille fra sottufficiali, graduati e soldati; si presentarono inoltre al comando di D'Annunzio diversi ufficiali di altri reparti, in gran parte già congedati.
Il 13 settembre fu dato dal Presidente del Consiglio Nitti l'ordine di bloccare completamente la città , predisponendo anche interruzioni stradali e ferroviarie. Nei giorni seguenti la situazione restò stazionaria; alle defezioni in gruppo o isolate di militari dei reparti dislocati lungo la linea di blocco si accompagnano frequenti rientri, come quello di parte dei ciclisti dell'VIII battaglione bersaglieri. Tuttavia, la forza a disposizione dei secessionisti andava aumentando ed era valutata a fine mese dal comando dell'Ottava Armata in circa 5.000 uomini di cui 285 ufficiali.
In ottobre l'episodio di maggior rilievo fu lo sbarco a Grado di una quarantina di arditi con lo scopo di impadronirsi di una batteria pesante campale; la pronta difesa delle truppe locali portò al fallimento dell'operazione e alla cattura degli incursori.
Agli inizi del 1920 la situazione intorno a Fiume era abbastanza tranquilla, proseguiva il passaggio a Fiume di singoli militari o di piccoli gruppi, ma erano ormai abbastanza numerosi anche i rientri dovuti a stanchezza e contrasti interni ai dannunziani.
Un lieve aumento di forza per l'esercito italiano derivò dallo scioglimento di alcuni reparti arditi territoriali dai quali vennero tratti complementi per il reggimento d'assalto, nuova denominazione del 1° gruppo d'assalto. I complementi vennero riuniti in un nuovo battaglione che prese il numero distintivo di IX. In giugno giungeva dal ministero della guerra l'ordine di trasferire a Valona, dalla Venezia Giulia, il reggimento d'assalto; al momento dell'imbarco per l'Albania da Trieste si verificarono però gravi incidenti, provocati da una sessantina di arditi contrari alla partenza.
La svolta nella vicenda fiumana avvenne il 12 novembre 1920 quando Giolitti firmò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo, con esso l'Italia ottenne alcune isole dalmate, la sovranità su Zara e una frontiera strategica che correva lungo la linea di displuvio alpina, attraverso il Monte Nevoso; rinunciò, in cambio, alla Dalmazia ed accettò che Fiume fosse eretta a stato libero.
Le esigenze più volte manifestate dai vertici militari per la sicurezza di Trieste e dell'Istria trovarono così pieno riconoscimento. Il comando di Fiume reagì alla notizia dell'accordo ordinando l'occupazione delle isole di Veglia e di Arbe e, contemporaneamente, della zona del monte Luban, incluso nel territorio del Corpus separatum di Fiume; nonostante le intimazioni del comando supremo, i fiumani non recedettero dall'occupazione, anzi riaffermarono la loro volontà di resistenza e intensificarono la campagna di proselitismo verso le truppe dislocate lungo la linea di blocco, ottenendo ancora qualche successo.
La necessità di porre termine, in concomitanza con la ratifica del trattato di Rapallo, alla anomala situazione di Fiume era sempre più sentita e caddero così le ultime illusioni sulla possibilità di una soluzione spontanea. Si iniziarono, quindi, i preparativi per un'azione di forza che, in una prima fase, doveva consistere in un blocco effettivo e totale per mare e per terra della città di Fiume.
Visto che il blocco non provocava la soluzione sperata e giunto il 16 dicembre l'ordine del Governo di risolvere definitivamente la questione di Fiume, si cominciò a pensare alle operazioni per l'occupazione della città ; tuttavia le truppe regolari non avevano ancora raggiunto la prevalenza numerica su quelle dannunziane.
Alle ore 14.00 del 24 dicembre 1920 giunse l'ordine per tutte le truppe in linea di avanzare verso Fiume sopraffacendo chiunque avesse cercato di ostacolare la loro azione. Si trattava di un attacco frontale di massa. Verso le ore venti i progressi fatti dalle truppe regolari non apparivano, però, notevoli, le difficoltà derivavano anche dal non essere riusciti a stabilire fin dall'inizio delle operazioni una superiorità numerica rispetto ai 4.400 uomini agli ordini di D'Annunzio. Si valuta, infatti, a circa tremila uomini la forza delle truppe intorno a Fiume il 24 dicembre.
La giornata del 25 fu punteggiata da tiri di artiglieria e di armi automatiche da parte dei fiumani, l'ordine di attacco venne rinnovato per le ore 6.00 del giorno successivo. Nella prima parte della mattinata del 26 dicembre le truppe regolari, tenacemente contrastate dai dannunziani, compirono progressi notevoli, combattendo casa per casa. Verso le ore undici un battaglione di truppe regolari cadde però in un agguato e molti suoi uomini furono catturati. L'artiglieria pesante campale, allora, aprì il fuoco sul porto e nel pomeriggio i combattimenti continuarono con asprezza. L'artiglieria ricevette l'ordine di dirigere il fuoco sul centro della città : alle 15.30 i pezzi da 152 millimetri della corazzata "Andrea Doria" aprirono il fuoco sul palazzo del comando di D'Annunzio. Nella tarda serata l'attacco non aveva però ancora ottenuto risultati decisivi.
La giornata del 27 fu caratterizzata dal riordinamento delle forze regolari e da tiri di artiglieria sul palazzo del comando e sulle caserme fiumane; a questo punto veniva constatato il raggiungimento della superiorità numerica e di una notevole disponibilità di artiglierie da parte delle truppe regolari.
L'azione decisiva, prevista per le ore 12.00 del 31 dicembre fu fortunatamente evitata dalla notizia delle dimissioni di D'Annunzio. Le successive trattative assicurarono ai fiumani la possibilità di lasciare liberamente la città entro cinque giorni; fu inoltre autorizzata la costituzione di due battaglioni di milizia formati esclusivamente con cittadini di Fiume.
Nei primi giorni del 1921 le navi e i militari dannunziani uscirono gradualmente dalla città . La più grave crisi che avesse colpito l'esercito italiano era così terminata, i combattimenti necessari per giungere alla sua conclusione costarono ai reparti regolari 25 morti e 139 feriti, appena inferiori furono invece le perdite dei dannunziani.
Il fatto che alcuni reparti d'assalto, disattendendo gli ordini legittimi del governo, parteciparono all'occupazione di Fiume non poteva non decretare la fine degli arditi; ne derivò la rinuncia a tutti i tentativi di rilanciare i reparti d'assalto.

2.5 1920: Ordine definitivo di scioglimento

Nonostante tutte le fonti disponibili concordino nel sostenere che l'apporto dei reparti arditi alla sedizione fiumana fosse minore di quanto si crede, la diserzione di alcuni reparti d'assalto non poteva non decretarne il definitivo scioglimento.
All'incirca un sesto degli arditi della 1. divisione d'assalto seguì D'Annunzio a Fiume: il tenente colonnello Repetto, comandante del 3° gruppo d'assalto, il maggiore Nunziante con otto ufficiali e 250 arditi del suo VIII reparto d'assalto e la 2. compagnia del XXII reparto d'assalto.
Come si può notare gli arditi presenti a Fiume non furono poi molti, ma D'Annunzio attinse a piene mani nei miti e riti dell'arditismo, si vestì lui stesso quasi sempre da ardito e volle gli arditi intorno a sè come guardia personale, chiamò "arditi" i suoi seguaci, lanciò le loro grida e ne cantò le canzoni di guerra, fino a confondere l'opinione pubblica, che finì con l'attribuire agli arditi nell'impresa fiumana un ruolo maggiore del vero.
La sedizione dannunziana rese evidente i pericoli per l'unità e la forza dell'esercito che derivava dalla politicizzazione dei reparti arditi. Una parte notevole degli ufficiali, forse la maggioranza, simpatizzava con gli obiettivi di D'Annunzio ed avrebbe accolto con piacere il suo colpo di mano, se non avesse coinvolto truppe regolari; invece intorno a Fiume l'esercito era sembrato sfasciarsi: battaglioni in rivolta contro i loro ufficiali, generali arrestati e derisi, comandanti che confessavano di non sapere se i loro uomini avrebbero obbedito agli ordini, soldati che sparavano a freddo su altri soldati; e la responsabilità di tutto ciò era della politicizzazione patriottica che i comandi stessi avevano tollerato, se non incoraggiato.
Possiamo anche constatare come, alla vigilia delle elezioni politiche del novembre 1919, quando gli alti comandi proposero di includere la 1. divisione d'assalto (ridotta ad appena 4.000 effettivi) nel novero delle grandi unità che rientravano in paese dalla zona di confine, fu proprio il ministro della guerra Albricci, a nome del presidente del consiglio Nitti, a porre il veto, chiedendo di "trattenere zona armistizio Divisione assalto perchè attuale movimento (sic) politico esige che truppa ottima come impiego sia tenuta lontana ardenti contese ora esistenti".
L'ordinamento provvisorio dell'esercito, che va sotto il nome del ministro proponente, Albricci, fu varato il 21 novembre 1919 e non faceva cenno di reparti d'assalto nè di arditi. Lo scopo dell'ordinamento Albricci era quello di creare un esercito che potesse riprendere la sua tradizionale funzione di tutore dell'ordine pubblico; nell'atmosfera di tensione del 1919 si volevano reparti esigui, senza il complesso armamento della guerra di trincea.
A seguito delle dimissioni di Albricci, in occasione della crisi del primo ministero Nitti, il 14 marzo 1920 era nominato ministro della guerra Ivanoe Bonomi. Il 20 aprile veniva varato il nuovo ordinamento provvisorio dell'esercito, conosciuto come ordinamento Bonomi, che era la riproduzione perfetta quasi in ogni particolare, ma in dimensioni ridotte, dell'ordinamento Albricci.
Entrambi gli ordinamenti non consideravano l'ipotesi di un riordinamento dei reparti arditi, la 1. divisione d'assalto veniva sciolta nel gennaio 1920, nel frattempo alcuni reparti arditi continuarono a vivere, come il reggimento d'assalto dislocato in Friuli, che nella primavera 1920 era costituito dai reparti IX, XX e XXII, mentre altri reparti d'assalto erano distribuiti tra i corpi d'armata delle regioni venete.
In giugno il ministro Bonomi decise di inviare il reggimento d'assalto in Albania ma, come abbiamo precedentemente evidenziato, si verificarono gravi incidenti al momento della loro partenza dal porto di Trieste, quando un gruppo di arditi si rivoltò.
Il reggimento d'assalto giunse a Valona a metà giugno 1920 con 1.700 uomini, sostenne alcune scaramucce e un sanguinoso combattimento a fine luglio e fu reimbarcato a metà agosto, nel quadro del ritiro di tutte le truppe italiane dall'Albania. Nell'autunno i reparti d'assalto ancora esistenti erano concentrati verso il confine jugoslavo agli ordini del colonnello Bassi, quando vennero raggiunti alla fine dell'anno dall'ordine definitivo di scioglimento.
Come abbiamo potuto evidenziare il motivo che portò, alla fine del 1920, alla soppressione dei reparti arditi, fu la constatazione da parte degli alti comandi che la politicizzazione dei reparti d'assalto avrebbe minato l'unità dell'esercito. La riprova dei loro timori venne proprio dalla "questione fiumana" nella quale interi reparti disertarono, disattendendo gli ordini del governo legittimo e schierandosi al fianco di D'Annunzio, per rivendicare le pretese territoriali che avevano lo scopo di risarcirli della "vittoria mutilata". Una vittoria di cui gli arditi si consideravano gli artefici principali e per la quale l'intera nazione doveva essergli debitrice.
Una considerazione ulteriore è la constatazione che, in una situazione così radicalmente diversa dal periodo bellico, l'obiettivo alla base di tutti i provvedimenti relativi al riordinamento dell'esercito nel periodo post-bellico (con gli ordinamenti provvisori Albricci prima e Bonomi poi), fosse quello di riportare urgentemente l'esercito alla sua funzione di tutore dell'ordine pubblico e non certo di creare un esercito per la guerra.
In una situazione del genere era inevitabile che non vi fosse futuro per questi reparti privilegiati, dotati di un alto morale e di un addestramento curatissimo, con uno spirito di corpo esasperato e caratterizzati da un atteggiamento di distacco e di superiorità rispetto agli altri corpi dell'esercito; furono creati per far fronte ad esigenze belliche, in particolare per dare una svolta alla guerra di trincea con i loro assalti; esigenze belliche che sul finire del 1920 non erano, ovviamente, più presenti.

CAPITOLO 3

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

 

 

3.1 Un nuovo tipo di guerra

Salvo riconoscimenti propagandistici sempre più retorici, nessun rilievo fu concesso nell'Italia liberale e poi fascista all'esperienza dei reparti d'assalto, come alla maggior parte degli insegnamenti della prima guerra mondiale.
La nota caratterizzante della politica militare fascista fu la piena alleanza tra le alte gerarchie militari ed il regime. I militari avevano favorito il sorgere delle squadre fasciste e decisamente appoggiato l'ascesa al potere di Mussolini ed il consolidamento della sua dittatura. Abbiamo evidenziato nel capitolo precedente, infatti, come lo squadrismo fascista abbia avuto inizio con l'incendio, ad opera degli arditi, delle sede dell'Avanti! e che squadre di arditi armati presidiarono regolarmente la redazione del Popolo d'Italia con la connivenza della polizia e delle gerarchie militari.
L'alleanza delle forze armate col fascismo fu mantenuta sino alle sconfitte del 1942-1943; si manifestò anche nell'avallo sempre concesso dai militari alle esagerazioni propagandistiche sulla potenza militare italiana, utili solamente per la politica interna del regime piuttosto che per la serietà della preparazione bellica.
In cambio di questo appoggio, le gerarchie militari ottennero dal governo una piena autonomia nella gestione delle singole forze armate. Abolito ogni controllo parlamentare ed ogni possibilità di dissenso anche su questioni puramente tecniche, generali e ammiragli furono liberi di gonfiare gli organici e scegliere una politica di prestigio tradizionale, anzichè seguire i progressi tecnici e preparare realmente un nuovo conflitto. Ad esempio, fu vanificato ogni tentativo di coordinamento tra le forze armate; ogni forza armata fu così libera di svilupparsi nella direzione preferita, ignorando completamente le altre, così come le modificazioni della situazione internazionale.
L'impreparazione delle forze armate dell'Italia fascista, dinanzi alla seconda guerra mondiale, sono quindi riconducibili a responsabilità sia di Mussolini che dei comandi supremi delle forze armate.
Il ritardo della preparazione militare italiana divenne realmente grave e preoccupante solo a partire dal 1935-1936, cioè dal momento in cui il riarmo tedesco si profilò in tutta la sua pericolosità , determinando in Gran Bretagna e in Francia l'approvazione di programmi di spese militari di eccezionale portata, mentre in Italia le risorse disponibili erano assorbite da una politica di potenza di breve respiro, che ebbe nell'aggressione all'Etiopia e nell'intervento in Spagna le manifestazioni più rilevanti.
I comandi italiani, inoltre, si dimostrarono in tutti questi anni incapaci di comprendere appieno le esigenze della guerra moderna e di orientare in questa direzione lo sviluppo delle forze armate e del loro impiego sul campo. La seconda guerra mondiale registrerà , infatti, una gara continua per migliorare gli armamenti, renderli più offensivi e meno vulnerabili alle armi degli avversari. Questa gara, che impose la mobilitazione permanente della tecnologia, riguardò tutti i campi, da quello dei trasporti e delle armi leggere a quello dei più potenti mezzi di distruzione, e fu particolarmente appariscente nel settore degli aerei, dei carri armati, delle artiglierie. Complessivamente la guerra veniva così a dipendere dal grado di sviluppo di un sistema industriale, dalla sua efficienza e dalla sua capacità di assecondare la continua evoluzione tecnologica.
Tutte le fonti disponibili, infatti, concordano nella valutazione secondo cui la seconda guerra mondiale segnò il trionfo della componente tecnologica dello strumento bellico rispetto alle masse di uomini della prima.
Per comprendere appieno le contraddizioni che caratterizzarono la politica militare italiana durante il fascismo bisogna ricordare che, dopo l'occupazione italiana dell'Etiopia del 5 maggio 1936, i rapporti internazionali cambiarono; l'Italia, infatti, malgrado la presenza della dittatura fascista, nella prima metà degli anni trenta, partecipava a pieno titolo a quel sistema di alleanza, garante del trattato di Versailles, formato tra le potenze europee vincitrici della prima guerra mondiale (Inghilterra, Francia e Italia), e al quale nel 1925, con gli accordi di Locarno, aveva aderito anche la Germania. Dopo l'avvento di Hitler al potere, però, la Germania sconfessò questa politica, e nell'ottobre 1933 si ritirò dalla Società delle Nazioni. Ciò non incise affatto sulla posizione dell'Italia, ma proprio la guerra d'Etiopia segnò la rottura di questo delicato equilibrio politico che fu il primo di una catena di eventi, la quale avrebbe avuto il suo epilogo nello scoppio della seconda guerra mondiale. L'inaspettata reazione sul piano internazionale al programma di espansione coloniale italiana (complicata dal fatto che l'Etiopia faceva parte della Società delle Nazioni) portò Mussolini a maturare un risentimento anti-inglese, giustificato dal fatto che l'Inghilterra si era mostrata la nazione più ostile all'impresa etiope, e, contemporaneamente, maturò l'avvicinamento alla Germania nazista. Nell'autunno 1935 la Società delle Nazioni dichiarava contro l'Italia le sanzioni economiche, vale a dire il divieto di esportare merci in Italia; l'improvviso isolamento italiano sul piano internazionale consentì alla Germania, infatti, di presentarsi come un paese amico, il solo in Europa che nel momento del bisogno si schierava al fianco dell'Italia fascista.
Questo nuovo corso nei rapporti internazionali permette di comprendere anche le diverse esigenze alla base della preparazione bellica dell'Italia alla seconda guerra mondiale; le forze armate italiane non erano più considerate lo strumento fondamentale per l'affermazione della potenza nazionale, continuavano ad avere un ruolo importante come mezzo di stabilizzazione interna e di difesa dell'assetto politico-sociale, come strumento di aggressione verso stati minori e come protagonisti secondari di un conflitto mondiale, sul cui esito le forze armate italiane non potevano realmente influire.
Un esempio illuminante di questa situazione è fornito dalle contraddizioni del cosiddetto patto d'acciaio, il trattato di alleanza italo-tedesco firmato a Berlino il 22 maggio 1939 che, oltre a definire in termini impegnativi la solidarietà tra i due regimi e a prevedere regolari consultazioni e informazioni politiche e militari, impegnava le due nazioni a sostenersi reciprocamente in caso di guerra non solo difensiva (secondo la prassi diplomatica), ma pure offensiva. Il carattere totale dell'alleanza fu però immediatamente smentito nei fatti da entrambe le parti: all'indomani della firma Hitler programmò con i suoi capi militari le mosse che avrebbero portato in pochi mesi alla guerra mondiale, tenendone accuratamente all'oscuro l'alleato italiano. Contemporaneamente Mussolini precisava i limiti della disponibilità italiana con il cosiddetto promemoria Cavallero (dal nome del generale che lo stilò) del 30 maggio 1939, in cui era espressamente dichiarato che, pur ritenendo inevitabile una guerra con le democrazie occidentali, l'Italia avrebbe potuto affrontarla solo a partire dal 1943, data la sua impreparazione militare. In sostanza il governo fascista aveva bisogno di figurare come alleato della Germania su un piano di parità per evidenti ragioni di prestigio, ma, rendendosi conto di non poter accettare in tutte le sue conseguenze un'alleanza che avrebbe portato alla subordinazione dell'Italia, tentava di conservare un illusorio margine di manovra.
L'unica speranza era di riuscire a destreggiarsi in modo da trovarsi dalla parte dei vincitori senza dover affrontare una prova di forza reale; più che sull'efficienza delle armi la politica italiana contava sull'abilità diplomatica di Mussolini.
La scelta della neutralità nel settembre 1939 era quindi naturale, ma la decisione era solo rinviata, poichè l'Italia non poteva evitare di essere coinvolta nella seconda guerra mondiale.
In questo contesto, com'è evidente, la preparazione delle forze armate perdeva ogni importanza, dato che nessuno chiedeva loro vittorie decisive, ma solo di fornire a Mussolini la possibilità di sedersi al tavolo della pace per assicurarsi la sua parte. L'intervento italiano nasceva, infatti, sul presupposto di una vittoria tedesca a breve scadenza, una prospettiva certamente possibile dopo il crollo della Francia e l'eliminazione del corpo di spedizione britannico sul continente.
Il logico sbocco di questa impostazione era la "guerra parallela" che l'Italia condusse dal 10 giugno 1940, giorno del suo intervento nel conflitto mondiale; una guerra parallela, ma non coordinata a quella tedesca, con la sola preoccupazione di arrivare alla pace in condizioni tali da garantirsi la creazione di una sfera di influenza autonoma rispetto alla Germania e sufficientemente ampia da soddisfare le ambizioni economiche e politiche italiane.
Il culmine e insieme l'inizio della fine della guerra parallela fu l'aggressione alla Grecia. Il 12 ottobre 1940 la Germania comunicò di aver occupato militarmente la Romania, senza aver però precedentemente consultato l'alleato italiano. La reazione di Mussolini portò alla decisione di occupare la Grecia per ristabilire l'equilibrio perduto, uno stato con cui l'Italia non aveva reali contrasti d'interesse, ma che aveva la sfortuna di essere piccolo e contiguo all'Albania già annessa al regno d'Italia.
L'aggressione italiana alla Grecia iniziò il 28 ottobre 1940 (Hitler ne fu avvisato soltanto quella stessa mattina) e si concluse rapidamente con una rotta generale e sotto la spinta controffensiva dell'esercito greco durata quasi da novembre a marzo. Ingenti rinforzi furono fatti affluire in Albania (alla fine della campagna le forze italiane saranno di circa 600.000 uomini); fu così possibile arrestare l'avanzata greca, non però riprendere l'iniziativa. Solo nell'aprile 1941 una ben preparata offensiva tedesca ebbe ragione dell'ormai esausto esercito greco, costringendo il piccolo paese alla resa. La campagna distrusse prestigio e morale dell'esercito italiano, che, dopo aver attaccato nel momento e sul terreno prescelto, si era rivelato incapace di aver ragione di un avversario inferiore per mezzi e organizzazione, e molto spesso anche per numero.
L'aggressione alla Grecia evidenziò tutti i limiti della preparazione bellica dell'Italia fascista che, essendo obbligata ad accettare l'aiuto militare dell'alleato nazista, rese evidente l'impossibilità per l'Italia di condurre una "guerra parallela" realmente autonoma rispetto alla Germania di Hitler.
Nella notte tra l'11 e il 12 novembre 1940, inoltre, una dozzina di aerosiluranti lanciati dalla portaerei inglese Illustrious affondarono una corazzata italiana nel porto di Taranto e ne danneggiarono gravemente altre due, spostando a favore degli inglesi il rapporto di forze nel Mediterraneo e rendendo impossibile una condotta offensiva delle operazioni navali da parte italiana.
Tra dicembre e gennaio una terza sconfitta segnò la fine della guerra parallela. Il 7 dicembre 1940 le forze inglesi, con 30.000 uomini completamente motorizzati e 250 carri armati, attaccarono le ben più numerose truppe italiane, prive di automezzi e carri armati; in due mesi gli italiani persero tutta la Cirenaica e 140.000 prigionieri e si ridussero a non disporre più di truppe atte ad arrestare l'avanzata inglese su Tripoli. Fu inevitabile accettare l'aiuto tedesco, orgogliosamente respinto pochi mesi prima: nel febbraio 1941 sbarcarono in Libia le forze corazzate del generale Rommel, che da quel momento avrebbero sopportato tutto il peso della guerra in Africa settentrionale.
Venivano perciò meno i presupposti della guerra parallela impostata sei mesi prima: la vittoria tedesca non era più così vicina nè così sicura, ma soprattutto l'Italia si rivelava incapace di difendere le sue posizioni senza l'aiuto dell'alleato; si passava così dalla guerra parallela alla cosiddetta "guerra subalterna". Crollava definitivamente l'illusione di poter conseguire una posizione di potenza autonoma nella scia della vittoria tedesca, senza rischi nè costi.
Dalla fine del 1940 al crollo del 1943, per circa trenta mesi di guerra, l'Italia fascista non ebbe più la possibilità di influire sulle grandi linee del conflitto mondiale per insufficienza di forze militari e di iniziativa politica, ma dovette accettare in pieno la supremazia tedesca ed il ruolo ridotto e difensivo che in questo quadro le era riservato.
In definitiva, furono sostanzialmente le preoccupazioni di politica interna a dominare la preparazione bellica e le scelte strategiche dell'Italia fascista. Per tutta la durata della seconda guerra mondiale, infatti, i dirigenti fascisti continuarono a lavorare per la conservazione del regime assai più che per la vittoria finale.

 

 

3.2 Valorizzazione delle forze speciali

La seconda guerra mondiale ha ricalcato, sotto alcuni aspetti, la prima. Non fu "sentita", come non lo fu la prima, eccezion fatta per le occasioni nelle quali le sorti del conflitto sembravano volgere a nostro favore. Per quanto concerneva in particolare l'aliquota dei cittadini in uniforme, era riscontrabile una partecipazione completa, e non passivamente accettata, solo tra coloro che erano sostenuti da solidi presupposti ideali ed, a livello collettivo, in quei reparti con particolare propensione offensiva connessa alla stessa specialità operativa, (aerosiluranti, sommergibilisti, guastatori, ad esempio) ovvero con una connotazione di volontariato, quali i reparti paracadutisti e gli uomini delle unità speciali. Con riferimento proprio a questi ultimi, se è vero, infatti, che il secondo conflitto mondiale ha segnato il trionfo della componente tecnologica dello strumento bellico rispetto alle masse di uomini del primo, è altrettanto vero che proprio in un contesto dove la tecnologia andava prendendo sempre più il sopravvento, si è avuta la valorizzazione delle cosiddette "forze speciali".
I principali belligeranti avevano infatti compreso come pochi uomini con particolari caratteristiche psico-attitudinali e motivazionali, riuniti in reparti ad alto livello di specificità operativa, potevano ottenere risultati preziosi, di alto valore strategico, mirando ai centri nevralgici della struttura bellica avversaria con conseguenze materiali e psicologiche di prim'ordine.
I reparti speciali italiani costituiti ed impiegati nel corso della seconda guerra mondiale sono stati i seguenti:
per l'esercito, il X reggimento arditi, il battaglione alpini sciatori Monte Cervino, il I battaglione carabinieri paracadutisti;
per la marina, la Decima flottiglia MAS, i battaglioni "N." (nuotatori) e "P." (paracadutisti) ed il reparto "G." (guastatori) del reggimento San Marco;
per l'aeronautica, il I battaglione d'assalto paracadutisti, il battaglione riattatori Loreto ed il battaglione ADRA.
L'elenco si riferisce a quelle unità create ex novo per compiti di elevata specificità operativa, connessi con le peculiari esigenze di ciascuna forza armata, per l'assolvimento dei quali risultava necessario l'impiego di personale volontario in possesso di determinati requisiti fisici e psico-attitudinali e di una particolare qualificazione specialistica.
Apparentemente, potrebbe sembrare che avessero titolo ad essere inclusi nell'elenco anche altri reparti, come ad esempio le due divisioni di fanteria paracadutista Folgore e Nembo, ma, pur rispondendo anche questi in tutto od in parte ad alcuni dei suddetti requisiti, in essi si configurava una vera e propria "specialità " della forza armata di appartenenza, che non reparti speciali a sè stanti, con una fisionomia ed un'identità specifiche del tutto particolari quali invece caratterizzavano quelli che andremo ad analizzare nello specifico.
Come per gli arditi della prima guerra mondiale, eccezion fatta per alcuni sporadici casi, i reparti speciali italiani della seconda guerra mondiale erano costituiti da elementi che vi entravano a far parte a titolo di assoluta volontarietà . Il volontariato rappresentava di per se stesso una garanzia di affidabilità , un presupposto di base le cui motivazioni potevano essere varie (in alcuni il patriottismo, in altri il desiderio di fare la guerra in modo audace, in altri ancora uno sfogo all'esuberanza del carattere) ma che si compendiavano nel desiderio di battersi con decisione e di far parte di vere e proprie unità d'èlite.
Nel battaglione alpini sciatori Monte Cervino si era resa in parte necessaria anche una incorporazione d'autorità ma, come per gli arditi della prima guerra mondiale, questo non snaturò il carattere prettamente volontario di questo reparto speciale.
Prima di passare ad analizzare i singoli reparti speciali è opportuno elencare i compiti delle nostre forze armate, per meglio comprendere le esigenze che portarono alla creazione di differenti reparti speciali per ogni forza armata.
Compito delle forze armate è "assicurare la difesa della Patria e la tutela delle istituzioni dello stato"; da questa definizione data dal ministero della difesa discendono i compiti particolari delle varie forze. L'esercito, in particolare, deve provvedere al difesa delle frontiere e alla sicurezza dell'intero territorio nazionale, nonchè concorrere alla difesa contraerea del territorio. La marina militare deve assicurare la libertà delle comunicazioni marittime necessarie per la vita e la difesa del paese, sostenere dal mare le forze terrestri, concorrere con le altre forze armate alla difesa contraerea ed alla sicurezza del territorio nazionale. All'aeronautica compete, invece, la difesa aerea del territorio e dei mari adiacenti, di condurre le operazioni di guerra aerea, di fornire il concorso aereo alle operazioni terrestri e navali, sia con la ricognizione che con azioni operative.
Come vedremo il limite maggiore delle forze armate italiane durante la seconda guerra mondiale fu proprio la mancanza di coordinamento tra le varie forze; i reparti speciali non riuscirono a modificare le inevitabili sorti del conflitto ma rappresentarono senza dubbio, dal punto di vista operativo, un'importante innovazione in una guerra in cui la componente tecnologica fece passare l'elemento umano in secondo piano.

 

 

 

 

3.3 Forze speciali dell'esercito italiano

X reggimento arditi:
Sin dall'inizio della seconda guerra mondiale, gli inglesi avevano dato un notevole impulso all'attività dei commandos, impiegandoli sul fronte dell'Africa settentrionale in brillanti ed efficaci azioni contro le nostre retrovie. Nuclei del SAS (Special Air Service) e del LRDG (Long Range Desert Group), a bordo di veicoli specificamente attrezzati per missioni nel deserto ed a notevole distanza dalle proprie basi, si infiltravano nelle retrovie italo-tedesche e, percorrendo centinaia di chilometri, effettuavano operazioni di sabotaggio ai danni di aeroporti, depositi di munizioni e carburanti, magazzini. Le missioni erano accuratamente preparate e rese possibili da un'organizzazione logistica che prevedeva la costituzione di depositi di rifornimento occulti in punti prestabiliti del deserto o presso oasi abitate da arabi che un'abile azione di intelligence aveva portato a cooperare.
I risultati erano stati molto soddisfacenti, tanto sul piano militare quanto su quello psicologico se si tiene conto che gli obiettivi colpiti si trovavano a centinaia di chilometri oltre la linea del fronte, quindi in una posizione che li avrebbe dovuti rendere assolutamente immuni da attacchi terrestri. La bontà dei risultati conseguiti aveva indotto gli inglesi ad eseguire azioni simili anche sul territorio nazionale italiano, anche se le diverse condizioni ambientali in cui dovevano operare i sabotatori inglesi permettevano solo azioni ad obiettivi limitati (in genere linee ferroviarie litoranee), con un effetto senza dubbio più psicologico che non di reale danneggiamento.
La reiterazione di questo tipo di incursioni comportava l'impiego di mezzi e personale per la diretta sorveglianza delle coste, delle ferrovie e di altri punti sensibili (centrali elettriche, dighe, ecc.), con un notevole dispendio di energie. Anche da parte dello stato maggiore italiano, pertanto, veniva presa in esame la possibilità di costituire reparti speciali di sabotatori che, oltre alla distruzione di particolari obiettivi (ponti, aeroporti, depositi di carburante e munizioni, impianti industriali, ecc.), avrebbero costretto a loro volta il nemico ad aumentare notevolmente le misure di vigilanza intorno a possibili obiettivi, con conseguente immobilizzazione di uomini e mezzi.
In data 15 maggio 1942 si addiveniva pertanto alla costituzione del I battaglione speciale arditi, articolato su tre compagnie: 101. arditi paracadutisti, 102. arditi nuotatori (poi "da sbarco"), 103. arditi camionettisti. L'organico era di 45 ufficiali, 78 sottufficiali e 205 uomini di truppa.
La diversa titolazione delle tre compagnie era in funzione delle differenti modalità di infiltrazione degli uomini in territorio nemico, e cioè a mezzo aviolancio, via mare e via terra mediante automezzo; mentre il I battaglione procedeva nell'addestramento, che completerà a fine anno, già in agosto si dava inizio all'allestimento del II battaglione, composto da: 111. compagnia paracadutisti, 112. da sbarco, 113. e poi 120. camionettisti. Il 15 settembre 1942 i due battaglioni erano inquadrati in un reparto cui veniva dato il nome di X reggimento arditi.
Nel gennaio 1943 anche il II battaglione terminava l'addestramento, mentre lo iniziava il III (121., 122., 123. compagnia), costituito l'1 marzo e, contemporaneamente, era in gestazione l'allestimento del IV battaglione che verrà costituito ufficialmente in data 1 luglio.
Il comando del X reggimento arditi fu assegnato al colonnello Renzo Gazzaniga; il reggimento, tanto per l'addestramento che per l'impiego, era posto alle dirette dipendenze dello stato maggiore dell'esercito. Per la sede, la scelta era caduta su Santa Severa (sulla costa lungo la via Aurelia, circa 50 chilometri da Roma) che offriva, per il fatto di essere sul mare e per il retroterra costituito da boscose colline, le migliori condizioni ambientali per l'addestramento. Era inoltre vicina a Tarquinia ed a Civitavecchia, sedi rispettivamente della scuola paracadutisti e della scuola genio guastatori presso le quali doveva essere svolta una parte importante della preparazione.
L'uniforme era quella dei reparti speciali: panno grigioverde con pantaloni "a sbuffo", giubba senza bavero, distintivo da ardito al braccio sinistro, pugnale alla cintura, basco grigioverde con fregio costituito da una granata esplodente con pugnali incrociati, proprio come i reparti d'assalto della prima guerra mondiale, ed il numero romano X.
L'arruolamento del personale, tutto su base volontaria, era riservato a coloro che avevano già avuto esperienza di combattimento ed erano stati decorati almeno con la croce di guerra. Le durissime prove di collaudo fisico e psichico costringevano una percentuale molto alta di volontari alla rinuncia spontanea od obbligata, con immediato rientro ai reparti di provenienza; l'obiettivo era di ricreare i fondamenti dell'arditismo della prima guerra mondiale e di adattarli alle esigenze di una guerra più moderna.
Il presupposto operativo di base mirava alla costituzione di pattuglie composte da due ufficiali (un comandante ed un vice-comandante) e da un numero di sottufficiali e arditi, in genere intorno ai dieci-venti elementi, variabile in funzione della specialità , che avrebbero dovuto compiere azioni di sabotaggio con esplosivi in zone raggiungibili con vari mezzi.
Un importante obiettivo dell'addestramento era quello di rinsaldare in un unitario spirito di corpo uomini eterogenei, già plasmati e condizionati dalle rispettive esperienze belliche vissute in ambienti e reparti di diversa caratterizzazione. Occorreva amalgamarli ed infondere il senso di una dura disciplina in elementi molto esuberanti. Gli altri obiettivi del durissimo addestramento erano: massima specializzazione nell'uso di particolari mezzi tecnici, estrema rapidità di movimento ed accurata precisione nello svolgimento delle azioni di sabotaggio, assoluta confidenza con le varie armi (in qualunque posizione ed in qualsiasi ambiente, alla luce piena o nell'oscurità più assoluta), perfetta capacità di orientamento in qualsiasi condizione, precisa capacità di sfruttamento del terreno nella fase di avvicinamento per raggiungere la zona dell'obiettivo senza essere individuati, piena familiarità con gli esplosivi, attitudine alla sopravvivenza in condizioni ambientali e climatiche decisamente ostili.
Tutti i componenti del X reggimento arditi dovevano sottoporsi al corso "guastatori" per acquisire la necessaria preparazione all'uso dell'esplosivo ed alle tecniche delle demolizioni delle opere (ponti, caseggiati, ecc.).
Tutti i componenti delle pattuglie erano armati di moschetto automatico Beretta con caricatore da 40 colpi o di moschetto mod. 38, pistole Beretta cal. 9, pugnale e bombe a mano, zainetto da minatore (con la dotazione di utensili, capsule per accensione, miccia lenta e rapida), e muniti di speciali razioni viveri ad alto valore nutritivo contenute in involucri di alluminio a chiusura stagna.
L'esplosivo era il T4 plastico, particolarmente adattabile alle parti metalliche, con buon assortimento di accenditori di vario tipo (automatici, a strappo, chimici) e possibilità di tempi di ritardo che andavano da pochi minuti ad un'intera giornata.
La dotazione di reparto comprendeva anche un certo numero di fucili mitragliatori, mortai da 45 mm e lanciafiamme; per ogni pattuglia erano previste due o tre bussole ed altrettanti cronometri, tutto materiale impermeabilizzato e fosforescente. Il capo pattuglia disponeva inoltre di compresse di simpamina e di dosi di morfina con relative siringhe, i sabotatori erano dotati anche di carte topografiche del luogo stampate su fazzoletti e di una certa somma in valuta locale.
Esattamente come per i reparti d'assalto della prima guerra mondiale, le particolari caratteristiche dell'addestramento e dell'impiego dei reparti arditi ed i rischi insiti nelle azioni di sabotaggio, avevano indotto lo stato maggiore dell'esercito a considerare per essi un particolare trattamento economico. Oltre ai normali assegni, infatti, era previsto: uno speciale assegno giornaliero, soprassoldo di operazioni intero, premi speciali da concedersi al termine di ciascuna azione. In caso di cattura o morte il premio era assegnato ai congiunti in linea di successione od a persone designate dagli interessati.
Verso la fine del 1942, l'addestramento poteva considerarsi praticamente ultimato per il I battaglione e pressochè prossimo alla fine anche per il II.
Fra gennaio e febbraio 1943, la forza del X reggimento arditi oscillava fra 80-90 ufficiali, 150-170 sottufficiali, 550-700 uomini di truppa e, limitatamente ai due battaglioni menzionati, il reggimento era pronto all'impiego.

Battaglione alpini sciatori Monte Cervino:
Nel dicembre 1940 il fronte greco-albanese era diventato sostanzialmente stazionario e, salvo la zona del litorale, formato dalle sole truppe alpine. In base a queste considerazioni era stata presa la decisione di procedere alla costituzione di uno speciale battaglione di alpini sciatori.
Il reparto, inquadrato nel IV reggimento alpini della 1. divisione alpina Taurinense, comprendeva 320 uomini, di cui 14 ufficiali, 25 sottufficiali, 45 graduati di truppa e 236 soldati. Tenendo conto del reclutamento ad impronta regionale vigente nelle unità alpine, il grosso del reparto era quindi costituito da alpigiani della Val d'Aosta, della Valsesia, dell'Ossola, del Canavese e della val Baltea. Gli fu dato il nome della più bella cima delle alpi, Monte Cervino, e la nappina azzurro chiaro come quella del Duca degli Abruzzi. Il motto era rappresentato semplicemente da un imperativo: "Pista!"; il distintivo, rotondo a bordo giallo, raffigurava un Cervino molto stilizzato.
La data di costituzione ufficiale del Cervino è quella del 18 dicembre 1940.
L'equipaggiamento rappresentava un aspetto decisamente rilevante nella costituzione del battaglione, con grosse novità rispetto al resto dell'esercito italiano. Al Cervino fu assegnata una serie di materiali individuali e di reparto di prima qualità . Particolare rilievo ebbero gli scarponi Vibram, che all'epoca rappresentavano un grosso salto di qualità nell'equipaggiamento da montagna, inoltre giubbotti impermeabili, passamontagna, teli da tenda, zaini con armatura metallica, giberne e buffetterie varie, tutto di colore bianco per una migliore mimetizzazione in ambiente innevato che andavano a costituire il corredo di questo battaglione che, anche dal punto di vista esteriore, era veramente un reparto speciale.
L'armamento previsto era di tipo leggero, tenendo conto che, trattandosi di un reparto costituito per svolgere servizi di ricognizione e pattugliamento a largo raggio, l'armamento pesante sarebbe risultato superfluo. Le dotazioni erano le seguenti: 12 fucili mitragliatori Breda 30, 266 moschetti mod. 91, 46 pistole Beretta mod. 34. La componente trasporti comprendeva 6 autocarri leggeri L39 e 35 muli.
Era stato fatto abbastanza, quando si consideri che il Cervino, costituito alla metà di dicembre 1940, aveva ricevuto l'ordine di essere pronto a partire per il 31 dello stesso mese.

I battaglione carabinieri paracadutisti:
Il 28 maggio 1940 una circolare emanata dal ministero della guerra prevedeva la nascita di una nuova specialità : i carabinieri paracadutisti.
Nei primi quattro giorni del luglio 1940 arrivarono da tutta Italia 22 ufficiali, 50 sottufficiali e 320 fra appuntati e carabinieri destinati ad essere avviati alla scuola paracadutisti di Tarquinia per iniziare l'addestramento lancistico.
Il 15 luglio iniziava a ritmo serrato l'addestramento che verteva su una parte pre-lancistica ed una tattica. La parte pre-lancistica comprendeva preparazione fisica, prove di decisione, lanci frenati, comportamento in volo, tecnica di fuoriuscita dal velivolo e di impatto al suolo; quella tattica, preparava gli uomini alle marce operative, diurne e notturne, alle tecniche di nuoto, alle manovre a fuoco di squadra, compagnia e battaglione in terreni diversi ed al tiro con armi individuali e di reparto. Vi era poi una parte teorica che verteva sulle lezioni di topografia, montaggio, smontaggio e manutenzione delle armi, pronto soccorso, ripiegamento paracadute e caricamento degli aerorifornitori ed altre materie ritenute necessarie.
La necessità del momento avevano, però, fatto sì che tutto fosse fatto un po' troppo in fretta, senza tenere adeguatamente conto della corretta osservanza delle norme connesse con l'uso del paracadute e dell'aereo da trasporto in un tipo di lanci sensibilmente diversi da quelli d'emergenza. In 48 ore, dal 24 al 26 luglio, decedevano quattro paracadutisti per mancato spiegamento della calotta. Tutta l'attività aviolancistica fu sospesa per circa quattro mesi.
A luglio 1941, un anno dopo l'arrivo a Tarquinia, venne il momento di lasciarla per l'impiego in zona di operazioni. Destinazione: Africa settentrionale.
All'atto dello sbarco a Tripoli, il 18 luglio 1941, il battaglione aveva il seguente organico: 26 ufficiali, 51 sottufficiali, 322 graduati e militari di truppa, per un complesso di 399 unità .
L'armamento individuale comprendeva il moschetto 91, la pistola Beretta mod. 1934 cal. 9 corto (per ufficiali e sottufficiali), pugnale e bombe a mano. L'armamento di reparto consisteva in 12 mitragliatrici Fiat mod. 35, 12 fucili mitragliatori Breda mod. 30, 4 fucili anticarro "Solothurn" da 20 mm e 10 cannoni leggeri anticarro da 47/32 assegnati proprio per il particolare scacchiere operativo.

3.4 Forze speciali dell'aeronautica

Nella primavera del 1942, presso i comandi militari italiani, una parte dell'attività era dedicata all'approntamento dell'Operazione C3, nome in codice del piano per l'occupazione di Malta.
L'isola costituiva una vera e propria spina nel fianco per il nostro traffico marittimo da e per l'Africa, con notevoli implicazioni sul flusso di rifornimenti alle nostre truppe nello scacchiere libico-egiziano.
Nel contesto della pianificazione l'aeronautica era chiamata, ovviamente, a fornire il proprio specifico concorso, tanto per la componente aerei da trasporto, necessari al lancio della Folgore ed al trasporto dei vari materiali, quanto per la componente aerei da combattimento. Ma lo stato maggiore dell'aeronautica riteneva di dover estendere la diretta partecipazione della forza armata anche alle fasi dell'aviosbarco, mediante l'impiego di personale specializzato che doveva assolvere i seguenti compiti:
1. Concorrere con reparti paracadutisti alla conquista degli aeroporti di Malta, presidiarli e conservarne il possesso per la successiva utilizzazione.
2. Provvedere a rimettere in funzione aeroporti ed attrezzature aeroportuali, per mantenere e garantirne l'agibilità tecnico-operativa nelle successive fasi di afflusso.
3. Partecipare alle varie fasi di attacco delle posizioni nemiche collaborando con i reparti paracadutisti italiani e tedeschi impegnati nella fase preliminare dell'Operazione C3.
Da questi presupposti d'impiego, nasceva l'idea di costituire due reparti speciali, il I battaglione d'assalto paracadutisti ed il battaglione riattatori Loreto.

I battaglione d'assalto paracadutisti:
Costituito ufficialmente a Tarquinia, presso la scuola paracadutisti, il 12 maggio 1942, preposto allo svolgimento dei compiti 1 e 3. Aveva una consistenza organica di circa 400 uomini ed arrivò ben presto ad un alto livello addestrativo per quanto riguardava la preparazione lancistica, integrata poi, presso la scuola genio di Civitavecchia, da corsi di specializzazione per guastatori, trasmettitori, cacciatori di carri.
L'armamento comprendeva moschetti mod. 91, mitragliatori MAB 38, mitragliatrici Fiat e Breda cal. 8, pugnale e bombe a mano. Sulla sahariana grigio-azzurra dell'aeronautica gli uomini del I battaglione portavano le mostrine blu con l'ala dorata ed il piccolo gladio d'argento sovrapposto, uguale a quelle dei paracadutisti dell'esercito; sul braccio sinistro c'era il distintivo di paracadutista e, sul lato sinistro del petto, l'aquila da paracadutista identica a quella dei piloti militari ma con paracadute al posto della corona reale. Completava l'uniforme il basco grigo-azzurro con gradi e fregio della regia aeronautica ed il pugnale alla cintura.

Battaglione riattatori Loreto:
Costituito a Cameri (Novara) il 10 giugno 1942, era preposto all'adempimento del compito numero 2 mediante aviotrasporto ed, in parte, anche al numero 1. Aveva una consistenza organica quasi doppia rispetto al I battaglione, raggiungendo all'incirca gli 800 uomini. Erano dotati, oltre che dell'armamento individuale, di 40 MAB 38, 18 mitragliatrici Breda mod. 30, 6 mitragliere contraeree da 20/65, 3 stazioni RT 310, 10 motociclette. Anche loro indossavano la sahariana grigio-azzurra con basco della stessa foggia dei commilitoni del I battaglione, da cui si differenziavano per le fiamme di colore azzurro a due punte e per il distintivo da ardito sul braccio sinistro al posto di quello da paracadutista.
L'Operazione C3, però, prevista per la fine di giugno-primi di luglio, dapprima venne rinviata per poi sfumare definitivamente. Il I battaglione era trasferito ad Arezzo, sul locale aeroporto, mentre il Loreto, in novembre, era stanziato in Sicilia, a Marsala. Nei primi giorni di novembre, i due battaglioni erano assemblati nel reggimento d'assalto Amedeo d'Aosta, ma si trattava, in realtà , di una formazione solo sulla carta, perchè il reggimento non avrebbe mai visto riuniti al completo i suoi due reparti.

Battaglione ADRA (Arditi Distruttori Regia Aeronautica):
Nel frattempo l'aeronautica aveva in allestimento un altro battaglione, denominato ADRA, impostato nell'agosto 1942 a Tarquinia, e costituito poi nel febbraio 1943, per effettuare missioni di sabotaggio sugli aeroporti nemici, inizialmente anch'esso inquadrato, se pur solo formalmente, nel reggimento d'assalto Amedeo d'Aosta, ma divenuto poi autonomo e posto alle dirette dipendenze dello stato maggiore dell'aeronautica per compiti speciali.
Il reparto sabotatori annoverava poco più di 300 uomini, di cui 14 ufficiali, 24 sottufficiali e 270 uomini di truppa. Gli uomini dovevano indossare la stessa uniforme grigio-azzurra come quella del I battaglione e del Loreto, con mostrine da paracadutista; sul braccio sinistro, sotto il distintivo di brevetto lancistico, quello da ardito, mentre quello da paracadutista figurava, come per il I battaglione, sul lato sinistro del petto. La tenuta da combattimento era analoga a quella che è stata descritta per gli arditi del X reggimento dell'esercito.
Il battaglione ADRA aveva trovato sistemazione a Campo dell'Oro, nei pressi di Civitavecchia. Per gli arditi dell'aeronautica era stato previsto uno speciale trattamento economico che ricalcava quello in vigore per il X reggimento arditi dell'esercito.
Analogamente a quanto avveniva nel X reggimento arditi, l'impiego in azione era concepito per squadre di nove uomini al comando di un ufficiale o di un sottufficiale, così come del tutto simile era l'equipaggiamento individuale (pistola, moschetto automatico o mitra, pugnale, bombe a mano) e di squadra.

3.5 Forze speciali della marina militare

Nel 1935 la flotta inglese, a seguito delle tensioni sorte per la nostra imminente campagna per la conquista dell'Etiopia, era entrata minacciosamente in forze nel mediterraneo.
Nettamente inferiore nella linea delle navi da battaglia, priva di navi portaerei e di aviazione navale, la marina italiana pensò di fronteggiare la soverchiante potenza navale britannica attraverso l'impiego di mezzi d'assalto che potessero compensare il minore potenziale offensivo mediante un attacco a sorpresa contro la flotta inglese e le sue basi.
Occorreva qualcosa di nuovo, di rapida costruzione, di utilizzazione operativa immediata, un'arma, insomma, che potesse sfruttare appieno il fattore sorpresa. Nell'ottobre 1935, per ordine dello stato maggiore della marina, iniziava la costruzione di un "siluro a lenta corsa" (sulla base di precedenti progetti di due ufficiali del genio navale, Teseo Tesei ed Elios Toschi); meno di un anno dopo nasceva il "barchino esplosivo", un altro mezzo d'assalto per l'impiego in superficie.

Decima flottiglia MAS:
La denominazione Decima flottiglia MAS fu il nome di copertura che designava l'ente destinato allo studio, costruzione, addestramento ed impiego in guerra dei mezzi d'assalto della marina italiana.
Il nome di Decima flottiglia MAS fu assegnato ufficialmente il 15 marzo 1941 ad un reparto nato per distacco dalla I flottiglia MAS, in seno alla quale era stato costituito, nell'ottobre 1938, un primo nucleo di 21 ufficiali destinati ad operare con le nuove armi.
Il siluro a lenta corsa (SLC), che tutti chiamavano più semplicemente "maiale", era destinato all'attacco subacqueo delle navi nei porti nemici, mentre il barchino esplosivo era un motoscafo veloce con una carica esplosiva nella prua che, scoppiando all'urto contro una nave, doveva provocarne l'affondamento.
Il reparto ebbe in dotazione un numero limitato di questi mezzi ed ottenne una base per le sue esperienze alla foce del Serchio, in Versilia.
All'entrata in guerra, fu ordinato di accelerare i tempi ed entrare presto in azione. Le prime improvvisate missioni di guerra si conclusero, per tal motivo, con la perdita di due sommergibili trasportatori (Gondar e Iride) nei due tentativi contro Alessandria andati a vuoto, e di ben dieci operatori.
Nell'ottobre 1940 fu affidato il comando della nuova unità al capitano di fregata Vittorio Moccagatta, che iniziò l'opera di ricostruzione per dare al reparto la necessaria inquadratura organica. Furono istituiti un comando, una sezione studi e materiali, un ufficio piani; furono ampliate le fonti di reclutamento e riordinate le scuole addestrative; il gruppo fu diviso in reparto subacqueo e reparto di superficie.
La Decima flottiglia MAS registrò importanti successi, i suoi assalti ai porti di Gibilterra, Alessandria, Malta, Suda, Algeri, Sebastopoli, condotti con i barchini esplosivi, coi maiali e col trasporto a nuoto di piccole cariche ("bauletti" e "mignatte"), rappresentano i successi più eclatanti nel complesso delle operazioni della marina militare italiana.
Nei due mesi che precedettero l'armistizio, mentre gran parte degli alti comandi s'impegnava nelle trattative e nei preparativi per il rovesciamento del fronte, la Decima MAS portava a segno altri colpi sulle coste turche tra Alessandria e Mersina e, ancora una volta, nella rada di Gibilterra.

Reparti speciali "N.", "P." e "G." del reggimento San Marco:
Nei primi mesi del 1941, lo stato maggiore dell'esercito aveva elaborato uno studio operativo avente come finalità l'occupazione delle sponde del canale di Corinto, con lo scopo di contenere la massiccia pressione greca su Valona e Berat. Questa via d'acqua, lunga oltre 6 chilometri e larga circa 22 metri, oltre a rappresentare uno dei più importanti itinerari di rifornimento bellico per i greci grazie all'ausilio della marina inglese, avrebbe altresì potuto agevolare l'afflusso rapido di nostre unità nelle acque ateniesi per operazioni di carattere offensivo.
Il piano, denominato in codice "Esigenza 2P", prevedeva il lancio sull'obiettivo dei tre battaglioni del 1° reggimento paracadutisti. Alla marina, era richiesto di appoggiare dal mare l'occupazione di Poseidonia, allo sbocco occidentale del canale, ma la stessa forza armata avanzava la proposta di estendere il proprio contributo attraverso l'aviolancio di un nucleo di uomini specificamente addestrati ed equipaggiati cui sarebbe stato affidato il compito di rimuovere eventuali ostruzioni marine, di impadronirsi dei natanti ormeggiati e di ripristinare, qualora interrotto, il traghettamento fra le due sponde.
Questa integrazione al piano operativo veniva approvata, ed il 10 marzo 1941 un primo gruppo di 20 uomini appartenenti al reggimento San Marco veniva inviato da Pola a Tarquinia, presso la scuola paracadutisti, ed aggregato al III battaglione paracadutisti dell'esercito.
Alla data del 22 aprile erano affluiti da Pola altri volontari, fino a raggiungere un totale di 78 uomini, che ulteriori selezioni fisiche ed infortuni riducevano a 50 (3 ufficiali, 8 secondi capi e sergenti, 39 sottocapi e comuni), tutti regolarmente brevettati paracadutisti alla fine di maggio.
Indossavano la divisa grigioverde del San Marco, con il basco ed il caratteristico camisaccio dalle manopole rettangolari rosse con al centro il profilo dorato del leone di San Marco al di sopra dei risvolti di entrambe le maniche. Le calzature e le fasce mollettiere della tenuta ordinaria furono sostituite dagli alti stivaletti da paracadutista e da calzettoni grigioverdi.
Il distintivo di specialità era dato da un paracadute posto fra le ali spiegate di un'aquila i cui artigli ed il cui becco sorreggevano un pugnale posto orizzontalmente, portato sulla manica sinistra.
Gli uomini erano addestrati all'impiego del Moschetto Automatico Beretta (MAB mod. 38) e perfezionavano il tiro alla pistola, il lancio di bombe a mano e l'uso del pugnale. Svolgevano anche molto orientamento topografico, marce notturne, lettura di aero-fotografie panoramiche e planimetriche, pronto soccorso ed altre nozioni varie che completavano la preparazione dei marinai paracadutisti.
I tedeschi, però, giocarono d'anticipo, ed i loro paracadutisti il 26 aprile 1941 occuparono le sponde del canale di Corinto. Venuta meno l'Esigenza 2P, il suo annullamento non doveva però comportare lo scioglimento di quella che era ufficialmente diventata la sezione paracadutisti del reggimento San Marco.
Si decise di mantenere in vita la specialità , di variarne la sede e di configurarne l'ordinamento a livello di una compagnia. La scelta della nuova sede era caduta su Porto Clementino, a pochi chilometri dalla scuola paracadutisti; intanto a Pola continuava l'afflusso del personale destinato a costituire la futura compagnia "P." (paracadutisti) del reggimento San Marco, che avrebbe dovuto inquadrare 115 elementi e 147 addetti ai servizi. Ai primi di novembre del 1941 la compagnia "P." poteva considerarsi allestita, mentre contemporaneamente prendeva vita un nuovo reparto speciale del reggimento San Marco.
Si decise, infatti, la costituzione di un reparto "G." (guastatori), con il compito di effettuare operazioni di sabotaggio nelle retrovie inglesi in Egitto, i quali, trasportati da sommergibili, avrebbero poi raggiunto la costa a mezzo di battelli. Il brevetto da guastatore era conseguito presso la scuola genio guastatori di Civitavecchia. La divisa era quella del San Marco, con il camisaccio grigioverde dalle manopole rosse sulla cui manica sinistra figurava il distintivo di guastatore sormontato da una "N" nera.
Inoltre, il 21 giugno 1942, nasceva un altro reparto speciale, inizialmente denominato battaglione speciale Mazzucchelli, ma poi divenuto battaglione "N." (nuotatori). Era, infatti, composto da 500 uomini che, addestrati al nuoto in alto mare ed al sabotaggio, dovevano costituire un complesso specializzato per operare sulla costa nemica, precedendo le ondate di sbarco.
Il 6 aprile 1943 i due battaglioni speciali del San Marco erano riuniti a Livorno in un gruppo battaglioni "N.P.", ed alla fine di maggio 1943 la loro consistenza organica era di 580 uomini per il battaglione "P." e 240 uomini per il battaglione "N.". Il reparto "G.", al 19 luglio dello stesso anno, comprendeva due compagnie operative di circa 120 uomini ed una in addestramento, tutte dislocate a Tirrenia.

 

3.6 Impiego e risultati

Un'analisi sulla costituzione e sull'impiego dei reparti speciali italiani durante la seconda guerra mondiale, deve necessariamente partire da considerazioni di carattere generale riguardanti lo stato della nostra preparazione militare, per un conflitto mondiale totalmente diverso da quello di venticinque anni prima.
Erano comparse armi ed apparecchiature tecnologicamente sempre più avanzate, erano cambiati gli scenari fisici ed ambientali degli scacchieri operativi, erano variate le priorità degli obiettivi (con un'estensione alle infrastrutture logistiche e produttive sconosciuta durante la prima guerra mondiale), erano di conseguenza mutate le concezioni strategiche ed i criteri d'impiego degli uomini e dei mezzi. Come abbiamo rilevato, infatti, la scarsa importanza data alla preparazione bellica nell'Italia fascista portò, come inevitabile conseguenza, ad un mancato adeguamento del nostro apparato bellico, militare ed industriale, alle esigenze di questa nuova dimensione di un conflitto che era molto più "mondiale" di quanto non fosse stato il primo.
Il ritardo concettuale ed esecutivo nella realizzazione dei reparti speciali, è stato la causa prima di un impiego risultato nettamente inferiore alle qualità tecniche ed addestrative prodotte all'interno delle rispettive strutture, e sicuramente non ottimale e pagante in termini di utilizzazione.
Come si può constatare attraverso la storia dei singoli reparti speciali, ad eccezione dei mezzi d'assalto della marina, il loro allestimento era stato avviato a guerra già iniziata e condotto a termine quando l'andamento del conflitto mondiale non consentiva più un impiego di queste unità corrispondente al raggiungimento degli obiettivi per cui erano stati creati. Gli oneri che ne conseguirono, tenendo conto del dispendio di un personale di non facile reperibilità , formazione e qualificazione, furono enormi.
Il ritardo nell'allestimento dei reparti speciali non poteva non trasmettersi anche in un ritardo nell'impiego. Lo attesta, fra gli altri, il caso del X reggimento arditi, la cui prima azione fu compiuta a metà gennaio 1943, quando la nostra situazione militare vanificava in gran parte gli esiti pur positivi di un certo tipo di missioni. Non solo, ma questa ritardata realizzazione comportava, come abbiamo evidenziato, l'utilizzo di procedure e modalità addestrative affrettate, tendenti a bruciare il tempo ed a riguadagnare quello perduto. La fretta escludeva, ovviamente, la possibilità di una programmazione accurata che fosse il frutto di un'elaborazione critica delle esperienze altrui, amiche e nemiche.
L'evoluzione negativa delle nostre vicende belliche comportava inoltre un altro inconveniente nella gestione dei reparti speciali, il loro sottoimpiego, come dimostrano l'invio del battaglione alpini sciatori Monte Cervino in Albania, dei battaglioni paracadutisti e riattatori dell'aeronautica in Tunisia, del battaglione carabinieri paracadutisti in Libia, destinati a compiti di tamponamento e d'arresto per l'assolvimento dei quali non disponevano nè della preparazione nè dei mezzi adatti e che sarebbero potuti essere svolti da reparti ordinari, meno qualificati e specializzati.
È stato un errore non averli costituiti per tempo, sin dagli anni di pace, facendoli trovare all'inizio delle ostilità ad un livello di prontezza tale da consentirne una utilizzazione immediata e pagante a livello strategico; è stato ancora più erroneo, però, una volta che furono costituiti sia pure in ritardo, non utilizzarli al meglio delle loro possibilità e dissiparne lo specifico potenziale che meritava di essere sfruttato nel modo migliore.
Gli organismi militari italiani, nel periodo intercorrente fra le due guerre mondiali, non riuscirono a mettersi al passo con i tempi, senza riuscire, quindi, ad assimilare nuovi sistemi di offesa.
Le "azioni speciali", all'inizio degli anni quaranta, non erano più pensabili nei termini nei quali erano state condotte dagli arditi del 1917-1918; una pattuglia di incursori o sabotatori doveva ormai operare sulla scorta di una dottrina d'impiego ben definita, accompagnata da procedure tattiche specifiche e rese aderenti ai mezzi di scoperta e reazione dell'avversario.
Era importante, inoltre, risolvere gli inevitabili problemi connessi alla nascita del paracadutismo operativo in Italia; mancava l'esperienza, a tutti i livelli, tanto nella nuova specialità delle aviotruppe che stava sorgendo in seno all'esercito quanto negli equipaggi di volo dell'aeronautica. La risoluzione di questi problemi comportava un'accurata preparazione di base da parte di entrambe le componenti, quella aerea e quella paracadutistica, che tenesse conto l'una dei requisiti e delle esigenze dell'altra, alla quale facesse poi seguito un affiatamento standardizzato di norme e procedure che portasse alla necessaria complementarità . Lo stato di guerra, ovviamente, non facilitava un'adeguata messa a punto delle procedure; anche le successive operazioni da svolgere a terra una volta effettuata l'infiltrazione (aerea, navale o terrestre) avrebbero richiesto delle conoscenze che le nostre forze armate non possedevano; lo studio dell'obiettivo, la pianificazione dell'attacco, l'esfiltrazione ed il recupero degli operatori dovevano rispondere a criteri definiti, opportunamente analizzati e messi a punto, non approssimati e genericamente vaghi come spesso accadde.
Le sorti della guerra, specie da un certo momento in poi, non sarebbero certamente cambiate ma un utilizzo maggiormente lungimirante delle nostre forze speciali era un obbligo.
Quello che mancò, per quanto riguarda i reparti speciali della seconda guerra mondiale, fu soprattutto un reale coordinamento generale del loro impiego da parte dei superiori organi di comando (comando supremo in primo luogo, ancor più che gli stati maggiori di forza armata) che della loro utilizzazione avrebbero dovuto avere una visione panoramica d'insieme, strategica, finalizzata ad una organicità di interventi ben diversa dalla frammentarietà che disperse le azioni dei nostri reparti speciali.

 

CAPITOLO 4
IL SECONDO DOPOGUERRA

 

4.1 Ricostituzione delle FF.AA.

La sconfitta militare del 1943 e l'armistizio dell'8 settembre coincisero con la quasi completa dissoluzione delle forze armate italiane. Così, all'indomani dell'armistizio, dell'esercito italiano rimase ben poco: ciò che gli alleati consentirono si ricostituisse divenendo poi l'embrione dell'esercito di liberazione e i gruppi che si organizzarono, in Italia o fuori di essa, nelle brigate della Resistenza.
Con la fine della guerra, la situazione non cambiò molto. Il problema della ricostituzione di un esercito italiano rimase condizionato, sino alla firma del trattato di pace, dalla subordinazione alla volontà degli Alleati, sempre meno presenti come forze d'occupazione, ma sempre ben presenti a seguire l'evoluzione politica italiana anche per ciò che riguardava le sue strutture militari. A questa condizione di minorità s'aggiungeva il fatto che molte ragioni profonde rendevano difficile in Italia la ripresa di un dibattito o, più ancora, di una iniziativa in materia militare. I problemi dell'esistenza di un esercito, di una marina o di un'aviazione apparivano remoti rispetto alle esigenze più immediate della vita quotidiana.
A modificare rapidamente questa situazione o, meglio, a ridare attualità politica al problema dell'esistenza di un esercito italiano, furono le note vicende del secondo dopoguerra, prima ancora che la potenziale rivalità fra Unione Sovietica e Stati Uniti diventasse "guerra fredda" palese. In breve gli Alleati si resero conto dei problemi che il mantenimento dell'ordine pubblico e lo svolgimento di tutta una serie di funzioni statuali ponevano, postulando l'esistenza di un esercito italiano. Gli Alleati erano, però, mossi da motivi contraddittori: l'utilità di un contributo italiano, per quanto modesta potesse essere, e la diffidenza o il sospetto verso una struttura militare che risorgeva così rapidamente in un paese che fino a pochi mesi prima era stato un nemico, e verso la cui tradizione militare si ostentava una certa mancanza di considerazione.
Già l'11 settembre 1943 il comando supremo, installatosi a Brindisi, indirizzò ai capi di stato maggiore di forza armata il foglio n° 1015 con il quale, precisato che i tedeschi, avendo apertamente iniziato le ostilità contro di noi, erano da considerarsi nemici ed andavano di conseguenza combattuti, si ordinava di contrastare ogni loro ulteriore rafforzamento, raccomandando di procedere in stretta collaborazione con gli anglo-americani.
Oltre alle forze già disponibili, il 14 settembre fu costituito, con le forze mobili del IX corpo d'armata, un nuovo corpo d'armata, il LI. Sia il governo sia i vertici militari italiani intendevano, in questo modo, offrire una immediata e positiva risposta al memorandum del Quebec del 7 agosto 1943 nel quale Churchill e Roosvelt avevano dichiarato che "le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i tedeschi" aggiungendo subito dopo che "la misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra. Le Nazioni Unite dichiarano tuttavia senza riserve che ovunque le forze italiane e gli italiani combatteranno i tedeschi, o distruggeranno proprietà tedesche, od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l'aiuto possibile dalle forze delle Nazioni Unite".
L'illusione italiana che l'armistizio poteva essere un primo passo per l'attuazione di un rovesciamento di alleanze che avrebbe portato l'Italia nel campo delle Nazioni Unite o, comunque, un fondamentale contributo perchè si realizzassero le condizioni previste dal memorandum per attenuare sensibilmente le conseguenze della sconfitta, non durò a lungo. Il 22 settembre, infatti, il generale Mac Farlane, capo della missione alleata presso il governo italiano, chiarì la posizione delle truppe italiane, informando il nostro governo che i reparti del LI corpo d'armata avrebbero dovuto assolvere da quel momento solo compiti di retrovia ed, inoltre, cedere tutti i loro automezzi agli Alleati.
L'Italia dovette, come è noto, firmare il cosiddetto "armistizio lungo" il 29 settembre e dichiarare guerra alla Germania il 13 ottobre per ottenere il riconoscimento dello status di cobelligerante, che però lasciava al comandante alleato, in quel momento il generale Eisenhower, la facoltà di decidere l'entità e la qualità del nostro concorso alle operazioni contro i tedeschi.
Gli Alleati, in particolar modo l'Inghilterra, rifiutarono tutte le offerte italiane di collaborazione operativa, pretendendo invece un sempre maggiore apporto di manovalanza per le attività logistiche di retrovia. Gli Alleati, però, non poterono negare una partecipazione sia pure simbolica alle operazioni ed il 24 settembre 1943 autorizzarono la costituzione di un raggruppamento motorizzato, riservandosi la facoltà di decidere dove e quando impiegarlo in linea.
Fu così costituito il 1° raggruppamento motorizzato, un complesso pluriarma a livello di brigata su quattro battaglioni di fanteria, quattro gruppi d'artiglieria a traino meccanico, il LI battaglione misto genio e reparti dei servizi, in tutto 5.200 uomini.
L'autorizzazione a costituire il raggruppamento non fu, però, considerata un risultato ottimale dal comando supremo italiano, che continuò con determinazione a riorganizzare quanto era rimasto dell'esercito, sempre convinto che fosse necessario ampliare la partecipazione italiana al conflitto.
Gli ostacoli frapposti dagli Alleati all'attività di riorganizzazione delle nostre forze armate furono tantissimi e di ogni genere. Per controllare l'attuazione delle clausole armistiziali da parte del governo italiano, gli Alleati costituirono la Allied Control Commission (ACC) e da quest'ultima dipendevano tre sottocommissioni, una per ciascuna forza armata; per l'esercito la Military Mission to the Italian Army (MMIA) che, come le altre sottocommissioni, esercitava un controllo fiscale ed oppressivo sull'attività di comando dei nostri vertici militari.
In pratica, la storia della ricostruzione delle forze armate italiane dal settembre 1943 al maggio 1945 è, in gran parte, la storia dei difficili rapporti tra il nostro comando supremo e le autorità alleate, diffidenti ed intenzionate ad utilizzare nel loro esclusivo interesse le nostre residue potenzialità umane e logistiche ed a negarci anche il diritto di combattere per la liberazione dell'Italia.
Il 17 ottobre la MMIA riconobbe all'Italia il diritto di mantenere in vita dieci divisioni, da impiegare per la sicurezza del territorio a sud della linea Pisa-Rimini. Sulla base delle disposizioni alleate lo stato maggiore dell'esercito aveva intanto iniziato la riorganizzazione ordinativa delle unità ed aveva provveduto a costituire nel Salento quattro campi di riordinamento, poi divenuti sei, per la raccolta, l'assistenza ed il reimpiego dei numerosi militari sbandati che affluivano dal territorio nazionale e dai Balcani, oltre naturalmente a curare l'organizzazione e l'addestramento del 1° raggruppamento motorizzato. I campi di riordinamento raccolsero oltre 40.000 militari sbandati, che furono impiegati per completare le unità rimaste in Puglia e per costituire le prime unità di lavoratori richieste dagli Alleati.
A metà novembre rientrò dalla prigionia in Inghilterra il maresciallo Messe che fu chiamato a ricoprire la carica di capo di stato maggiore generale.
Intanto, in dicembre, era entrato in linea, nell'ambito del II corpo d'armata americano, il 1° raggruppamento motorizzato a cui fu dato il compito di conquistare le posizioni di Monte Lungo, un'altura rocciosa nei pressi della statale Casilina e della linea ferroviaria Napoli-Cassino-Roma.
Il 6 febbraio 1944 il 1° raggruppamento motorizzato tornò in linea nel settore delle Mainarde (sull'Appennino abruzzese), inquadrato nel corpo d'armata francese, con un organico potenziato, tra cui figurava il IX reparto d'assalto. Il raggruppamento si comportò egregiamente offrendo così al comando supremo l'appiglio per ottenere un ampliamento della nostra partecipazione alla campagna d'Italia.
Il 18 aprile 1944, di conseguenza, il 1° raggruppamento motorizzato cessava di esistere dando vita al Corpo Italiano di Liberazione (CIL), forte di circa 25.000 uomini, dotato di armamento ed equipaggiamento italiani e privo di componente corazzata.
Inquadrato nell'VIII armata britannica, il CIL ne seguì le vicende operative e si schierò di fronte alle posizioni tedesche della linea gotica. Il tributo di sangue dei nostri militari fu di 350 caduti e 750 feriti.
Nell'estate del 1944 gli Alleati avevano inviato nella Francia meridionale cinque divisioni di quelle impiegate sul fronte italiano; fu quindi deciso dagli Alleati di costituire con truppe italiane sei gruppi di combattimento, equipaggiati ed armati con materiale britannico. La costituzione dei gruppi di combattimento comportò il ritiro dal fronte del Corpo Italiano di Liberazione (CIL) in quanto i suoi reparti sarebbero stati immessi nelle nuove unità . Poichè le nuove unità avrebbero ricevuto l'armamento inglese, il primo problema da risolvere fu quello dell'addestramento del personale all'impiego delle nuove armi. Portata a compimento questa prima fase, si iniziò l'addestramento individuale e di reparto per passare, infine, alle esercitazioni d'insieme.
In totale 432 ufficiali e 8578 sottufficiali e militari di truppa formarono i gruppi di combattimento; decisamente un complesso di forze combattenti e di forze ausiliarie di notevole ampiezza.
A mano a mano che gli Alleati ne giudicarono soddisfacente l'addestramento i gruppi di combattimento furono avviati al fronte. Dopo un periodo di stasi operativa, durante la quale l'attività dei nostri gruppi di combattimento fu caratterizzata da una costante attività di esplorazione ravvicinata, di pattugliamento e di reazione ai numerosi tentativi di colpi di mano effettuati dai tedeschi, fu finalmente sferrata l'offensiva finale anglo-americana e l'azione dei gruppi di combattimento fu scandita dal forzamento dei vari corsi d'acqua incontrati (il Senio, il canale di Fusignano, il Canalina, il Santerno), dal passaggio del Po e dell'Adige e dal susseguirsi di attacchi diretti alla conquista di località tatticamente importanti.
Le perdite subite dai gruppi di combattimento nell'offensiva finale della guerra di liberazione, non furono particolarmente onerose, specie se rapportate ai brillanti risultati ottenuti contro un avversario che si mantenne combattivo fino all'ultimo: 741 caduti, 1580 feriti, 75 dispersi. Il buon rendimento tattico dei nostri reparti va ascritto principalmente alla serietà dell'addestramento svolto, prima di entrare in linea, da tutti i gruppi di combattimento italiani.

4.2 Nuovi scenari nel mondo bipolare

La fine delle ostilità comportò per gli Alleati la necessità di decidere quali e quante forze consentire al nostro paese, in attesa che il trattato di pace ne definisse chiaramente la posizione nel contesto internazionale post-bellico.
Le motivazioni di fondo che orientarono le decisioni alleate furono due: il timore che anche in Italia si determinasse una situazione di guerra civile, come era accaduto in Grecia; il contrasto con la Jugoslavia, sospettata di voler invadere le province orientali italiane. Secondo il parere della MMIA, quindi, l'esercito italiano avrebbe dovuto possedere due requisiti ben precisi: avere dimensioni appena sufficienti per difendere la frontiera orientale e per mantenere l'ordine pubblico ed essere in grado di venire potenziato, in caso di guerra, per essere schierato a fianco degli Alleati. Da queste considerazioni derivava anche la necessità per gli Alleati di farsi carico dell'equipaggiamento delle nostre unità , non essendo il governo italiano in grado di devolvere una parte delle sue scarse risorse a spese di carattere militare.
Il Quartier Generale Alleato in Italia l'8 novembre 1945 emanò un documento conosciuto come "Direttiva n°1", che stabilì l'ordinamento dell'esercito nel periodo intercorrente tra la fine delle ostilità e la stipulazione del trattato di pace. In sintesi la Direttiva n°1 stabiliva il ritorno dell'esercito sotto l'autorità del governo italiano a partire dalla mezzanotte del 14 novembre 1945; il diritto del Comandante Supremo Alleato ad assumere in qualsiasi momento il comando di tutto o parte dell'esercito italiano; l'obbligo per il governo italiano di mantenere l'ordinamento dell'esercito nei limiti stabiliti: cinque gruppi di combattimento, tre divisioni di sicurezza interna e dieci reggimenti non indivisionati, per un totale di 140.000 uomini, carabinieri esclusi.
Per quanto riguardava, invece, la gestione della marina militare e dell'aeronautica, le autorità alleate adottarono criteri molto diversi da quelli utilizzati per l'esercito. Sia la flotta sia l'aviazione italiana furono, infatti, mantenute sotto uno stretto controllo amministrativo e operativo in pratica fino alla firma del trattato di pace.
Il 10 febbraio 1947 l'Italia firmò a Parigi il trattato di pace che entrò in vigore, dopo la ratifica dell'Assemblea Costituente, il 15 settembre successivo.
Le clausole militari del trattato prevedevano la limitazione degli effettivi dell'esercito a 185.000 uomini, più 65.000 carabinieri, con la possibilità di variare di 10.000 unità le due cifre senza però superare complessivamente le 250.000 unità . Quanto all'armamento era vietato possedere artiglierie con gittata superiore a trenta chilometri, di superare il numero di duecento carri armati e di acquistare o di fabbricare materiale bellico di origine tedesca e giapponese. Le frontiere, infine, dovevano essere smilitarizzate per una profondità di venti chilometri.
L'iniquità di queste clausole, e del trattato di pace nel suo complesso, provocò forti reazioni sia per quanto riguardava la considerazione secondo cui l'entità e l'armamento delle nostre forze armate erano assolutamente inadeguati alle necessità della difesa dei confini terrestri e della grande estensione delle nostre coste, sia per le ripercussioni in campo morale, non avendo tenuto conto del memorandum del Quebec e dello sforzo italiano nei duri mesi di guerra al fianco degli Alleati e della partecipazione alla lotta comune.
Questa situazione, caratterizzata dalle umilianti clausole militari del trattato, fu superata solo con l'adesione italiana al Patto Atlantico.
Il 4 aprile 1949 gli Stati Uniti avevano, infatti, stretto intorno a sè, in un'alleanza chiamata appunto Patto Atlantico, undici paesi occidentali: Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Italia, Danimarca, Norvegia, Islanda, Portogallo (più tardi anche Grecia e Turchia). Questa alleanza si dotò di una sua forza militare sotto comando unico, che prese il nome di NATO (North Atlantic Treaty Organization).
L'adesione italiana al Patto Atlantico, con la conseguente possibilità di beneficiare del "Programma di assistenza militare" votato dal senato degli Stati Uniti in favore dei paesi alleati, consentì quindi alle forze armate italiane di superare il punto morto e di puntare all'abolizione delle umilianti clausole militari del trattato di pace. Era chiaro ormai che una sola potenza, gli Stati Uniti, avrebbero garantito all'Italia i mezzi finanziari, l'assistenza economica e la sicurezza militare che le erano necessari.
La ricostruzione delle forze armate ebbe quindi un notevole acceleramento, reso possibile sotto il profilo economico dal progressivo aumento degli stanziamenti di bilancio e soprattutto dall'entità degli aiuti statunitensi. Furono i materiali e le armi cedute dagli Stati Uniti che consentirono di equipaggiare e di armare le nuove unità italiane.
Nel primo quinquennio degli anni cinquanta vi fu un'ulteriore e rapida crescita delle nostre forze armate dovuta a circostanze esterne, come la guerra di Corea ed il crescente contrasto tra l'U.R.S.S e gli U.S.A., contrasto tramutatosi presto in una lotta implacabile anche se non guerreggiata tra il mondo occidentale e quello orientale.
Entrare a far parte di un organismo militare plurinazionale ed integrato rappresentò per le forze armate italiane un avvenimento senza dubbio positivo; pur conservando natura e caratteristiche nazionali si dovettero adeguare mentalità e consolidate modalità procedurali a quelle, tipicamente anglosassoni, in uso nell'organizzazione NATO, nell'ambito della quale sarebbero state chiamate ad operare in caso di guerra. Com'è noto, infatti, le forze armate dei paesi membri dell'alleanza rimangono sotto comando nazionale; il trasferimento sotto il comando e controllo operativo di un comandante NATO avviene solo su decisione dei membri dell'alleanza.
L'inserimento delle nostre forze armate in un complesso di forze plurinazionali, che disponeva anche dell'ordigno nucleare, mutò sostanzialmente i termini del problema operativo, riducendo il ruolo delle forze convenzionali a quello di campanello d'allarme per far scattare la reazione nucleare, di cui avrebbero poi sfruttato gli effetti.
L'alleanza atlantica è stata costituita per prevenire l'aggressione contro i paesi membri, o per respingerla ove avesse avuto luogo. Pertanto la NATO doveva necessariamente mantenere forze sufficienti a conservare l'equilibrio militare con il Patto di Varsavia e a porre in atto una dissuasione credibile.
A partire, però, dalla seconda metà degli anni Cinquanta le forze armate italiane furono sottoposte a numerose ristrutturazioni che si sostanziarono in pratica in ridimensionamenti, dovuti quasi esclusivamente a ragioni di natura economica.
I gravi problemi che i governi della Repubblica italiana dovettero risolvere per consentire alla nazione, uscita stremata dalle vicende belliche, uno sviluppo economico e sociale adeguato, non lasciarono spazio alle esigenze di difese. Parlamento, governo e partiti, inoltre, ritennero che la difesa dell'Italia fosse ormai un problema NATO, indipendente o quasi dalle forze armate nazionali, e relegarono quindi l'esigenza difesa agli ultimi posti della scala delle priorità ..
In tutti questi anni l'esercito visse costantemente nella drammatica contraddizione tra la progressiva crescita delle esigenze e la non meno progressiva diminuzione delle risorse per soddisfarle.
Alla fine degli anni Sessanta la situazione peggiorò ulteriormente poichè il divario tra esigenze operative e risorse finanziarie si era approfondito nel corso degli anni, anche a causa dell'invecchiamento dei materiali, ormai tecnicamente superati.
L'inizio degli anni Settanta, poi, registrò la generale crisi economica, provocata dalla svalutazione del dollaro e dalla conseguente rottura degli accordo monetari; per noi fu aggravata dal subitaneo e vertiginoso aumento del prezzo del greggio ed ebbe sul potenziamento delle nostre forze armate un impatto disastroso.
A seguito di questa situazione si dovette procedere ad una ristrutturazione globale ed organica dell'apparato militare ed allora ciascuna forza armata dovette procedere per conto suo; l'esercito, nel 1975, ridusse di 51.000 unità la sua forza.
Il criterio fondamentale della ristrutturazione delle forze armate era la riduzione delle dimensioni dell'apparato militare per recuperare risorse a vantaggio dell'ammodernamento e del potenziamento dei mezzi e dei materiali.
Nel 1990 la situazione strategica, con il crollo del muro di Berlino e la progressiva dissoluzione dell'U.R.S.S., era radicalmente mutata e, dopo quasi mezzo secolo di sostanziale immobilismo, rese superato lo strumento militare italiano, concepito e strutturato per parare una ben determinata minaccia che, improvvisamente, era scomparsa. Era quindi necessaria l'adozione al più presto di un nuovo modello di difesa.
La dissoluzione dell'U.R.S.S. ha comportato, infatti, una modificazione nella situazione geostrategica di riferimento, ma non ha annullato la minaccia, ne ha soltanto determinato una trasformazione, rendendola meno prevedibile e quindi di più difficile contenimento.
L'invasione irachena del Kuwait e la conseguente decisione dell'ONU di reagire con la forza all'aggressione, scossero l'opinione pubblica italiana, costretta a prendere atto di quanto fosse velleitaria l'ipotesi che, il crollo dell'U.R.S.S., avrebbe determinato una situazione internazionale in cui le esigenze di difesa fossero totalmente superate.
La vicenda della guerra del Golfo ebbe comunque una conseguenza importante: fece maturare l'orientamento a costituire alcune unità esclusivamente con personale volontario, per disporre in ogni evenienza di una forza prontamente e sicuramente impiegabile.

4.4 Gli attuali incursori della marina militare italiana

La seconda guerra mondiale aveva visto l'affermazione dei mezzi d'assalto della marina militare italiana. Caratteristica delle azioni degli assaltatori della Decima MAS era l'attacco condotto tutto per via marittima, ma le operazioni speciali condotte durante la guerra dalle marine alleate influenzarono anche la nostra marina militare.
I colpi di mano contro obiettivi della fascia costiera condotti da reparti di modesta consistenza numerica, le ricognizioni di spiaggia per individuare le più idonee operazioni anfibie e la loro bonifica mediante la distruzione degli ostacoli antisbarco, portarono a concepire una nuova specialità : un reparto da affiancare a quello degli assaltatori della seconda guerra mondiale, ma da questo distinto e separato.
Fu in quest'ottica che nel gennaio 1952 si decise la costituzione di un gruppo di "Guastatori di Marina" ed il 2 febbraio furono inviati alla scuola genio pionieri della Cecchignola i primi operatori del neonato "Gruppo Guastatori della Marina".
A maggio i guastatori si trasferirono nel comprensorio del Varignano, in località Le Grazie nei pressi di La Spezia. Al neonato reparto, la marina aveva assegnato il colpo di mano contro obiettivi marittimi e terrestri e le operazione di ricognizione e bonifica delle spiagge in appoggio alle operazioni anfibie. Nel frattempo il gruppo partecipava con successo ad esercitazioni con reparti similari stranieri e migrava verso una nuova specialità : gli "Arditi Incursori".
Il 1956 segnò la fine del capitolo arditi incursori; la componente operativa, infatti, assunse la denominazione di "Gruppo Incursori", diviso in due aliquote: gli incursori navali e gli incursori costieri. La successiva evoluzione verso l'attuale fisionomia degli incursori di marina trova le sue radici proprio nel 1956; nell'agosto di quell'anno, infatti, lo stato maggiore della marina approvò un programma per il corso di formazione degli incursori che, nella sua struttura fondamentale, è in vigore ancora oggi. L'addestramento degli uomini fu esteso sino ad includere, oltre alle classiche attività in mare, anche operazioni di lancio col paracadute e la scalata di pareti rocciose con trasporto di materiali.
Fu prevista la formazione basata su tre fasi distinte, nettamente caratterizzate dall'ambiente operativo: fase terrestre, fase acquatica e fase anfibia quale saldatura tra le due; si rinunciò, inoltre, all'arruolamento del personale di leva limitando l'accesso alla categoria ai soli volontari.
Nel 1961, con la definitiva costituzione di COMSUBIN (acronimo di Comando Subacquei ed Incursori), la distinzione tra incursori navali e costieri fu in breve tempo eliminata ed iniziò un nuovo capitolo. Il reparto assunse la denominazione di Raggruppamento Subacquei e Incursori "Teseo Tesei", in onore dell'ufficiale del genio navale che negli anni Trenta aveva contribuito alla realizzazione degli SLC (Siluri a Lenta Corsa, meglio noti come "maiali"), protagonisti delle imprese dei mezzi d'assalto della marina durante la seconda guerra mondiale.
Nel luglio del 1962 gli incursori fecero il loro primo lancio con paracadute ad apertura vincolata sul piccolo aeroporto di Tassignano, nei pressi di Lucca; il 15 aprile 1965, per la prima volta, nuotatori in assetto da combattimento, si lanciarono senza paracadute da elicotteri in volo, mentre il 2 febbraio 1971 sette incursori si lanciarono, con la tecnica del lancio ad apertura comandata, da un elicottero della marina.
Oggi il COMSUBIN è composto da tre gruppi operativi: il Gruppo Operativo Subacqueo (GOS), il Gruppo Navale Speciale (GNS) ed il Gruppo Operativo Incursori (GOI). Insieme ad essi operano un Centro Ricerche e Studi (responsabile della messa a punto del materiale degli incursori e dei subacquei) ed un Gruppo Scuole (incaricato della formazione del personale).
Il Gruppo Operativo Incursori è costituito esclusivamente da ufficiali e sottufficiali e la sua consistenza numerica ammonta a circa 150 uomini. I compiti di istituto assegnati al Gruppo Incursori dallo stato maggiore della marina sono:
1. Attacchi ad Unità Navali e mercantili in porto o alla fonda con l'impiego di diversi sistemi d'arma;
2. Attacchi ad installazioni portuali e/o costiere ed infrastrutture civili e militari entro la fascia di 40 Km dalla costa;
3. Operazioni di controterrorismo navale soprattutto orientate alla liberazioni di ostaggi, Unità passeggeri o mercantili ed installazioni marittime;
4. Infiltrazione e permanenza in territorio ostile per missioni di tipo informativo e/o di supporto al fuoco navale.

Per poter assolvere questa vasta tipologia di compiti, gli incursori, oltre ad una spiccata e specifica preparazione come uomini rana e conduttori di mezzi insidiosi, in relazione alle possibili linee di avvicinamento agli obiettivi, devono essere anche abili paracadutisti e provetti rocciatori, oltre ad avere una elevata capacità a permanere ed operare per un certo periodo in territorio avversario.
Tutti gli incursori hanno, infatti, l'abilitazione militare al lancio con paracadute poichè, anche se per il personale del GOI l'infiltrazione con il paracadute non rappresenta la norma, tutte le forze speciali tendono ad assicurarsi la massima flessibilità operativa.
Il Gruppo Operativo Incursori inquadra i team operativi destinati ad attaccare in modo occulto e senza preavviso obiettivi navali (categoria in cui rientrano sia le navi e altri bersagli d'interesse situati in mare, quali ad esempio le piattaforme petrolifere, sia obiettivi terrestri situati in prossimità delle coste, quali infrastrutture portuali militari e mercantili, stazioni radar e d'ascolto, centri di telecomunicazioni, depositi ed altro). Per assicurare la preparazione richiesta è necessario un continuo addestramento, che oltre a curare gli aspetti fisici e tecnici coinvolge anche quelli psicologici. Il ciclo di formazione di un operatore del GOI si articola, infatti, su un'attività molto dura e selettiva, che consente di arrivare in tre anni alla qualifica di "combat ready" solo al dieci per cento dei volontari che annualmente chiedono di entrare a far parte del raggruppamento.
La totale autonomia logistica ed operativa e la capacità di rapido approntamento anche in tempo di pace, rendono questo reparto particolarmente efficace in situazioni di emergenza provocate da conflittualità o crisi nazionali ed internazionali, o di calamità naturali di vaste proporzioni.
Negli ultimi anni gli incursori sono intervenuti in diverse situazioni, anche se mai hanno dovuto applicare le tecniche di infiltrazione dal mare messe a punto durante i duri addestramenti al Varignano. Libano, Golfo Persico, Somalia, Ruanda, Albania sono tutte missioni nelle quali gli incursori hanno messo a frutto la loro professionalità , ma sicuramente non le tattiche sviluppate per agire contro obiettivi marittimi o costieri, vera ragion d'essere di COMSUBIN.
Il personale del raggruppamento "Teseo Tesei" viene di norma allertato in concomitanza di situazioni di crisi che possono richiedere l'evacuazione di personale civile, quali ad esempio diplomatici o tecnici, da località situate in territorio avversario od ostile (operazioni denominate NEO, Non-combatant Evacuation Operation), mentre è da ricordare il recente impiego degli incursori del GOI per le ispezioni mediante elicottero dei mercantili sospetti durante l'operazione "Desert Storm" in Iraq, nonchè nelle operazioni di peacekeeping e soccorso umanitario "Restore Hope" in Somalia e "Ippocampo" in Ruanda.
La divisa del Gruppo Operativo Incursori è caratterizzata dal basco verde contraddistinto da un fregio con pugnale e ancora incrociati e la dicitura "Arditi Incursori".
L'unita base degli incursori è il team; la consistenza del team può variare da un minimo di due persone ad un massimo di dodici uomini, a seconda della missione. Gli operatori devono essere logisticamente ed operativamente autonomi per garantire che l'eventuale perdita di una parte degli equipaggiamenti e delle attrezzature non pregiudichi l'esito dell'azione.
Visto il tipo di missioni svolte, tutte le armi in dotazione al Gruppo Incursori devono poter andare in acqua; ciò non significa necessariamente che debbano poter sparare dall'acqua, ma che devono essere operative non appena uscite dall'elemento naturale nel quale l'incursore opera. Come in molti altri reparti speciali, anche all'interno del GOI la scelta dell'arma è affidata all'operatore, che può quindi optare tra una vasta gamma di armi a seconda del tipo di missione da svolgere.
L'elasticità d'impiego del reparto è dimostrata dal fatto che un ristretto nucleo di uomini appartenenti al COMSUBIN è stato, per un certo periodo di tempo, a disposizione del ministero degli interni con compiti di antiterrorismo; è ormai noto, infatti, come già dall'epoca degli "anni di piombo" gli incursori del COMSUBIN vennero allertati per un possibile intervento volto alla liberazione dell'onorevole Aldo Moro, così come furono predisposti dei piani per l'assalto alla motonave Achille Lauro, dirottata da un commando palestinese nell'ottobre del 1985.
Il Gruppo Incursori del COMSUBIN rappresenta, senza dubbio, uno dei reparti di forze speciali più conosciuti ed apprezzati del mondo e partecipa ad attività con unità similari appartenenti alle nazioni alleate, rivolte in prevalenza al trasferimento di informazioni sui materiali e sulle tecniche addestrative.
Il COMSUBIN ha ereditato le tradizioni e la bandiera di guerra della Decima MAS, incarnando la continuità storica che lega gli attuali reparti speciali della marina agli assaltatori della Decima MAS.
L'evoluzione tecnica dei materiali a disposizione ha inoltre permesso l'allargamento delle metodologie operative, che al giorno d'oggi comprendono una gamma di missioni i cui obiettivi non sono più installazioni esclusivamente "navali".
4.5 Gli attuali incursori dell'esercito italiano

Il 9° Reggimento d'Assalto Paracadutisti Col Moschin, inquadrato nella Brigata Paracadutisti Folgore è, attualmente, l'unico reparto speciale dell'esercito italiano.
Abbiamo evidenziato come, alla guerra di liberazione, aveva partecipato il ricostituito IX reparto d'assalto, inquadrato nel 1° raggruppamento motorizzato, rappresentando uno dei primissimi gruppi di combattimento autorizzati dagli anglo-americani. Il reparto d'assalto fu intitolato agli arditi e prese il nome di "IX reparto d'assalto fiamme azzurre".
Nel 1946 il IX reparto d'assalto fu smobilitato ma, già nel 1952, ex ufficiali degli arditi diedero segretamente il via alla ricostruzione di un reparto di combattenti specializzati in seno al Centro Militare di Paracadutismo ubicato presso Viterbo. Il nuovo reparto, inquadrato all'interno della prima compagnia paracadutisti, era costituito da paracadutisti addestrati sulla falsariga dei reparti arditi con la preparazione addizionale ai lanci in acqua ed al nuoto e prese il nome di "Plotone Speciale". Posto sotto il comando del tenente Franco Falcone, il plotone fu trasferito il 20 aprile 1953 presso la scuola di fanteria di Cesano e fu promosso a "Compagnia Sabotatori Paracadutisti", al comando del capitano Edoardo Acconci.
Nel 1954 fu elaborato un primo organico programma addestrativo, unitamente all'individuazione di quelli che sarebbero stati i futuri compiti della compagnia: operazioni di intelligence e sabotaggio in territorio ostile. L'iter addestrativo prevedeva l'acquisizione delle tecniche di sabotaggio, la scalata di pareti rocciose, l'utilizzo degli sci, la cartografia, la creazione di ponti radio, il combattimento corpo a corpo e la familiarizzazione con una vastissima gamma di armi e mezzi.
Il 1° giugno 1954 registra il trasferimento della compagnia presso Livorno ed il cambio di nomenclatura in "Reparto Sabotatori Paracadutisti". Il 10 maggio 1957 il reparto fu assegnato al Centro Militare di Paracadutismo di Pisa ma già il 25 settembre 1961 il reparto farà ritorno a Livorno dove verrà elevato al grado di "Battaglione Sabotatori Paracadutisti", posto alle dipendenze della "Brigata Paracadutisti Folgore" ed articolato su di un plotone comando, una compagnia allievi e due compagnie operative.
Tra il 1972 ed il 1974 fu sviluppato il paracadute alare, adottato per primo al mondo dalle unità sabotatori dell'esercito italiano, e tuttora largamente impiegato da numerose forze speciali di paesi stranieri.
Il 1° ottobre 1975 il battaglione viene mutato in 9° Reparto d'Assalto Paracadutisti Col Moschin e la qualifica di sabotatore decade a favore di quella di incursore. Il 24 giugno 1995 il reparto viene promosso a reggimento determinando quella che sarà la sua attuale fisionomia.
Il 9° Reggimento d'Assalto Paracadutisti Col Moschin, di stanza alla caserma Vannucci in Livorno, inquadra, nelle sue componenti operative, solo Ufficiali, Sottufficiali e Volontari in servizio permanente o in ferma breve addestrati e selezionati mediante un iter formativo della durata di circa due anni (otto mesi per i volontari in servizio permanente ed i volontari in ferma breve).
Unico nel suo genere, il 9° reggimento, considerato la punta di diamante di tutta la forza armata, recluta personale attraverso selezioni fisiche condotte da appositi Nuclei presso le Scuole ed i Reggimenti Addestramento Volontari.
La componente operativa del 9° reggimento Col Moschin è rappresentata dal 1° battaglione incursori, composto dalla 110ma e dalla 120ma compagnia; entrambe le compagnie sono organizzate sulla base dei diversi distaccamenti operativi, costituiti da otto uomini ciascuno, al vertice dei quali è posto il relativo comando.
La numerazione delle due compagnie incursori può sembrare a prima vista astrusa, ma, in effetti, si rifà proprio alla storia del X reggimento arditi della seconda guerra mondiale: il reggimento era, infatti, composto nel 1943 da battaglioni con compagnie di diversa caratterizzazione (nuotatori, terrestri, camionettisti e speciali), mentre il quarto battaglione si articolava su tre compagnie paracadutisti. Gli uomini della 110ma e della 120ma Compagnia speciale, alla cui numerazione si rifanno le odierne compagnie incursori, erano destinati ad entrare in azione, in abiti civili, in caso di sbarco nemico. La componente addestrativa del 9° reggimento, invece, è composta dalla 101ma Compagnia Allievi che nella sua numerazione si rifà alle tradizioni della 101ma Compagnia Paracadutisti, che fra i reparti delle compagnie del X reggimento arditi della seconda guerra mondiale è quello che probabilmente ha avuto l'attività operativa più intensa, specie in Tunisia.
La componente addestrativa del reggimento è rappresentata dal RAFOS (Reparto Addestramento Forze Operazioni Speciali); compito del RAFOS è la preparazione degli aspiranti incursori attraverso l'acquisizione di tecniche di combattimento, infiltrazione e sabotaggio. Essendo il personale del reggimento assegnato sovente ad operazioni oltre le linee nemiche, grande enfasi è attribuita alla preparazione psichica dei candidati, i quali devono essere in grado di affrontare situazioni estreme quali prigionia, interrogatori, evasione, fuga e sopravvivenza in ambienti ostili. Solo i candidati che provengono dai ruoli sottufficiali ed ufficiali posso ambire a conseguire la qualifica di incursore, per tutti gli altri l'iter formativo si conclude con l'inquadramento nelle compagnie non operative del reggimento.
Il processo di selezione dei neo-incursori è della durata di circa di due anni ed il tasso di selezione finale è molto elevato. In media solo il quindici per cento di quanti superano le preselezioni fisiche riesce a concludere la formazione. Non è facile reperire i volontari in possesso delle qualità psico-fisiche e soprattutto delle motivazioni necessarie per accedere alla qualifica di incursore ed ogni anno solo dieci-dodici allievi completano con successo il lungo iter addestrativo.
Durante la permanenza presso la componente operativa il livello di apprendimento degli incursori viene mantenuto ed approfondito con la partecipazione ad una serie di esercitazioni nazionali ed internazionali che si svolgono con frequenza annuale, ponendo gli operatori del reggimento a contatto con alcuni fra i migliori reparti per operazioni speciali quali lo Special Air Service britannico, il Korps Commando Troepen olandese, lo Jaegercorpset danese e gli uomini dello U.S.A.S.O.C. (United States Army Special Operations Command) di stanza presso Fort Bragg in North Carolina. Assieme a questi reparti speciali il 9° reggimento concorre a fornire la componente forze speciali dell'ARRC (Ace Rapid Reaction Corp), il corpo d'armata di spiegamento rapido della NATO che ha sede a Rheindalen, in Germania.
Nell'ambito operativo del 9° reggimento Col Moschin rientrano azioni dirette, quali incursioni e sabotaggi da condursi con modalità non convenzionali contro obiettivi di elevato valore oltre le linee, in territorio nemico o occupato dal nemico, ed azioni di sorveglianza e ricognizione speciale a lungo raggio, volte alla raccolta di informazioni di valenza strategica utili allo svolgimento tanto di eventuali azioni dirette, quanto alla verifica dei danni subiti da specifici bersagli a seguito di attacchi posti in essere tramite aerei, artiglieria da campo o navale. A queste si sono aggiunte, negli odierni scenari, ulteriori missioni, che hanno assunto, data la loro valenza politica, elevato valore strategico. Sono le operazioni N.E.O. (Non-Combatant Evacuation Operations), per l'evacuazioni di connazionali da paesi a rischio, ed il concorso agli interventi di antiterrorismo internazionale e per la liberazione di ostaggi; ed ancora il Combat S.A.R (Search And Rescue) volto alla ricerca ed al recupero di personale militare disperso oltre le linee nemiche, la guida di munizionamento terminale a profitto dell'aeronautica, o comunque la direzione del tiro amico in profondità , da qualunque sorgente terrestre, aerea o navale esso provenga. Il reggimento Col Moschin svolge, inoltre, operazioni HUMINT (Human Intelligence) per l'acquisizione delle più svariate informazioni e ricopre compiti di antiterrorismo interno.
L'elevato addestramento degli operatori, il loro bagaglio di conoscenze militari, tecniche e linguistiche, la loro esperienza operativa nei più disparati scenari d'impiego, la loro abitudine a dosare l'uso della forza per evitare danni collaterali, li rende inoltre gli elementi più indicati cui affidare ruoli chiave nelle fasi iniziali e "calde" di una operazione di peacekeeping, quando è richiesta sia un'elevata preparazione militare sia una forte capacità diplomatica per sedare situazioni di tensione. A conferma di ciò, infatti, possiamo notare come il Col Moschin abbia partecipato a tutte le missioni "fuori area" svolte dall'esercito italiano dalla fine della seconda guerra mondiale, dal Libano alla ex Yugoslavia, passando per la Somalia, il Kosovo, Timor est e l'Afghanistan.
Nei primi giorni del 1991, in piena crisi del Golfo, si rese, ad esempio, necessario evacuare il personale civile italiano e occidentale dalla Somalia, e nel quadro dell'operazione "Ippocampo" gli incursori del 9° garantirono la sicurezza durante le fasi di imbarco del personale sui velivoli da trasporto dell'aeronautica militare italiana atterrati all'aeroporto di Mogadiscio. Lo stesso tipo di operazione venne ripetuto qualche mese dopo, tra maggio e giugno, in Etiopia, con l'evacuazione di oltre duecento persone da Addis Abeba sconvolta dalla guerra civile.
Nel 1994 gli incursori del 9° Col Moschin sono intervenuti più volte in Ruanda, dove l'incolumità dei residenti stranieri era messa in pericolo dagli scontri tribali, mentre nel 1995 gli incursori sono volati nello Yemen per evacuare i nostri connazionali dal paese in guerra. Le operazioni NEO sono quindi diventate una delle specializzazioni degli incursori nel nuovo scenario di insicurezza generalizzata seguito alla fine del mondo bipolare. Lo stesso può dirsi delle operazioni umanitarie: se la missione in Libano tra il 1982 ed il 1984, a seguito degli eccidi di Sabra e Chatila, può essere considerata la prima di questo tipo, ad essa hanno fatto seguito la missione nel Kurdistan iracheno da maggio a ottobre del 1991, denominata operazione "Airone", e soprattutto la missione "Ibis" in Somalia, dal dicembre 1992 al marzo 1994.
Durante la missione "Ibis" gli incursori del Nono hanno dovuto affrontare tutte le sfaccettature possibili delle missioni delle forze speciali, dal combattimento all'azione diplomatica per sedare situazioni di tensione, dalla scorta di convogli alle azioni contro elementi malavitosi, dalla ricognizione a lungo raggio all'attività di assistenza alle popolazioni.
Nonostante sia sempre più spesso chiamato ad operare in situazioni di crisi a bassa intensità o per interventi di carattere umanitario, il 9° reggimento non dimentica la propria vocazione "istituzionale": infiltrazione dal mare, dall'aria o da terra, colpi di mano, agguati, cattura di personale chiave avversario e tutte le azioni tese a destabilizzare il dispositivo avversario e a renderne insicure le retrovie.
Il 9° Reggimento d'Assalto Paracadutisti Col Moschin ha in custodia la bandiera del X reggimento arditi della seconda guerra mondiale ed, unitamente al nome del reggimento, che richiama le imprese del IX reparto d'assalto sul Monte Grappa durante la prima guerra mondiale in cui fu protagonista della riconquista di alcune posizioni austriache, sottolineano la continuità storica che lega gli attuali incursori dell'esercito italiano agli arditi della prima guerra mondiale.

4.6 Il Col Moschin ed il "Check point Pasta"

Come abbiamo evidenziato nel paragrafo precedente la missione Ibis in Somalia, dal dicembre 1992 al marzo 1994, rappresenta la più significativa missione "fuori area" alla quale hanno partecipato le forze speciali delle nostre forze armate. Il 9° reggimento Col Moschin ha, infatti, dovuto affrontare una situazione che presentava tutte le sfaccettature possibili delle missioni tipiche delle forze speciali: dal combattimento all'azione diplomatica per sedare situazioni di tensione, dalla scorta di convogli alle azioni contro elementi malavitosi, dalla ricognizione a lungo raggio all'attività di assistenza alle popolazioni.
La missione Ibis è però ricordata soprattutto per quella che viene definita la battaglia al "Check point Pasta", in cui le truppe del 9° Col Moschin rimasero coinvolte nello scontro a fuoco più violento in cui siano mai state coinvolte le truppe italiane dalla seconda guerra mondiale.
All'alba del 2 luglio 1993 partiva l'operazione Canguro 12, per gli uomini della missione Ibis significava l'ennesimo rastrellamento in Mogadiscio alla ricerca di armi in possesso dei miliziani del generale Aidid. L'obiettivo del rastrellamento era rappresentato da un quadrilatero di quattrocento metri per settecento, compreso tra due capisaldi italiani: i check point "Pasta" e "Ferro"; l'intera operazione era seguita da elicotteri da combattimento che seguivano i movimenti dei reparti italiani, pronti a segnalare eventuali pericoli e ad intervenire con il fuoco delle loro armi.
Lo schieramento messo in atto dal generale Bruno Loi, comandante della missione Ibis, era imponente, circa 800 paracadutisti della Brigata Folgore, appoggiati anche da otto carri blindo CENTAURO dei Lancieri di Montebello ed altrettanti carri M-60 della 132ma Brigata Ariete.
Alle 7.30 circa cinquecento militari italiani entrarono in azione nei pressi del check point "Pasta", quando una prima reazione somala si scatenò su una colonna del Genio in transito lungo la strada.
Quella che in un primo momento sembrava una delle tante manifestazioni contro le Nazioni Unite a Mogadiscio, si rivelò un'imboscata in piena regola. I manifestanti fecero da scudo ed alle loro spalle i cecchini iniziarono a bersagliare i soldati italiani. I soldati italiani risposero al fuoco ed intervennero anche i carabinieri del Tuscania e gli incursori del 9° Col Moschin, l'imboscata era però ben congeniata, i nostri soldati erano accerchiati, le strade erano interrotte dalle barricate e dalle finestre e dagli angoli defilati, i miliziani di Aidid sparavano sui militari italiani.
A causa dei mezzi della colonna del Genio che intasavano la strada, il contingente italiano si ritrovò in una situazione di impasse che galvanizzò i somali, i quali attaccarono anche un cingolato VCC-1, uccidendo il paracadutista Pasquale Baccaro. I militari italiani erano accerchiati e gli elicotteri da combattimento italiani, insieme ai carri corazzati, chiedevano il permesso di poter utilizzare le loro armi per poter rompere l'assedio con minor rischio per i soldati della missione Ibis. Il generale Loi non se la sentì però di rischiare una carneficina, i colpi di cannone tra le case avrebbero causato infatti una strage, coinvolgendo anche civili innocenti. L'autorizzazione ad aprire il fuoco non arrivò e l'unica soluzione possibile era data dall'intervento degli operatori del Col Moschin per identificare e neutralizzare i centri di fuoco. Il compito del 9° era molto rischioso poichè dovevano riuscire a far tacere mortai e lanciarazzi controcarro attaccandoli con le sole armi individuali o di squadra, ma senza l'appoggio delle armi pesanti. Gli uomini del Col Moschin andarono all'attacco sotto una pioggia di proiettili e durante l'ennesimo assalto cadde falciato da una raffica il sergente maggiore degli incursori Stefano Paolicchi.
Intanto dal check point "Ferro" due VCC-1 del battaglione carabinieri Tuscania, uno del 186° reggimento e una blindo-centauro dei Lancieri di Montebello si diressero nuovamente verso il check point "Pasta" per dare un ulteriore aiuto ai paracadutisti ancora intrappolati. Il sottotenente Andrea Millevoi, dei Lancieri di Montebello, capo dell'equipaggio della centauro, venne colpito da una raffica, morendo sul colpo. Alle sue spalle, quasi contemporaneamente, tre colpi di mitra ferirono gravemente il sottotenente della Folgore Gianfranco Paglia, in azione su un VCC-1.
Gli italiani, comunque, si disimpegnarono progressivamente; alle 13.00 abbandonarono la zona e i posti di blocco "Pasta" e "Ferro". Il bilancio fu tragico, con tre caduti italiani e 23 feriti, da parte somala i caduti furono almeno un centinaio.
L'intervento degli incursori del Col Moschin, congiuntamente ai carabinieri paracadutisti del Tuscania, riuscì senza dubbio a limitare le perdite italiane, riuscendo a snidare decine di cecchini somali con il solo utilizzo di armi individuali e di squadra, senza l'appoggio delle armi pesanti.
L'episodio del check point "Pasta" rappresenta lo scontro a fuoco più violento in cui siano mai state coinvolte le truppe italiane dalla seconda guerra mondiale ed ha dimostrato l'importanza di come pochi uomini con particolari caratteristiche psico-attitudinali e motivazionali, riuniti in reparti ad alto livello di specificità operativa, possano ottenere risultati preziosi.

4.6 Le forze speciali nel mondo

Abbiamo evidenziato come le forze speciali delle nostre forze armate sono costantemente in contatto con alcuni fra i migliori reparti per operazioni speciali del mondo. Assieme a questi reparti speciali, il 9° Reggimento Paracadutisti d'Assalto Col Moschin ed il COMSUBIN, svolgono frequenti e costanti attività congiunte rivolte in prevalenza al trasferimento di informazioni sui materiali e sulle tecniche addestrative.
Tra i reparti per operazioni speciali con cui le nostre forze armate collaborano, il più famoso ed apprezzato nel mondo è senza dubbio l'SAS (acronimo di Special Air Service), il reparto speciale britannico creato nella seconda guerra mondiale durante la campagna inglese in nord Africa, che operò anche in Sicilia. Le azioni di anti-guerriglia svolte dal SAS negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta hanno sviluppato, all'interno del reparto, un'inarrivabile preparazione alle azioni di contro-terrorismo. Utilizzati anche in Irlanda del Nord contro l'IRA (Irish Republican Army), l'SAS britannico ha sviluppato tecniche che vengono copiate in tutto il mondo.
L'episodio che ha fatto conoscere al mondo intero le capacità dei reparti speciali britannici è senza dubbio la liberazione dell'ambasciata iraniana a Londra nel maggio 1980, avvenuta di fronte alle telecamere di tutto il mondo. L'operazione iniziò dopo che i terroristi del gruppo DRMLA uccisero uno degli ostaggi e gettarono il suo cadavere in mezzo alla strada. Il gruppo terroristico DMRLA (Democratic Revolutionary Movement for the Liberation of Arabistan) era un gruppo marxista-leninista presente in Libia che rivendicava l'autonomia regionale per l'Arabistan (un'area dell'Iran a 650 km circa da Teheran).L'operazione del SAS fu un successo totale, con l'uccisione di quattro dei cinque terroristi e nessuna perdita tra gli uomini dello Special Air Service, grazie all'utilizzo di tattiche ed armi speciali.
Tra le nazioni che dedicano grande enfasi alle operazioni speciali vi sono senza dubbio gli Stati Uniti d'America che, attraverso l'USSOCOM (United States Special Operation Command), il comando unificato di stanza al quartier generale MacDill Air Force Base in Florida, coordina le operazioni speciali svolte dalle varie forze armate statunitensi. Tra questi corpi speciali il più noto è sicuramente il 1st Special Forces Operation Detachment Delta, non ufficialmente riconosciuto dal governo USA. Il reparto Delta Forces è stato creato dal colonnello dell'esercito statunitense Charles Beckwith che nel periodo 1962-1963 rimase aggregato proprio all'SAS britannico, per poi tornare a sviluppare le tecniche acquisite in un corpo simile da creare negli Stati Uniti. I Delta Forces sono di stanza a Fort Bragg in North Carolina e la sua struttura organizzativa ricalca quella dell'SAS, con un quartier generale e tre squadroni operativi, ognuno composto da due o più plotoni, ognuno a sua volta composto da squadre di quattro uomini. Sono presenti anche uno squadrone comunicazioni ed uno di supporto. I Delta utilizzano per le loro operazioni elicotteri ed aerei con colori e registrazioni civili. Una delle operazioni più note a cui abbiano partecipato i Delta Forces è stato l'arresto del Generale Manuel Noriega a seguito dell'invasione di Panama; i Delta hanno anche partecipato alla liberazione del Generale Dozier, tenuto in ostaggio in Italia dalle Brigate Rosse.
Tra i reparti speciali che conducono esercitazioni e interscambi con le nostre forze armate godono di ottima reputazione i KCT (Korps Commando Troepen) olandesi. Il reggimento olandese KTC è selezionato, organizzato ed addestrato anch'esso sulla falsariga del SAS britannico e comprende tre compagnie per operazioni speciali, un quartier generale, una compagnia di supporto ed una compagnia per l'addestramento. Le tre compagnie operative sono identificate con la numerazione 104th SOC, 105th SOC e 108th SOC, dove l'acronimo SOC indica Special Operation Companies.
Tutte e tre le compagnie operative sono addestrate per condurre operazioni di sabotaggio ed operazioni dirette in tutti gli ambienti operativi possibili, dall'ambiente artico a quello desertico.
Il 108th SOC è stato impiegato in Bosnia per la cattura di sospetti criminali di guerra ed ultimamente è stato utilizzato anche in Afghanistan.
Un altro reparto speciale straniero che collabora costantemente con le nostre forze armate è quello danese. Per fronteggiare la minaccia terroristica internazionale, la Danimarca, sul finire degli anni Cinquanta, inviò un certo numero di ufficiali del proprio esercito alla United States Rangers School e successivamente, tra il 1960-1961, alla scuola del SAS britannico. Questi ufficiali furono quindi utilizzati per creare un corpo speciale chiamato JAEGERKORPSET, specializzato nel contro-terrorismo. Lo JAEGERKORPSET è di stanza ad Alborg, nel nord dello Jutland, e si addestra a stretto contatto con l'SAS ed altri reparti speciali stranieri. Per le sue azioni utilizza, infatti, elicotteri di supporto dell'aviazione britannica e dell'esercito tedesco.
Come abbiamo evidenziato, praticamente tutte le forze speciali del mondo hanno seguito gli insegnamenti e la struttura organizzativa seguita dal SAS britannico. La sua lunga esperienza nel campo delle operazioni speciali, che come abbiamo visto iniziarono già durante la seconda guerra mondiale, ha fatto in modo che i reparti speciali britannici siano considerati il punto di riferimento per tutti. Per quanto invece riguarda l'Italia è unanimemente riconosciuto come i nostri due reparti speciali del Col Moschin e COM.SUB.IN siano ai vertici mondiali per quanto riguarda il personale e l'addestramento.

 

 

GENERALE MARCO BERTOLINI

II Brig. Gen. Marco BERTOLINI è nato a PARMA il 21 giu. '53.
Dal 1972 al 1976 ha frequentato il 154° Corso presso l'Accademia Militare di Modena e presso la Scuola di Applicazione d'Arma di Torino.
Nel 1976 è stato assegnato a Livorno al 9°battaglione d'assalto paracadutisti "Col Moschin" della Brigata paracadutisti Folgore, l'unico reparto di Forze Speciali dell'Esercito. Nel reparto, dal 1977 al 1983, dopo aver conseguito il brevetto di incursore paracadutista (brevetto che implica la capacità di operare in tutti gli ambienti operativi, dalla montagna innevata all'ambiente subacqueo), il Brig. Gen. BERTOLINI ha prestato servizio quale Comandante di distaccamento operativo e di compagnia operativa. Nel 1983 è stato assegnato al 2° btg. paracadutisti "Tarquinia" presso il quale ha comandato la 4^ compagnia fino al 1985.
Dopo aver frequentato la Scuola di Guerra di CIVITAVECCHIA nel 1986-87 e nel 1989-90, è stato impiegato presso lo Stato Maggiore Esercito (Ufficio Operazioni e Ufficio Addestramento).
Dal 1991 al 1993 ha comandato il 9° btg.d'assalto par. "Col Moschin" e, dal 1994 al 1997, è stato impiegato quale Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti "Folgore".
Dal settembre 1997 al dicembre 1998 ha svolto l'incarico di Comandante del 9° reggimento d'assalto "Col Moschin".
Dal 21 lug. 1999 al 13 set. 2001 il Brig. Gen. BERTOLINI ha ricoperto l'incarico di Comandante del Centro Addestramento Paracadutismo della Brigata Paracadutisti Folgore, per essere, successivamente, impiegato quale Vice Comandante della Folgore fino al 9 settembre 2002.
Dal 10 settembre 2002 è il Comandante della Brigata Paracadutisti "FOLGORE".

II Brig. Gen. BERTOLINI ha partecipato a cinque operazioni "fuori area":
- con il grado di Capitano, dal set. 82 al giu. 83 in LIBANO, quale Comandante della compagnia incursori alle dirette dipendenze dei Gen. ANGIONI. La compagnia era dedicata alla condotta di pattugliamenti sia nell'area di responsabilità dei Contingente italiano che al di fuori di essa;
- con il grado di Tenente Colonnello, dal dic. 92 al giu. '93 in SOMALIA, quale Comandante del 9° btg. d'assalto par. "Col Moschin", impiegato per la condotta di operazioni a spiccata connotazione speciale. II Reparto ha operato a Mogadiscio e in tutto il settore italiano.
- con il grado di Tenente Colonnello, dal giu. '96 all'apr. 97 in BOSNIA, quale Capo di Stato Maggiore della Brigata Multinazionale Nord in Sarajevo, il cui settore comprendeva città importanti e delicate come Pale (la Capitale dei serbo-bosniaci), Socolac, Rogatica, Visegrad e Gorazde;
- con il grado di Colonnello, dal dic. 98 all'apr. 99 in MACEDONIA, quale Capo di Stato Maggiore dell'Extraction Force, unità a livello divisionale a composizione multinazionale, dedicata al recupero dei verificatori dell'OSCE impiegati in Kosovo prima dell'inizio delle ostilità tra NATO e Federazione Yugoslava.
- con il grado di Generale, ha comandato il contingente italiano della missione ENDURING FREEDOM in AFGHANISTAN. Dal suo incarico sono dipese per tre mesi tutte le Forze Terrestri Italiane presenti nel Paese, inviate per decisione del Governo Italiano per interdire l'uso della provincia di Khowst da parte delle milizie talebane, garantendo un clima di stabilità al legittimo governo afghano nonchè un'adeguata cornice di sicurezza alle operazioni umanitarie. Alla Task Force NIBBIO, ed in particolar modo alla Base Operativa Avanzata di Khowst, era devoluto il compito di controllare una delle zone ritenute più a rischio, cioè la fascia di territorio al confine con il Pakistan, impedendo infiltrazioni e traffici da parte di forze Talebane e di Al Qaeda.

Nell'arco della sua carriera, l'Ufficiale è stato insignito di alcune decorazioni, tra cui una Croce al Valor Militare (Libano), una Croce d'Oro al merito dell'Esercito (Somalia), una Croce d'Argento al Merito dell'Esercito (Bosnia) e la Croce di Cavaliere dell'Ordine della Repubblica.

INTERVISTA AL GENERALE MARCO BERTOLINI,
COMANDANTE DELLA BRIGATA FOLGORE.

 

1. Tra le caratteristiche che differenziavano gli arditi dal resto dell'esercito vi erano elementi quali una divisa particolare, un trattamento economico privilegiato ed il carattere prettamente volontario. Che cosa rimane di questi elementi di differenziazione all'interno del 9° reggimento Col Moschin? Divisa- trattamento economico-volontarietà .

Intanto c'è da dire che è rimasta la caratteristica della volontarietà . Essendo i paracadutisti già di per se dei volontari al quadrato, in un esercito composto da volontari, diciamo che gli incursori, che equivale a dire gli arditi, sono volontari al cubo se cosi si può dire; questo per il fatto che le attività che affrontano sono attività particolarmente rischiose ed impegnative. Per quanto riguarda altri elementi di differenziazione l'uniforme è ormai la stessa perchè l'esercito italiano ha finalmente deciso per un'uniforme uguale per tutti, gli incursori hanno però hanno il fregio del basco diverso, che richiama le tradizioni degli arditi. Dal punto di vista del trattamento economico sì, l'incursore ha diritto a delle indennità ad hoc che vengono corrisposte per l'appartenenza al 9° reggimento incursori.

2. Il fregio del basco degli operatori del 9° sembra riprendere l'insegna tradizionale che fu degli arditi della prima guerra mondiale e del X reggimento arditi della seconda guerra mondiale. È corretta la mia interpretazione?

Esatto, è l'unica fiamma che volge a sinistra; tutte le altre fiamme, quella dei bersaglieri, quella dei carabinieri, sono tutte voltate a destra. L'unica fiamma che volge a sinistra è quella del Nono, proprio per sottolineare questa assoluta originalità , questa continuità con gli arditi.

3. Data la durezza dell'addestramento, qual è la principale motivazione che spinge un aspirante "operatore" del Nono a volerne far parte?

Non può essere certo il presupposto economico, anche se chiaramente è un elemento che può essere considerato, ma non è quello che li spinge. Non è inoltre così significativo da poter giustificare una scelta del genere. I paracadutisti scelgono la vita del paracadutista, che è una vita particolarmente impegnativa perchè appartengono, direi, ad una categoria di personale che ricerca innanzi tutto la sfida con se stesso.
La sfida dell'aviolancio è essenzialmente una sfida con se stessi perchè il lancio non è un gesto naturale, istintivo. Questo vale a maggior ragione per il Nono perchè atti di questa natura devono farne in continuazione: devono immergersi di notte, devono scalare montagne in condizioni estreme, devono lanciarsi ad altissima quota di giorno e di notte. Direi quindi che la motivazione principale è la sfida con se stessi.

4. A suo parere la consapevolezza di far parte di quella che viene considerata la "punta di diamante" di tutte la forze armate può creare un maggiore spirito di corpo tra gli operatori del Nono?

Certo, non c'è dubbio che questa consapevolezza porta ad uno spirito di corpo particolare. Uno spirito di corpo che però non deve essere frainteso; nonostante tutto gli incursori del Nono sono degli individualisti allo spasimo, sono però estremamente legati fra di loro, condividono gli stessi valori, si divertono con le stesse attività che ad altri, magari, non provocano le stesse reazioni.
Sono però al tempo stesso molto individualisti; anche questa è una caratteristica propria degli incursori, il loro è uno spirito di corpo più intimo che non formale; magari, parlando con loro, sembrano scanzonati, distaccati, ma lo spirito di corpo si vede nel momento della necessità , quando c'è da farsi avanti per primi
.

5. Il tipo di addestramento degli incursori del Col Moschin in che cosa si differenzia rispetto al resto delle truppe di fanteria?

Sicuramente alla base di tutte le unità di fanteria c'è l'addestramento al combattimento individuale, l'addestramento all'uso delle armi, ma poi a parte questo il Col Moschin ha un addestramento completamente diverso. Intanto è un'unità pluriambientale che opera quindi in tutti gli ambienti naturali, fa attività in montagna, lanci ad alta e bassa quota, fa attività in mare e sotto il mare, con attività subacquee di giorno e di notte. Fanno addestramenti che cercano di trarre il meglio da ogni individuo. Diciamo, inoltre, che l'unita minima di impiego nel Col Moschin è la coppia, però eventualmente l'incursore può trovarsi ad operare anche da solo. Questo non avviene nel resto della fanteria, la fanteria ha, infatti, come unità operativa minima la squadra, mai la coppia, se non in caso di evasione o fuga.

6. Ho evidenziato come, all'interno del Col Moschin, sia dato molto spazio all'addestramento al combattimento corpo a corpo ed in particolare, proprio come negli arditi, all'uso del pugnale. Questo avviene solo nel Nono o anche in altri reparti dell'esercito di fanteria?

L'addestramento al combattimento corpo a corpo faceva parte dell'addestramento degli arditi della prima guerra mondiale a Sdricca di Manzano, attualmente si fa addestramento al corpo a corpo ma non è sicuramente l'attività principale svolta all'interno del Col Moschin; se ne fa però sicuramente più che negli altri reparti di fanteria.

7. E' vero che il pugnale in dotazione al Col Moschin è stato specificatamente commissionato e progettato da un Capitano del Nono Reggimento?

Si, è vero.

8. L'autonomia operativa e la capacità di operare in piccoli nuclei autonomi era una delle grandi innovazione degli arditi, gli attuali incursori godono anch'essi di ampia autonomia operativa durante le loro azioni?

Nelle unità classiche ogni reparto fa capo al suo livello superiore: la squadra fa riferimento al plotone, questi fa riferimento alla compagnia, la compagnia fa riferimento al battaglione; in pratica riferisce al suo diretto superiore. All'interno del Col Moschin, invece, la squadra, il distaccamento operativo minimo, o la coppia, come dicevo prima, fa riferimento direttamente al battaglione perchè è un'unità che ha come caratteristica principale il fatto di essere impegnata ed utilizzata in maniera frazionata e deve avere, infatti, i mezzi di comunicazione per mettersi in contatto direttamente con il battaglione.

9. A livello di armamento, vi è autonomia nella scelta delle armi del reggimento rispetto alle altre truppe?
Le armi in dotazione al Nono rappresentano quindi una eccezione rispetto al resto della fanteria?

Il 9° reggimento ha delle armi diverse da quelle in dotazione alle altre unità dell'esercito italiano. Ha in dotazione sicuramente tutto l'armamento dell'esercito italiano ed in aggiunta armi di vario genere: fucili d'assalto, l'M4, lanciagranate, mortai leggeri, ha un po' di tutto. Questa maggiore disponibilità di armi ha lo scopo di ampliare l'armamento degli operatori del Nono, che possono scegliere l'arma più adatta a seconda delle azioni da compiere.

10. Le esercitazioni degli arditi erano caratterizzate da un realismo precedentemente sconosciuto al resto della fanteria, qual'è il grado di realismo nelle esercitazioni del Nono?

All'interno del Nono è totale perchè, trattandosi di personale altamente professionale, ha un grado di realismo non paragonabile ad altre unità ed, infatti, il Nono ha pagato in termini di infortuni durante l'addestramento. D'altronde determinati obblighi addestrativi devono essere perseguiti.

11. Il reggimento dispone anche delle armi utilizzate dai nemici, qual è lo scopo della conoscenza degli armamenti avversari?

Come dicevo prima, il Nono condivide con i paracadutisti diverse caratteristiche ed in particolare il fatto di operare dietro le linee nemiche, lontano dalle linee di rifornimento normali. Il resto della fanteria, anche in prima linea, dispone di una linea di rifornimento, cioè dispone di una struttura di supporto. Anche oltre le linee nemiche c'è comunque la possibilità di mandare rifornimenti, ma sono legati all'aleatorietà del lancio con paracadute di materiale di rifornimento. È quindi importante saper sfruttare le risorse locali, che sono le armi e le munizioni del nemico.

12. Ho evidenziato come grande enfasi fosse attribuita al conseguimento di un'assoluta confidenza con ogni tipo di arma, anche in condizioni di oscurità più assoluta. Anche oggi l'addestramento prevede questa disciplina?

Certo, la conoscenza delle armi è una delle prime caratteristiche richieste ad un incursore; anche se il primo essenziale requisito è sicuramente la prestanza fisica.

13. Qual è la consistenza numerica attuale del reggimento? E di questi, quanti sono dotati della qualifica di incursore?

Diciamo che da un punto di vista ordinativo parliamo di un reggimento di fanteria. In realtà la consistenza organica è inferiore a quella di un reggimento normale, dal momento che l'iter addestrativo degli incursori dura due anni ed ogni operatore è sotto continua selezione. Parecchi incursori vengono, infatti, allontanati durante la selezione e quindi la componente numerica operativa è abbastanza limitata. Vi è poi una componente, sempre operativa, ma non esclusivamente composta da incursori ed è quella che cura il supporto; vi è una compagnia comando e supporto logistico, una compagnia comando e controllo, una compagnia trasmissioni. Diciamo che, in media, il 9° reggimento è composto per due terzi da incursori. Parlando comunque di consistenza numerica diciamo che mediamente parliamo della metà di un normale reggimento di fanteria.

14. Data la necessità di mantenere elevati i livelli di selezione e considerando che ogni anno solo 10-12 elementi riescono a conseguire la qualifica di incursore, in futuro, secondo lei, sarà possibile aumentare il numero delle compagnie incursori?

Questo è un tentativo che stiamo facendo, ma è davvero difficile, e non perchè manchino gli aspiranti incursori ma perchè sono pochissimi quelli che riescono a concludere l'iter addestrativo di due anni. Diciamo comunque che negli ultimi anni si sono fatti dei passi avanti, un po' con arruolamenti straordinari, un po' con attività di propaganda.

15. Nella mia tesi ho evidenziato come, uno dei maggiori limiti nell'utilizzo delle forze speciali durante la II guerra mondiale fosse stata la mancata lungimiranza nella preparazione durante le due guerre mondiali ed in particolare il mancato coordinamento tra le varie forze armate. Come è la situazione di operatività interforze attualmente?

Intanto volevo dire che quello che lei ha evidenziato è verissimo. Vorrei fare però una piccola digressione storica per dire che parliamo di continuità tra prima, seconda guerra mondiale ed oggi che in realtà , a ben vedere, non c'è. Si tratta sempre di personale particolare, con una motivazione superiore agli altri, però gli arditi della prima guerra mondiale erano utilizzati per aprire la prima linea alla fanteria, dalla seconda guerra mondiale, dal X reggimento arditi c'è invece una visione più classica delle forze speciali. Si parla cioè di unità utilizzate dietro le linee nemiche. Durante la seconda guerra mondiale, in effetti, non c'era un gran coordinamento ed il coordinamento che per forza di cose si dovette applicare era improvvisato. Molti furono, infatti, catturati a causa di fughe di notizie sulle operazioni speciali da condurre; ora questo coordinamento interforze si sta concretizzando a livello di Comando Operativo Interforze. A Roma attualmente c'è il Comando Interforze che gestisce le operazioni; è appunto un comando interforze in grado di colloquiare, di dare disposizioni agli strumenti delle tre forze armate. Fino a pochi anni fa non era così, ed ogni Stato Maggiore dava disposizioni alle loro unità . Ora, ad esempio, in Iraq ed Afghanistan è il Comando Operativo Interforze che colloquia con tutti ed in questo contesto questo comando ha anche la capacità di dare ordini alle due componenti di forze speciali delle forze armate italiane, il Col Moschin ed il COMSUBIN, quindi oggi si può dire che il coordinamento ci sia e dovrebbe ulteriormente migliorare in futuro.

16. Per i lanci, il reggimento utilizza aerei ed elicotteri dell'esercito o dell'aeronautica?

Essenzialmente si utilizzano velivoli dell'aeronautica. L'aeronautica però in questo periodo è molto impegnata per il supporto alle operazioni fuori area e quindi l'attività aviolancistica è, per forza di cose, penalizzata. Per affrontare questa situazione si stanno studiando anche altre strade; in sostanza stiamo cercando di appoggiarci a tutto quello che vola.

17. Nonostante con il passare del tempo la componente tecnologica rivesta sempre maggiore importanza in campo bellico, è corretto affermare che all'interno dei reparti speciali la componente umana resta l'elemento più importante?

Su questo non c'è assolutamente il minimo dubbio. È vero che forze speciali nel contesto moderno significa anche materiali speciali perchè operano in un ambiente particolarmente duro. In un ambiente artico o desertico è ovvio che se non si dispone del materiale ad hoc non si può operare, ma resta assolutamente fondamentale la componente umana. Io posso avere tutti i materiali speciali che voglio ma, intanto, non esistono ancora zaini autopropulsi e quindi devono essere portati a spalle, quando piove l'acqua passa attraverso qualsiasi tipo di gore-tex esistente, il morbo del fante, con le bolle ai piedi, viene anche al più esperto degli incursori, quindi se non c'è innanzi tutto la voglia, la disponibilità ed il desiderio di fare, tutti i materiali speciali che possiamo inventarci non bastano.

18. Con la fine del mondo bipolare, la nuova minaccia è data dal terrorismo; qual è il ruolo del Col Moschin nella lotta al terrorismo?

Direi che è il ruolo che hanno da sempre le forze armate italiane. È chiaro però che il Col Moschin, essendo uno strumento più reattivo degli altri, avendo cioè un tempo di approntamento più ristretto rispetto agli altri, è sicuramente più in grado di altre unità di essere impiegato in questo contesto. Il termine "lotta al terrorismo" negli ultimi tempi è stato, però, idealizzato. Tutto quello che è nemico viene identificato come terrorismo, anche se però, a ben vedere, si tratta, in effetti, di unità addestrate, di soldati veri e propri. È chiaro che quindi, in un contesto del genere, il Col Moschin sia uno strumento estremamente flessibile. Mentre per contrastare un'unità di fanteria è necessaria un'unità organica, il Col Moschin è particolarmente adatto in un contesto nel quale la minaccia è particolarmente sfaccettata, ha la capacità , infatti, di adottare procedimenti estremamente flessibili che vanno dalla interdizione aerea a tutti gli altri procedimenti. È quindi chiaro che un mezzo di contrasto estremamente flessibile come il Col Moschin sia uno strumento che può svolgere questo compito.

19. Dalla fine della II G.M. l'operatività dei reparti speciali si è evoluta dal loro utilizzo esclusivo nel campo di battaglia, ad un utilizzo a difesa degli interessi nazionali, anche su suolo straniero. Quale può essere secondo lei l'evoluzione dei reparti speciali in un futuro non più bipolare?

Non basta avere uno strumento in grado di svolgere determinati compiti, c'è anche bisogno della volontà di utilizzarlo. Il futuro dipende da quella che sarà la volontà che avranno quelli che ci impiegheranno.

20. Tra i compiti del Nono vi è il recupero di ostaggi di guerra, cattura di personalità nemiche e recupero di personale disperso in territorio ostile. Chi decide l'intervento volto alla liberazione? E chi decide chi deve intervenire?

Lo decide il Vertice Tecnico Militare, abbiamo poi, come ho detto prima, il Comando Operativo Interforze che da gli ordini. Per la scelta tra Col Moschin e COMSUBIN si decide soprattutto in base all'ambiente in cui si deve operare ed, inoltre, il Comando Operativo Interforze deve valutare la disponibilità e gli impegni già in corso delle forze speciali.

21. Quali sono le missioni "fuori area" a cui ha partecipato il Col Moschin?

Il Col Moschin ha partecipato a tutte le missioni fuori area svolte dall'esercito italiano. Oltre a questo il Nono ha partecipato a molte missioni in Africa per il recupero di connazionali, in Eritrea, Ruanda, Burundi, Somalia, Etiopia.

22. Qual è stato il ruolo del reggimento Col Moschin successivamente all'imboscata nell'episodio del "check point pasta" in Somalia?Qual è stata la motivazione dell'utilizzo da parte del Nono delle sole armi individuali o di squadra, senza l'appoggio delle armi pesanti, per rompere l'assedio in cui si trovavano i soldati della missione IBIS?

In quel momento c'era la possibilità di utilizzare i carri, avevamo le Blindo-Centauro e gli M-60, si sarebbe potuta compiere un'azione devastante; era però una zona densamente abitata e si è quindi preferito utilizzare le armi individuali.

23. Il Col Moschin conduce anche esercitazioni incrociate con reparti speciali di altri paesi, qual è il nostro livello di preparazione nei confronti degli eserciti alleati?

Direi che il livello di preparazione del Col Moschin è veramente eccezionale. Gli operatori del Col Moschin non hanno nulla da invidiare agli operatori di nessun'altra nazione ed anzi, è sicuramente vero il contrario. Quello che manca è la disponibilità di mezzi di cui gli altri possono disporre, ma per quanto riguarda il personale e l'addestramento siamo sicuramente al vertice.

24. All'interno dell'esercito, che significato riveste ereditare la bandiera di guerra? È vero che il Col Moschin ha in dotazione quella del X reggimento arditi?

La bandiera di guerra è molto più di un simbolo. È il segno della continuità che lega ogni reparto alle sue tradizioni. La bandiera di guerra è il marchio di saldatura con il passato, è il vincolo con la storia, con la storia di chi ha combattuto e di chi ha fatto una scelta. La bandiera di guerra del Col Moschin deriva, infatti, dallo stendardo del IX reparto d'assalto della prima guerra mondiale che è stato poi fatto proprio dal II battaglione arditi del X reggimento arditi che assunse il nome di IX reparto d'assalto alla fine della seconda guerra mondiale.

25. Avendo comandato il Nono, secondo lei, è sentito il sentimento di continuità dagli arditi dagli operatori del Col Moschin?

Si, assolutamente.

26. Il termine "ardito" è presente in qualche canzone o inno del reggimento?

Si, il reggimento canta le canzoni dei paracadutisti, canta anche canzoni degli arditi della prima guerra mondiale ed altre canzoni che risalgono alla seconda guerra mondiale.

27. In conclusione, secondo lei, pur considerando la naturale evoluzione data dai tempi, è possibile affermare che gli operatori del Col Moschin siano gli attuali eredi degli arditi della prima guerra mondiale?

Non c'è il minimo dubbio. C'è una continuità che non è procedurale, non è una continuità operativa perchè le procedure operative sono ovviamente cambiate, ma vi è una forte continuità di spirito.

 

CONCLUSIONI

Nella presente tesi si è dimostrata l'evoluzione e la continuità storica dei reparti speciali delle forze armate italiane, dagli arditi della prima guerra mondiale ai giorni nostri.
Considerando la nascita degli arditi nel campo di Sdricca di Manzano abbiamo evidenziato come all'interno dell'esercito siano stati concepiti e sviluppati reparti d'assalto che realizzarono una svolta nella guerra di trincea attraverso l'introduzione di tattiche d'assalto, rappresentando la nascita di qualcosa di veramente innovativo in campo bellico.
Le truppe d'assalto che nascono nell'estate del 1917 presso la Seconda Armata, infatti, sono qualcosa di diverso dalle truppe scelte perchè costituiscono una specialità della fanteria davvero nuova per addestramento e impiego, per spirito e condizioni di vita, concepite e realizzate per cambiare l'organizzazione della battaglia offensiva.
Questi reparti d'assalto sono considerati i precursori dei reparti speciali che durante la seconda guerra mondiale furono creati per ogni forza armata italiana. Con il secondo conflitto mondiale, i reparti speciali iniziano ad assumere una connotazione più simile a quella attuale per modalità di infiltrazione e per la spiccata propensione ad operare dietro le linee nemiche, evoluzione data dalla totale diversità del secondo conflitto mondiale rispetto al primo, con il passaggio da una guerra di posizione ad un conflitto caratterizzato dalla preponderanza dell'elemento tecnologico e dall'introduzione di nuove armi e tattiche. In un contesto totalmente differente i reparti speciali italiani dimostrarono, però, l'importanza di approntare reparti ad alto livello di specializzazione per ogni specialità delle forze armate.
La sconfitta militare nella seconda guerra mondiale e la quasi totale dissoluzione delle forze armate italiane nel secondo dopoguerra non impedirono la rapida ricostruzione di reparti speciali che svilupparono, facendo segreto delle precedenti esperienze belliche, nuove tecniche addestrative e dottrine d'impiego che hanno portato i nostri reparti speciali ad essere considerati tra i migliori del mondo.
Per quanto riguarda la continuità degli attuali incursori della marina militare italiana dagli assaltatori della seconda guerra mondiale, abbiamo evidenziato come la storia del reparto confermi la nostra ipotesi, supportata anche dal fatto che il COMSUBIN ha ereditato le tradizioni e la bandiera di guerra della Decima MAS, incarnando la continuità storica che lega gli attuali reparti speciali della marina agli assaltatori della seconda guerra mondiale.
Per quanto riguarda invece il 9° Reggimento d'Assalto Paracadutisti Col Moschin abbiamo evidenziato come abbia in custodia la bandiera del X reggimento arditi della seconda guerra mondiale che, unitamente al nome del reggimento, che richiama le imprese del IX reparto d'assalto sul Monte Grappa durante la prima guerra mondiale, sottolineano la continuità storica che lega gli attuali incursori dell'esercito italiano agli arditi della prima guerra mondiale. Tale ipotesi è stata anche confermata dalle parole del comandante della Folgore Marco Bertolini, che ha sottolineato come, nonostante le naturale evoluzione delle procedure operative, dopo più di ottanta anni il sentimento di continuità dagli arditi sia fortemente sentito dagli operatori del reggimento e che l'avere in custodia la bandiera di guerra che deriva dallo stendardo del IX reparto d'assalto della prima guerra mondiale rappresenta il marchio di saldatura con il passato, un vincolo con la storia di chi ha combattuto e di chi ha fatto una scelta.
Rispetto ad un paese come l'Italia, verso la cui tradizione militare si ostenta da sempre una certa mancanza di considerazione, abbiamo voluto dimostrare come in realtà siano presenti reparti considerati unanimemente ai vertici mondiali e che il loro segreto è probabilmente dato dalla loro storia e dalle esperienze ereditate dai loro predecessori, sia della prima che della seconda guerra mondiale.

 

 

 

 

 

 

 

 

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