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Pubblicato il 21/07/2016

21 LUGLIO 1969- ARMSTRONG SULLA LUNA. IL CONTRIBUTO DEL PARACADUTISMO ALLE IMPRESE SPAZIALI

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Il contributo del paracadutismo alla nascita dei programmi spaziali
di Vincenzo Di Guida

Quarantasette anni fa, il 16 luglio 1969, tre uomini partivano per un viaggio che avrebbe cambiato per sempre la percezione dell’umanità.
Si trattava dell’equipaggio dell’Apollo 11, la missione spaziale che portò per la prima volta un uomo a porre il piede su un mondo nello spazio che non fosse la Terra, composta dagli astronauti Neil Armstrong (Comandante), Buzz Aldrin e Michael Collins.
Storica la sua frase al momento di toccare col piede il suolo lunare: “È un piccolo passo per l’uomo ma un grande balzo per l’umanità”.
Ma ripercorriamo dall’inizio come fu possibile questa incredibile impresa e qual’è stato il fondamentale contributo che il paracadutismo ha dato.
La seconda guerra mondiale aveva sollecitato scienziati e tecnici alla creazione di nuove armi.
Grazie al genio ingegneristico di Wernher Von Braun, poi trasferitosi negli USA alla fine della guerra nell’ambito del programma “Paperclip”, i tedeschi si erano dotati dei razzi V2, il progenitore di quelli che sarebbero stati i veicoli di lancio della NASA denominati Saturn V.
E proprio immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, diventò chiaro che si andava profilando una competizione politica, militare, scientifica e tecnologica tra gli USA e l’URSS, un tempo alleati.
Una escalation che portò quindi anni dopo, nel 1961, il presidente Kennedy a iniziare il “programma Apollo”, con l’intento di portare l’uomo sulla Luna entro il decennio.

Inimmaginabili le problematiche tecniche che si dovettero affrontare. Basti pensare che un moderno telefonino ha, e di gran lunga, più potenza di calcolo delle semplici macchine da calcolo utilizzate all’epoca e che il calcolatore di riserva sulle navicelle era il regolo calcolatore, una sorta di righello dotato di parti mobili, col quale fare più o meno velocemente e approssimativamente operazioni come moltiplicazioni e divisioni.

Il connubio tra elementi tecnici propri del paracadutismo e della astronautica si dovette ovviamente intensificare.
Perché se il LEM, il Lunar Excursion Module, in assenza di atmosfera non poteva che atterrare sulla superficie lunare grazie a un motore a getto contando su una gravità pari a un sesto di quella terrestre, sembrò molto più conveniente affidarsi a paracadute per assicurare un sostenibile ammaraggio al modulo di rientro (che nelle missioni Apollo coincideva col modulo di comando), un tronco di cono delle dimensioni di circa 350cm x 390cm del peso di circa sei tonnellate, ove si trovavano i tre astronauti al termine della missione.

Fu quindi ideato l’ELS, Earth Landing System, formato da due piccoli paracadute di circa 3m di diametro che venivano utilizzati a partire da 7000m di quota consentendo stabilizzare il modulo e di ridurre la velocità da 480 a 280km/h, tre paracadute principali di più di 17m di diametro che venivano estratti da pilotini azionati a partire da 3000 metri di altezza consentendo un (più o meno) comodo splashdown alla velocitã di circa 9,1m/sec (circa 33km/h), un sistema di autogonfiabili che permetteva al modulo di galleggiare in posizione conveniente una volta ammarato.

Dunque una velocità di ammaraggio pari a circa due volte quella dei moderni paracadute emisferici a fune di vincolo per lanci umani.
Ciò, ovviamente, la dice lunga sulla violenza dell’impatto al momento dell’ammaraggio che, difatti, poteva raggiungere più di 6g di improvvisa decelerazione.

La ragione per cui fu scelto di evitare un unico grande paracadute in favore di tre paracadute più piccoli fu nella ridondanza, ossia la ricerca della sicurezza del sistema in caso di malfunzionamenti.
I tre paracadute principali furono concepiti in modo che, in caso di inefficacia di uno o anche due di essi, fosse ancora possibile un ammaraggio con chaches di sopravvivenza dell’equipaggio (evento effettivamente verificatosi durante l’ammaraggio di Apollo 15).
Difatti se, semplificando, assumiamo che la velocità di discesa V assicurata da un paracadute è proporzionale alla radice quadrata del reciproco dell’area A del paracadute stesso, si scopre che riducendo a 2/3 l’area dei paracadute (ipotesi coincidente ad avere uno dei tre paracadute non efficace) la velocità di discesa si incrementa di un fattore pari a circa 1,2. In tale caso la velocità di ammaraggio si sarebbe portata a circa 11,2m/sec, ossia a un impatto con l’acqua a circa 40km/h.

Se addirittura due paracadute su tre fossero stati inefficaci, ossia se la loro area complessiva si fosse ridotta a 1/3, la velocità di discesa si sarebbe incrementata di un fattore pari a circa 1,7 portando la velocità terminale di splashdown a circa 15,8m/sec, ossia a 57km/h.

In tali sfortunati casi la decelerazione subita dai cosmonauti, dai 6g attesi nel normale funzionamento di tutti e tre paracadute, sarebbe passata rispettivamente a circa 9g e 16g.
Decelerazioni notevolissime, specie nel caso più infausto di un solo paracadute funzionante, ma che ancora possono consentire la sopravvivenza di esseri umani in ottime condizioni fisiche, poiché applicate nel brevissimo tempo dello splashdown.
Ma il contributo del paracadutismo allo sviluppo dei programmi spaziali non è stato solo in termini di tecnologie, materiali o mezzi ma anche di uomini come l’italiano Paolo Nespoli che, come noto, ha iniziato la sua carriera come paracadutista militare nella Brigata Folgore e poi, da ingegnere, ha volato con l’ESA.
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