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Pubblicato il 09/11/2019

9 NOVEMBRE 1971 – 46 PARACADUTISTI INABISSATI – OLTRE IL DOLORE

Erano allegri e pieni di speranze come al solito, ieri mattina, all’atto di imbarcarsi nel mastodonte
dell’aria. Nessuno sapeva del misterioso appuntamento che li aspettava tutti insieme, con i sei compagni
britannici, a distanza di pochi minuti. La vita, si può dire, era appena incominciata. Una esosa fatalità
stava per dire: basta. Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite.
Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari bambini di Albenga. Non si disperano. Non
singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano dritti, pallidi si, ma senza un tremito, a
testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che
oggi sembra completamente dimenticato.

di Dino Buzzati

Milano 10 novembre 1971
Erano quarantatrè i bambini annegati insieme nel mare di Albenga nel remoto1947. Dopo tanti anni me li ricordo ancora, spettacolo di una violenza atroce , allineati uno accanto all’altro sopra un unico pancone a ferro di cavallo, nello squallido ambulatorio della Croce Rossa. Quarantasei sono i ragazziì paracadutisti precipitati insieme ieri mattina nel gigantesco vagone colante c130 Herculaes, più i sei inglesi dell’equipaggio che, anno piu anno meno, erano ragazzi anche loro. E la vista di cinquantadue giovani della medesima sorte anche in vita, distesi uno accanto all’altro , che non si sveglieranno mai più, è altrettanto terribile della camera ardente di Albenga. L’impressione allora in Italia fu spaventosa, benchè si fosse appena usciti dalla guerra e dai massacri relativi. La gente piangeva anche se non aveva mai sentito parlare prima di quei bambini, anche in città lontane. Per vari giorni almeno qui a Milano non si parlava d’altro. Ancora adesso a distanza di tanto tempo la parola Albenga ha per molti un rintocco sinistro. L’impressione, ieri, è stata fortissima, ma non c’è neppure da fare il paragone. Né si può dire che sia perché i disastri aerei, in verità rarissimi se si pensa alle decine di migliaia di voli quotidiani nel mondo, siamo ormai abituati ad archiviarli, come fatti quasi di ordinaria amministrazione. Stavolta non è il solito disastro aereo di linea con un elenco di vittime quanto mai eterogenee per nazione, sesso età e professione.

Stavolta sono quarantasei soldati nostri , di una delle specialità più avventurose, pericolose e brillanti: tutti, insomma, di una stessa famiglia. Soldati che come tali si allenavano a sfidare anche la morte. Ma doveva essere il rischio teorico di una morte teorica. Non si ammette che quarantasei giovani se ne vadano così in tempo di pace. E’ come una truffa intollerabile. E tale era iersera il sentimento dominante, giusto o sbagliato che fosse. Di rabbia di critica, di ribellione, più che di vero dolore. Ora, perché nel luglio del 1957 la gente piangeva e ieri non ho visto piangere nessuno (semmai imprecazioni e invettive)? Come se la morte di un bambino fosse più ingiusta e più dolorosa che la morte di un giovanotto ventenne. Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola e così dà dì fastidio la difesa della medesima patria e tutto ciò che vi appartiene compresi i ragazzi che indossano l’ uniforme militare? F orse perché i lontani bambini annegati erano del tutto innocenti ed erano stati portarti sulla barca fatale inconsapevoli, mentre i quarantasei paracadutisti avevano fatto loro stessi una scelta? Bene. Questa stessa relativa indifferenza del grande pubblico , che sarebbe ipocrisia negare, pubblico colpito addolorato forse anche sgomento per cinque ,dieci minuti ma non più, conviene probabilmente allo stile della sciagura. E’ stata una tragedia militare. Troppi piagnistei e lamentazioni sarebbero una stonatura, loro stessi ne sarebbero irritati. Però un poco di silenzio. Erano allegri e pieni di speranze come al solito, ieri mattina, all’atto di imbarcarsi nel mastodonte dell’aria. Nessuno sapeva del misterioso appuntamento che li aspettava tutti insieme, con i sei compagni britannici, a distanza di pochi minuti. La vita, si può dire, era appena incominciata. Una esosa fatalità stava per dire: basta. Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri.

Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari bambini di Albenga. Non si disperano. Non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano dritti, pallidi si, ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato

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