OPINIONI

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Pubblicato il 28/09/2017

CASO SCIERI E OSTILITA’ NEI CONFRONTI DEI PARACADUTISTI: TESI DI LAUREA SUL NONNISMO ALLA FOLGORE

PARMA- Il clima ideologico di ostilità nei confronti della Folgore viene da lontano ed ha avuto una recrudescenza nel 1999, anno del “caso Scieri”, di cui abbiamo ampiamente parlato. Un clima talmente pervasivo da ingenerare perfino una tesi sul nonnismo alla Folgore già nel 2014, il cui autore è un ex paracadutista , il cm Massimiliano Santucci di Torino, che dopo la laurea in Scienze politiche, è stato ( e lo dovrebbe ancora essere) , sindacalista CGIL –
La nostra Redazione si dissocia dai contenuti, ma li pubblica per portare a conoscenza i lettori di uno scritto diffuso negli ambienti antimilitaristi.


“Riti di iniziazione e nonnismo nelle caserme della Folgore”

Indice

Premessa

Cap. 1
Il nonnismo. Una prima considerazione definitoria

Cap. 2.
I giovani e la leva, tra opinione pubblica e forze armate

2.1 L’importanza dell’opinione pubblica

2.2 Forze armate e società

2.3 Media, giovani e servizio di leva

2.3.1 La condizione giovanile

2.3.2 La nascita di un fattoide

2.4 Il ruolo della scuola

Conclusioni

Cap. 3.
Cenni storici sulla Brigata Folgore

Cap. 4.
Cultura tradizionale, psiche e storia dei paracadutisti italiani

4.1 Testi scientifici e memorialistica

4.2 Gli effetti collaterali della psy war e la diffidenza per chi sfida il pericolo

4.3 L’arditismo

4.4 Il paracadutismo militare italiano

4.4.1 Paracadutismo e “bisogno di vita eroica”

4.4.2 Il lancio: funzioni manifeste e funzioni latenti

4.4.3 Avvenimenti eclatanti

4.4.4 Racconti e canzoni

4.4.5 Distinguersi in tutto ed essere orgogliosi ad ogni costo

4.5 Nuclei d’élite e spirito di corpo

Conclusioni

Cap. 5.
La sociologia militare e l’esercito

5.1 Un pò di revisionismo sull’equazione: caserma = “istituzione totale”

5.2 Le riforme nel sistema caserma come “istituzione totale” in Italia

Cap. 6.
Obbedienza, selezione, potere e leadership nell’organizzazione militare.
Alcuni strumenti analitici per studiare la Folgore

6.1 Una tipologia organizzativa

6.2 L’esercito e il caso Folgore

6.2.1 Potere

6.2.2 Obbedienza

6.2.3 L’importanza di una “leadership formale” e il processo di civilianisation

6.3 Il servizio di leva nella Folgore, un’anomalia nell’Esercito Italiano

6.4 Tra formalizzazione e informalizzazione, autorità e potere, la duplice natura dell’esercito

Cap. 7.
Folgore e nonnismo, un’analisi di stampo antropologico e organizzativo.

Parte prima

7.1 Separazione, marginalità, incorporazione

7.2 Microritualità quotidiana e riti di passaggio

7.3 I rituali, tra ordine tecnico e ordine morale

Parte seconda

7.4 Autorità e potere

7.5 Il gruppo primario in caserma

7.6 Nonnismo: concezione angelica contro concezione demoniaca

7.7 Una questione di contesto

7.7.1 Nonnismo, tra operatività e non operatività

Compagnie operative

Compagnie operative e nonnismo

Compagnie logistiche

Compagnie logistiche e nonnismo

7.8 Vietato generalizzare

7.9 Variabili personali contro variabili temporali…

7.10 Tradizioni inventate e comportamenti antivuoto

7.11 Parificazione alla rovescia

7.12 Capro espiatorio
Conclusioni. Il nonnismo tra anomia e cultura

Note a margine.
Le percezioni del campione di intervistati nell’arco temporale della ricerca (1964-1998)

Cap. 8.
La ricerca
8.1 Strumenti d’indagine
8.1.1 Interviste in profondità
8.1.2 Questionari via e-mail
8.2 Il campione di “ex”
8.2.1 Caratteristiche del gruppo di intervistati face to face
8.2.2 Caratteristiche del campione di coloro che hanno compilato il questionario

Cap. 9.
Osservazioni conclusive

Cap. 10.
Narrare la conoscenza organizzativa

Giorni di naia
Tre giorni
Viaggio
Arrivo in caserma
Caporali istruttori
Come si diventa graduati istruttori
Giornate al C.A.R
Vestizione
Prove fisiche di ammissione al Corso palestra
Giuramento
Trasferimento alla S.Mi.Par
Mondi diversi e contigui
Giornate al Corso Palestra
Visite mediche, tra mito e realtà
Raggiro “caporalesco” o politica in caserma?
Leggende da caserma o miti interessati?
Primo lancio
“Al corpo”. Trasferimento in C.C.S
La foresta dei simboli: gerarchia parallela e organizzazione informale della vita in caserma
Nonnismo. Perché?
Cambiamento
Cappellano militare
“C’era una volta…”. Ufficiali e sottufficiali, Fortezza Bastiani e disincanto
Approssimarsi del congedo
Incidenti: febbre del congedante e anomia
Addio
Casa

Allegato n.1
Allegato n.2

Bibliografia

Alcune citazioni famose

Quando una cosa viene data per scontata non ne vengono descritte le origini e le vicissitudini.

(Chodorow, 1995)

Già erano in piedi gli uomini in quella vita distaccata delle caserme, misteriosa e chiusa come la vita delle api. Qui improvvisamente tutto diventa simbolo, ubbidisce a concetti difficili da distinguere, ed è perciò che vi si soffermano volentieri i ragazzi, le donne, i curiosi in genere, che tentano di capire gli atti diversi e i movimenti che vi si compiono come in una cerimonia religiosa di cui ogni fase è legata a sottintesi esoterici.

(Alvaro, 1930)

Without expressive events, any culture will die. In the absence of ceremony or ritual, important values have no impact.
Ceremonies are to the culture what the movie is to the script, the concert is to the score, or the dance is to values that are difficult to express in any other way.

(Deal and Kennedy, 1984)

La mania di voler assolutamente trovare le “leggi” della vita sociale è semplicemente un ritorno al credo filosofico degli antichi metafisici, secondo il quale ogni conoscenza deve essere assolutamente universale e necessaria.

(Simmel, 1907)

Nessun racconto è possibile, nessuna rappresentazione
sembra praticabile, nessuna rievocazione è capace di sfuggire alla retorica. E’ veramente una strana, complicata situazione. (…). Un aspetto di tutto ciò è che la letteratura che riguarda il mondo militare, i racconti e i resoconti, i diari e i memoriali, costituiscono un grande corpus che però non circola, e tranne poche eccezioni rimane sconosciuto e non frequentato. C’è una quantità di racconti e pare che non ce ne siano, c’è una grande quantità di storie e di documenti, ed è come se non ce ne fossero.
Siamo di fronte ad un marcato rifiuto complessivo, a una sorta di rimosso totale di quanto l’esperienza ha visto, sofferto, rielaborato, sotto forma di riflessione e quindi di racconto.

(Greco, 1999)

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1.
Il nonnismo.
Una prima considerazione definitoria.

Consultando il vocabolario, alla voce nonnismo si legge: “comportamento prepotente e intimidatorio che i soldati prossimi al congedo assumono nei confronti delle reclute, sottoponendole a scherzi anche feroci e pretendendo particolari privilegi.”
Suddetta definizione risulta troppo semplicistica e già viziata dal senso comune per pretendersi esaustiva su di un fenomeno proteiforme, capace di presentarsi sotto vesti molto diverse non solo nel tempo ma anche nello spazio e che se trova in caserma il luogo di massima espressione, non significa che non sia presente anche altrove.
Il termine nonnismo deriva paradossalmente dalla parola nonno che rimanda alle idee di affetto, esperienza, saggezza, rispetto che emanano da una figura riposante, confortante, che può insegnarci molto proprio perché più anziano.
Attenendoci all’ambiente militare il termine “nonno” viene utilizzato per riferirsi a coloro che, in virtù della loro anzianità di servizio, godono di alcuni “vantaggi” non altrimenti concessi a chi ne è invece entrato a far parte da poco. Anche secondo quest’accezione esso assume un valore positivo per almeno due diversi ordini di considerazioni.
Sotto il profilo etico, in quanto i privilegi conquistati grazie all’esperienza non possono essere certamente oggetto di biasimo alcuno; esiste infatti una “cultura non registrata” dell’anzianità, secondo la quale i servizi più scomodi spettano a chi è arrivato per ultimo, un atteggiamento riscontrabile sin dai primi livelli della pubblica amministrazione. A questo proposito il sociologo Michel Crozier ci ricorda l’importanza che nello studiare un’organizzazione bisogna porre ai tratti nazionali specifici e alla sua storia secolare come elementi capaci di plasmare la cultura e la personalità dei soggetti impiegati al suo interno ; ed in effetti, è forse proprio a causa di questa peculiarità culturale italiana che il termine “nonnismo” non trova corrispondenze nelle lingue anglosassoni, le quali contemplano semmai un termine dal significato simile ma ben meno “romantico” e ora tanto in voga: “mobbing” (da to mob, assalire).
Stabilire una graduatoria di merito e di diritti, sia per il dominio della zona di caccia più fruttuosa che per il possesso delle femmine migliori o semplicemente per avere il diritto di essere il primo ad abbeverarsi alla fonte, esiste anche fra gli animali appartenenti ad una stessa comunità. Etologicamente è un comportamento che appare in tutti i gruppi animali e viene definita dagli etologi con la formula “ordine di beccata”. L’ordine di beccata è una forma gerarchica, una graduatoria spontanea e traslando il fenomeno all’interno della caserma possiamo dire che il nonnismo è un modo per affermare un ordine di beccata che creerà precedenze e sottomissioni funzionali all’esistenza di tutto il gruppo, poiché sottomettersi significa essere protetto e rispettato dagli altri.
Ad oggi, tuttavia, con la progressiva riduzione della durata del servizio militare, passato da 18 a 10 mesi negli ultimi quarant’anni e con l’appiattimento logistico della maggior parte dei reparti è plausibile pensare che lo status di “anziano” sia passato da acquisito ad ascritto, non più accompagnato quindi da effettiva competenza, semmai da una maggior scaltrezza e stabilità emotiva dovuta alla più lunga permanenza nell’istituzione. In un contesto simile è possibile che la supposta anzianità e il piacere della prevaricazione divengano valori a sé, proponendosi come reazione alle frustrazioni che la vita militare inevitabilmente provoca; l’addestramento, la disciplina, il controllo delle pulsioni e delle emozioni, l’intimità forzata con compagni di ventura che non ci si può scegliere, l’imposizione di orari e attività precise, mettono a dura prova le capacità di autogestione e autocontrollo dell’individuo.
In questi frangenti è comune assistere all’insorgere della disistima nei confronti dello staff (che ha fatto di quel mondo, così disprezzato dal soldato di leva, la propria identità esistenziale e professionale), giudicato responsabile delle proprie frustrazioni, e alla nascita di “gerarchie parallele” alternative a quelle ufficiali che rendono possibile all’anziano di rivalersi sugli ultimi arrivati.
In prospettiva strutturalista il nonnismo può essere considerato un prodotto funzionale della struttura militare in quanto la consapevolezza della propria posizione subalterna e l’accettazione delle limitazioni che ne derivano da parte del soldato è di fondamentale importanza per garantire il buon funzionamento di un’istituzione che è fortemente gerarchizzata e dotata di regole precise (siano esse prescritte o socialmente condivise).
Con il medesimo termine nonnismo si indicano anche i rituali di iniziazione che segnano l’ingresso negli ambienti militari (ma in uso anche nei gruppi sportivi, nei college, nelle comunità religiose) e che si tramandano di scaglione in scaglione in modo fisiologico. Le modalità che caratterizzano questi riti possono essere brusche fino alla violenza, scherzose fino alla derisione, simbolizzate fino alle formule di un cerimoniale rigoroso; l’obiettivo è provocare nel neofita uno shock emotivo di cui si ricorderà, anche a distanza di tempo, come di una prova di forza e tenacia caratteriale che gli ha garantito l’ingresso e l’accettazione nella nuova comunità.
I militari di leva tendono a legittimare questi comportamenti richiamando l’assunto secondo il quale “l’anzianità fa grado”, che rappresenta in effetti una delle regole cardine dell’esercito, non solo italiano. Essa prevede che, in caso di necessità, assuma il comando il militare più elevato di grado o “a parità di grado, il militare più anziano” (art. 12 e 24 del vigente regolamento di disciplina militare) e ha trovato applicazione specialmente in battaglia, laddove il rimpiazzo del comandante caduto doveva essere univoco, automatico, istantaneo.
Altra razionalizzazione consiste nel far derivare determinate usanze da spesso improbabili tradizioni di corpo, mentre i più tendono invece a rifarsi al detto “oggi a me e domani a te”.
Un discorso a parte merita di essere fatto per i comportamenti che attengono ai caporali istruttori che operano nei C.A.R. (Centri di addestramento reclute): questi soldati di leva sono addestrati per dare il “benvenuto” all’interno dell’istituzione militare; non è tuttavia chiaro il confine tra quali siano i comportamenti legittimi e quelli esasperati. Il fatto che da sempre i caporali istruttori abbiano mantenuto nell’immaginario comune un’aurea demoniaca fa comunque pensare che la loro condotta un pò fuori dagli schemi, sia sempre stata giudicata funzionale alle mire dell’addestramento reclute.
Se non è unanime la definizione del fenomeno nemmeno tra chi ha vissuto in prima persona l’esperienza militare, tantopiù l’opinione pubblica, formatasi sui media, non ha avuto sino ad ora la possibilità di comprendere, nemmeno superficialmente, cosa sia in realtà il nonnismo. E’ ormai consuetudine riferire a questo termine ogni accadimento che, verificatosi durante la vita militare, ne abbia trasceso le norme e i cerimoniali strettamente previsti attraverso riti di iniziazione, atteggiamenti di pretesa superiorità, scherzi banali, veri e propri insulti, minacce, atti di prevaricazione o violenze di stampo delinquenziale.
Negli ultimi tempi la confusione sul significato della parola nonnismo ha tuttavia portato a punire anche qualche caporale troppo ligio e determinato, delegittimando tutto di un colpo quella strana forma di “angheria istituzionalizzata” (o stress test, per dirla all’americana) che da sempre l’addestramento reclute aveva rappresentato.
Le definizioni “massmediatiche” del fenomeno, radicatesi ormai nel senso comune, portano ad una visione approssimativa e fuorviante di esso che rende problematica la sua comprensione e ancor di più la ricerca delle molteplici cause che lo determinano.
Il nonnismo si può presentare sotto svariate forme, in tempi e modi differenti ma con una costante, l’anzianità reale o presunta, come fattore legittimante.
Il nonnismo inteso come “gerarchia parallela” si oppone per natura al raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Attraverso questa gerarchia latente l’anziano ripropone al nuovo arrivato, in termini conflittuali, lo stesso legame che ha con i propri superiori e scarica su di lui, umiliandolo, le frustrazioni accumulate nei mesi precedenti. Si sviluppa più facilmente dove le frustrazioni che la vita militare comporta sono dominate dalla noia e non si accompagnano ad un senso di gratificante utilità e all’acquisizione di capacità legate all’operatività militare (uffici, depositi, mensa). In queste situazioni il militare ha però la possibilità di sviluppare “adattamenti secondari” e conoscenze “giuste” attraverso le quali ottenere gratificazioni proibite e notevoli possibilità di “imboscarsi”.
Un’altra declinazione del fenomeno si riscontra anche nella società civile sin dai primi gradi della pubblica amministrazione e comunque in quasi ogni luogo di lavoro. Consiste nel delegare i compiti e i turni di lavoro più ingrati all’ultimo arrivato. Non si accompagna necessariamente a pesanti vessazioni nei confronti del “neo assunto” ed è in genere accettato dal personale di mestiere, che utilizza la stessa logica, ma anche dal soldato di leva. Questo atteggiamento è caratteristico di quegli incarichi che, pur non essendo operativi (uffici vari, furerie), causano nel militare, solitamente dotato di un titolo di studio medio-alto, minori frustrazioni rispetto a quelle cui sono sottoposti gli addetti mensa, armerie e depositi (gli orari di lavoro coincidono con quelli del personale effettivo e non prevedono quindi coperture serali, notturne o nei fine settimana) e garantiscono, in cambio di un contegno di comportamento costante, quel senso di superiorità che deriva dal lavorare al fianco degli ufficiali.
Nel nonnismo confluiscono anche tutte le cerimonie e i rituali di accoglienza informali che caratterizzano la subcultura militare par excellence. Sotto questa forma è generalmente più diffuso nei reparti dotati di elevato spirito di corpo, dove si svolgono mansioni operative che richiedono comunque competenza e senso di lealtà verso i colleghi. Sono una costante tra i caporali istruttori, forse per celebrare l’ingresso nella casta dotata di maggior potere e ascendente sulle reclute. Fenomeni simili si riscontrano, nel mondo civile, tra braccianti, minatori, addetti alle fucine, ambienti in cui il lavoro è solitamente molto duro a livello fisico, si svolge in ambienti pericolosi o lungo orari che non combaciano con quelli delle normali attività. Particolarmente fertili sono gli ambienti a prevalenza maschile con un livello di istruzione medio-basso ma, sino a non molto tempo fa, pare fosse diffuso, sotto forma di goliardia, anche nelle università.

Un grado elevato di ritualizzazione si riscontra anche in gruppi elitari o a partecipazione clandestina e molto ristretta come sette, logge massoniche o clan mafiosi, caratterizzati da un profondo rispetto per l’anzianità di appartenenza, considerata indice effettivo di competenza e affidabilità e da riti di iniziazione per entrare a farvi parte.
All’interno dell’ambiente militare questo genere di comportamenti ha trovato quasi sempre una certa accondiscendenza da parte dello staff poiché propedeutico all’organizzazione funzionale del gruppo e perché è proprio della tradizione militare il perpetuarsi attraverso una ripetizione di rituali, comportamenti, valori, non affatto codificati nella prassi ufficiale o descritti nella manualistica ufficiale.
Non possiamo peraltro trascurare ciò che l’opinione pubblica conosce del nonnismo e perciò l’immagine che del fenomeno traspare dai media. Notizie generalmente non verificate ma che appartengono oramai al pensiero ed immaginario comune definiscono nonnismo ogni comportamento deviante e criminale si verifichi all’interno di una caserma.
Utilizzare sporadici fatti di cronaca come strumento di battaglia politica per denigrare il servizio di leva può provocare una collusione fra la profezia che il fenomeno esista (così come viene descritto dai media) e l’esistenza effettiva di esso. Questo nuovo genere di devianza, sradicato da una cultura ben precisa e consolidata, può assumere profili pericolosi ed imprevedibili.
Si pensa siano questi i principali contenuti della parola nonnismo e quelli da cui partire per affrontare lo studio del fenomeno.
Attraverso l’esperienza sul campo e con l’ausilio dell’indagine svolta si è avuto modo di riscontrare come nelle caserme della Folgore abbiano col tempo trovato un riscontro empirico tutte le possibili declinazioni del fenomeno nonnismo qui avanzate. Una sorta di “luogo ideale”, ove si coniugano peculiarità e anomalie del tutto singolari con altre comuni a tutti gli ambiti delle forze armate.

2.
I giovani e la leva, tra opinione pubblica e forze armate.

2.1 L’importanza dell’opinione pubblica.
In questo capitolo si cercherà di evidenziare il peso di un soggetto, l’opinione pubblica, che nel corso della ricerca si è rivelato di estrema importanza nello spiegare, se non il fenomeno in questione, almeno la percezione di esso e il motivo stesso per cui si è sentita la necessità di studiarlo.
Nel libro che Battistelli ha recentemente pubblicato, il primo dedicato specificatamente al nonnismo, lo studioso sembra cogliere l’importanza dell’opinione pubblica, quando scrive:

Direttamente o indirettamente noto a tutti coloro che hanno avuto una sia pur modesta esperienza del servizio militare, il nonnismo è, oltre che un fenomeno reale, anche un mito, la cui diffusione supera di gran lunga i confini della caserma. Con i suoi aspetti rituali e segreti, esso sembra fatto apposta per alimentare la curiosità dei profani: in particolare dei giovani che si apprestano (o si apprestavano) a compiere il servizio di leva, così come dei loro gruppi di riferimento – i genitori e gli altri familiari, gli amici, le fidanzate – tutti più o meno allertati da un antico e capillare passa parola fondato sui rendiconti (talora veridici, talora leggendari) resi al proprio ritorno dai congedati, più efficace e persuasivo di qualsiasi campagna di informazione ufficiale.

Tuttavia Battistelli dà scarso seguito al discorso, dedicando soltanto un paragrafo all‘influenza che le campagne di informazione ufficiali e soprattutto dei media possono esercitare sull’opinione pubblica. Egli sembra correlare soltanto secondariamente questa ipersensibilizzazione nei confronti della tema nonnismo all’evolversi della società civile e ai cambiamenti di atteggiamento dei giovani, e non solo, nei confronti delle forze armate.
2.2 Forze armate e società.
Le forze armate, per loro natura e funzioni, risultano caratterizzate da tratti e valori sempre più distanti da quelli caratterizzanti la società odierna. Questo non può che rappresentare un problema se si riconosce che ”le organizzazioni militari difficilmente possono funzionare in modo efficiente in assenza o in carenza di collegamento con la più vasta società, dai cui obiettivi generali esse traggono legittimazione per i propri scopi specifici.” .
Volendo elencare le componenti su cui si fonda l’identità collettiva nelle F.A., è possibile fare efficacemente ricorso a parte di quelle utilizzate da Cartocci e Parisi per identificare i tratti improntati al tradizionalismo ritualista e caratterizzati dall’ipertrofica attenzione verso temi quali la religione civile, l’invenzione della tradizione, il tradizionalismo ritualista.
L’orientamento filoistituzionale e lo sguardo rivolto al passato espresso da questi valori trova riscontro, a livello di orientamento politico, più nel conservatorismo della destra, deposito naturale di valori connessi con la sensibilità al tema della difesa della patria, che nel cosmopolitismo e internazionalismo della sinistra.
Si può per questo parlare di un esercito naturaliter di destra? Per rispondere è necessario anticipare in parte il discorso che si farà a proposito del “mito”, anche in questo caso, infatti, sono stati gli eccessi nazionalisti del regime fascista a rendere invise alla sinistra le forme della ritualità quotidiana e i richiami al passato, elementi che di per sé non presentano valenze intrinsecamente negative.
Analizzando una ad una le componenti valoriali conservatrici emerge come queste trovino perfetta corrispondenza nel way of life dell’Istituzione militare:
-Religione civile: questa nozione risale a Rousseau ed è stata riutilizzata da Robert Bellah per sintetizzare il complesso simbolico costituito dagli eventi fondativi di una nazione (eroi, padri fondatori, luoghi e date). Con il passare del tempo questi subiscono un processo di destorificazione e trasfigurazione simbolica che li trasforma in simboli della nazione. L’applicazione al contesto civile del lessico proprio dell’esperienza religiosa (altare della patria, sacrario dei caduti, dovere sacro ecc..) serve a sottolineare il vincolo di partecipazione affettiva che unisce i cittadini di una nazione.
Mentre in campo civile il festeggiamento di molte ricorrenze (Festa della Repubblica e Festa della Vittoria) sono state burocraticamente relegate a giorni festivi, in campo militare nomi di caserme, piazze, edifici, bandiere di guerra, tradizioni reggimentali, non fanno che richiamare eventi e battaglie o personaggi che in queste abbiano giocato un ruolo determinante.
-Invenzione della tradizione: molte consuetudini tramandatesi all’interno dell’esercito come usanze da sempre presenti appartengono in realtà alla categoria di quelle che Hobsbawm e Ranger hanno definito “tradizioni inventate” : “le tradizioni che ci appaiono, o si pretendono antiche, hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta” e ancora: “le tradizioni inventate sono l’insieme di pratiche che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è implicita la continuità col passato”; quest’attaccamento viscerale al passato e alla tradizione trova massima espressione nelle forze armate proprio quando la società civile si discosta maggiormente dai suoi valori ed esse sentono più forte il rischio di delegittimazione.
-Tradizionalismo ritualista: negli ultimi decenni è stata progressivamente erosa, soprattutto nei rapporti dei singoli con le istituzioni pubbliche, la dimensione rituale della vita quotidiana. La progressiva informalità dei rapporti con e dentro le istituzioni, il minor ricorso alle divise, la soppressione delle cerimonie di giuramento da parte degli impiegati pubblici e degli insegnanti , sono modalità che marcano l’allontanamento della società civile da quella militare, rimasta invece legata alla cerimonialità e ritualità dei rapporti quotidiani.
Non c’è nulla di positivo nel fatto che questi atteggiamenti abbiano acquistato una valenza politica; ciò è indicativo di come le istituzioni pubbliche, e prima fra tutte la scuola, si siano lasciate sfuggire e abbiano relegato a determinati ambienti la celebrazione e il ricordo di un passato comune, con il risultato che attraverso il calendario agonistico della nazionale di calcio si ha l’unico caso di ascolto collettivo, per quanto mediato dalla televisione, dell’inno nazionale.
Questa discrasia di orientamenti e valori tra società civile e militare ha delle ricadute sull’integrazione tra forze armate e società civile. A proposito Charles Cotton ha proposto una tipologia basata sul grado di integrazione interna ed esterna di un esercito individuando quattro possibili tipi ideali, disposti in ordine di efficienza crescente:
1) Una forza armata con valori bassi di integrazione interna ed esterna.
2) Una forza armata con basso livello di integrazione interna ed alto di integrazione esterna.
3) Una forza armata con valori bassi di integrazione esterna ed alti di integrazione interna.
4) Una forza armata con alti gradi su entrambe le dimensioni.
Il “tipo 1” costituirebbe, secondo Cotton, l’esito di una forza armata “occupazionale”. Il “tipo 2” sarebbe invece il risultato di un processo di civilianisation completato. Al “tipo 3” corrisponderebbe un esercito isolato ma coeso al proprio interno. Solo il “tipo 4” rappresenterebbe il modello istituzionale autentico e massimamente efficiente.
Considerando dunque l’esercito tanto più caratterizzato da orientamenti “tradizionalistici” quanto meno avanzato è il processo di civilianisation al suo interno, si conclude che il personale paracadutista, con un più spiccato orientamento istituzionale ed eroico non può che presentare, in un paese come l’Italia, bassi livelli di integrazione esterna; a ciò consegue, più sotto forma di difesa contro un nemico comune che per reale comunanza di valori, un alto livello di coesione interna. Da ciò si evince che una forza armata di ”tipo 3”, per aumentare la propria efficienza non dovrebbe necessariamente modificare la propria struttura organizzativa, recedendo al “tipo 2” o peggio al “tipo 1” (come del resto sta avvenendo) ma ricercare la sincera legittimazione (e non solo il consenso) da parte della società civile. Una scommessa di questo genere si dovrebbe giocare più sul piano culturale che su quello politico ed economico ma richiederebbe l’esplicito desiderio di essere vinta.

2.3 Media, giovani e servizio di leva.
L’ipersensibilzzazione da parte del mondo politico, dei media e quindi dell’opinione pubblica alle tematiche del “nonnismo” in caserma, iniziata negli anni ‘80, ha trovato, nel decennio appena trascorso, un vigore che si spiega solo in parte con l’acuirsi del fenomeno e ben più efficacemente con la diversa disposizione del mondo politico e dell’opinione pubblica nei riguardi di un esercito di leva non più corrispondente ai nuovi modelli di difesa e soprattutto sempre più incapace di raccogliere il favore dei giovani.
Apparentemente inconcludente ai fini del presente studio, questo discorso merita i dovuti approfondimenti per i nessi che presenta con il fenomeno massmediatico e politico della creazione del “fattoide nonnismo” e con la relativa demonizzazione dell’ambiente caserma.
Come rilevato da Battistelli, se ancora alla fine degli anni ‘60, la maggioranza assoluta degli italiani (55%) sosteneva la leva, oggi questa percentuale è scesa al 10-12%. Il servizio militare ha quindi perso drasticamente legittimazione nella rappresentazione degli italiani. Le cause sono varie: la gestione complessivamente carente del “patrimonio” coscrizione obbligatoria (il calo dei finanziamenti e la progressiva professionalizzazione del personale operativo hanno inciso particolarmente sull’addestramento) ma anche i grandi mutamenti che sono avvenuti nella società contemporanea, rappresentati dal passaggio da società eterocentrate, che collocavano nell’altro da sé l’epicentro della vita dell’individuo (la famiglia, la chiesa, lo stato ,il partito ecc..), a forme di valori decisamente autocentrate, individualistiche, narcisistiche.
In particolare, il passaggio dai bisogni materialisti a quelli post-materialisti, rilevato da Inglehart attraverso appositi indicatori e utilizzati in diverse ricerche (1983 e 1993) può essere facilmente utilizzato per spiegare la spiccata riluttanza da parte dei giovani al rispetto delle regole vigenti all’interno delle istituzioni. Secondo Inglehart, in molti paesi europei, nella misura in cui i bisogni primari venivano soddisfatti, sono emersi valori definiti post-materialisti perché più legati ad una concezione qualitativa della vita. Lo studioso tedesco-americano allude implicitamente al fatto che il bisogno di sicurezza nazionale appartenga al campo dei bisogni primari (che lui chiama materialisti) ed è quindi ovvio concludere che il passaggio a quelli post-materialisti implichi un appannamento del valore nazionale e di quello attribuito alla difesa del paese. I valori pacifisti e post-nazionalisti sorti in sostituzione di questi ultimi, risultano non casualmente accompagnati da un generale innalzamento dell’istruzione scolastica.
In questa fase di “transizione societaria” le istituzioni hanno sperimentato uno scrutinio permanente da parte dell’opinione pubblica , dei mass-media, della classe politica. E questo non soltanto in Italia, anche se qui, come si vedrà, entrano in causa variabili differenti.

2.3.1 La condizione giovanile.
Il confronto con la vita militare avviene in un momento della storia personale, solitamente al termine della scuola superiore, in cui si stanno concludendo o si sono appena conclusi quei processi che, durante l’età adolescenziale (individuazione, separazione dalle figure genitoriali) dovrebbero permettere il decisivo superamento delle dinamiche infantili di dipendenza e l’effettiva maturazione di un equilibrio emotivo e affettivo tipico dell’età adulta. Nell’attuale contesto storico-sociale assistiamo tuttavia ad un prolungamento del periodo di marginalità sociale delle fasce giovanili, a causa della difficoltà di raggiungere una autonomia di tipo economico, una mancanza paradossalmente più sentita proprio dai ragazzi già occupati.
Tale mancanza di autonomia ha però un corrispettivo contraddittorio nel fatto che proprio alle fasce giovanili sono rivolti essenzialmente una serie di messaggi riguardanti gli inviti al consumo e all’acquisto di determinati beni.
Tale contraddittorietà tra una mancanza di indipendenza economica ed una forte spinta all’autodeterminazione dei consumi costituisce un ulteriore fattore di squilibrio maturativo nella formazione di un immagine di sé; a sua volta il perdurare della dipendenza affettiva rende più difficile la gestione della definitiva fase della individuazione. L’importanza di conoscere i giovani, potenziali “servitori della patria”, si è sentita anche all’interno delle Forze Armate che, a partire dal 1979, preparano annualmente, attraverso lo Stato Maggiore della Difesa, una “relazione sul morale del personale militare e civile delle Forze Armate e sullo stato della disciplina militare”. Seguono, per sommi capi, le rilevazioni compiute negli anni ’80: la tendenza a ”monetizzare tutto” è apparsa subito evidente; più precisamente, la relazione relativa al 1982-83, se da un lato registra con soddisfazione la perdita di “virulenza” della “retorica antimilitarista attizzata da frange estremiste extraparlamentari che aveva imperversato per decenni”, nota che all’azione negativa esercitata in passato dalle premesse ideologiche si andrebbe sostituendo “l’influenza di concezioni edonistiche non deliberatamente accettate, ma gradualmente e inconsciamente assorbite dal contesto sociale”. La perdurante “diffusa riluttanza dei coscritti” verso il servizio obbligatorio troverebbe origine “piuttosto in motivazioni di carattere socio-economico”, quali la forzata interruzione del lavoro o degli studi.
Considerando la relazione relativa all’anno 1989-90, in essa si osserva che “i giovani di leva, psicologicamente più fragili di un tempo, si presentano alle armi permeati di preconcetti ricorrenti nell’opinione pubblica e nella scuola”. L’impatto con l’organizzazione militare resterebbe quindi abbastanza traumatico, ma “l’esperienza concreta spesso riesce a dimostrare l’erroneità delle convinzioni preconcette e a favorire l’ambientamento”.
Anche volendo misurare il disagio giovanile attraverso le statistiche sulla demografia dei suicidi in caserma avvenuti nell’anno 1986, ben 23, il ritratto che si ottiene è quello proprio del giovane “post-moderno”: prevalentemente settentrionali, rinviato (dai 21 ai 26 anni), occupato, con bassa scolarità e con nucleo familiare completo; ne risulta il ritratto di un ragazzo da un lato senza problemi economici o familiari di rilievo ma parimenti incapace di dare un significato alla propria vita (il basso livello di istruzione crea meno aspettative e speranza nel futuro) e più vulnerabile in un momento di crisi affettiva.
La fine delle certezze e il postmodernismo giovanile degli anni ‘80 si riflette bene anche nelle immagini del servizio militare obbligatorio veicolate attraverso la letteratura, la fotografia, il cinema, i fumetti; a proposito di questi ultimi Ilari nota un progressivo cambiamento dei contenuti del discorso e dell’immagine che essi veicolano del servizio militare: prima la divisa era disegnata in modo goffo, l’arma del soldato era la ramazza (Marmittone ne Il Corriere dei Piccoli); poi sono cominciate ad apparire le tenute da combattimento, il basco spavaldo, le armi. Tutto ciò viene interpretato da Ilari non come “rimilitarizzazione” della gioventù italiana bensì come espressione dell’ossessione e dell’incertezza sulla propria identità sessuale come forma primaria e allegorica del vero problema, che è quello dell’identità personale; ne risulterebbe complessivamente una estrema fragilità psicologica della condizione giovanile moderna, senza distinzione di sesso o di posizione militare.
Il bisogno di identità conseguente al cambiamento culturale e alle trasformazioni economiche e produttive avvenute negli ultimi cinquant’anni, rischia di essere frustrato, in un contesto in cui a modificazioni strutturali profonde non corrispondono equilibrati adeguamenti sul piano sovrastrutturale e infrastrutturale. L’esistenza di una pluralità di occasioni di incontro e di aggregazione per “stile di vita” che non generano processi di identificazione piena tra i giovani, genera la “pluriappartenenza” e minori probabilità, rispetto al passato, di riferirsi a modelli chiari e distinti. La letteratura sociologica più recente tende a sottolineare che la crescita della differenziazione sociale erode alla radice le fonti di identificazione collettiva e genera, attraverso la moltiplicazione e l’intersezione delle cerchie sociali, effetti dissociativi e anomici.
Simmel e Durkheim avevano per primi rilevato come la differenziazione sociale portasse con sé aspetti positivi e negativi allo stesso tempo: se da una parte questa accresceva enormemente la libertà del singolo individuo e rendeva più ricca e raffinata la sua personalità, cionondimeno, il gruppo sociale esteso lasciava un margine maggiore “alle formazioni e deformazioni estreme dell’individualismo, all’isolamento misantropico, alle forme di vita barocche e capricciose, all’egoismo crasso”.
Lo psicanalista Erik Erikson ha definito la gioventù come “moratoria psico-sociale” , stato di ansiosa incertezza, di crisi caratterizzata da diffusa “confusione di identità”. Ma mentre un tempo i “riti di iniziazione” segnavano una discontinuità tra adolescenza e maturità e, drammatizzando la svolta nell’esperienza individuale, organizzavano in maniera rigida la nuova identità, nelle nostre società avanzate la gioventù è completamente “deritualizzata” e ha contorni sempre più sfumati, allargandosi tanto da comprendere età che solo fino a pochi decenni fa erano considerate adulte.
Non riferendosi esclusivamente al mondo giovanile ma generalizzando la propria osservazione a tutta la civiltà postmoderna, Peter Berger sostiene che la sfera privata si sarebbe “deistituzionalizzata” a seguito del dominio degli organismi burocratici su ampia scala e dell’influenza generica della “società di massa”. Ciò avrebbe, di converso, portato ad un’”iperistituzionalizzazione” della sfera pubblica, con il risultato di soffocare la vita personale, privandola dei punti saldi di riferimento e spingendola ad un’involuzione soggettivistica che ricerca il senso e la stabilità al proprio interno. Anche l’amicizia, un fattore importante per leggere i fattori ad ampio raggio che influenzano la nostra vita, avrebbe subito una metamorfosi, secondo Giddens, “deistituzionalizzandosi”:

nelle culture tradizionali vi era una netta divisione tra abitanti del luogo e forestieri e l’amicizia era istituzionalizzata nel senso che serviva a creare alleanze più o meno durevoli con il prossimo contro i gruppi esterni potenzialmente ostili; le amicizie erano essenzialmente forme di cameratismo come quelle tra fratelli di sangue e compagni d’arme.

Questa concezione di amicizia è stata importata dai ceti rurali nelle città ed è sopravvissuta fino a non molti anni or sono sotto forma di bande di quartiere, scomparendo definitivamente, almeno in Italia, soltanto nel corso degli ultimi vent’anni.
La crisi dei vecchi gruppi di riferimento, non più sufficienti a svolgere la doppia funzione di momenti di appoggio e di sicurezza, la modificazione delle tradizionali reti relazionali (famiglia, vicinato, gruppi amicali e di lavoro) finiscono per mortificare un bisogno di espressività che invece proprio oggi si rivela più pressante, in presenza di una dilatazione temporale e qualitativa del “tempo libero”. Alle associazioni politiche, religiose, sindacali e ai gruppi familiari estesi non si sono ancora sostituite nuove modalità partecipative adeguate alle sollecitazioni sociali che nella partecipazione indicano un valore politico e culturale irrinunciabile.
In questo stato di relativa anomia ma ancor più in un contesto sociale decisamente eterogeneo quanto a valori di fondo, il servizio militare obbligatorio presenta tutte le “carte in regola” per provocare, oggi più di ieri, malessere e frustrazione tra i coscritti:
-La limitazione del sé individuale costituisce una forzata reistituzionalizzazione della vita privata all’interno di un nucleo saldo e pervasivo.
-La limitata libertà di scelta dei rapporti sociali costringe ad una reistituzionaluizzazione dell’amicizia ed è antitetica al concetto di pluriappartenenza.
-La rigida strutturazione delle barriere tra le diverse sfere di vita (riposo, lavoro, divertimento) e delle gerarchie si scontra naturalmente con l’edonismo e il narcisismo imperanti.
-La diffusione di rituali e riti di iniziazione formali e informali ancora molto diffusi nell’esercito, ormai estintisi nella vita civile, possono essere giudicati assurdi atti prevaricatori e come tali riproposti agli ultimi arrivati.
-La comunità militare, essendo fondata sull’altruismo (nel senso di Durkheim di “un vivere per l’altro”) – un altruismo dettato non dal fatto di essere buoni ma funzionale alle mire dell’esercito – è in profondo contrasto con l’orientamento iperindividualistico diffuso tra i giovani.
Se la mentalità post-materialista potrebbe presentare, con l’innalzamento del livello di istruzione, un ricco patrimonio di risorse e capacità, in realtà essa manifesta, con la tendenza a forme di individualismo sempre più accentuate, una riluttanza sia a far parte dell’istituzione, sia, una volta entrati a farne parte su base obbligatoria, a rispettarne fino in fondo le regole.

2.3.2 La nascita di un “fattoide”.
La strategia persuasiva sembra oggi aver recuperato il modello aristotelico che vedeva nella persuasione la sintesi di tre momenti: l’ethos, il logos e il pathos, cioè una fonte, un messaggio e un’emozione pubblica. Capire le emozioni del pubblico diventa il processo base per costruire una comunicazione persuasiva.
Tuttavia, sempre più spesso si assiste ad un percorso persuasivo che va oltre la scenografia comunicativa e nasconde una fondamentale struttura manipolativa che offre all’utente, sia esso un individuo, un gruppo, o una comunità, “pensieri già pensati”.
Il “pensiero già pensato” attiene alla possibilità, ma anche alla necessità di semplificazione che la comunicazione multimediale porta con sé. In proposito Altheide (1976) ha parlato di “notiziabilità” degli eventi per indicare la routine giornalistica che consiste nel “lavorare” sugli eventi di cronaca, rassemblandoli, dando valutazioni semplici e dirette sui loro rapporti, in maniera da intrattenere i lettori. Se poi si tratta di un tema a “soglia bassa” , strettamente legato alle preoccupazioni di tutti e che si impone quindi con facilità nell’agenda giornalistica e del pubblico – e il “nonnismo” è uno di questi – il risultato, a livello cognitivo più che persuasivo (poiché si agisce in questo caso su predisposizioni latenti) è assicurato.
Il termine fattoide è stato coniato nel 1973 dallo scrittore Norman Mailer per riferirsi a “fatti che non avevano esistenza prima di comparire in una rivista o in un giornale”. Naturalmente i fattoidi possono essere rappresentati da pettegolezzi, leggende metropolitane e quant’altro di falso o indimostrabile sia entrato nel pensiero e nell’immaginario collettivo non necessariamente anche se prevalentemente attraverso i media.
Il fattoide necessita, per sopravvivere, di alcune probabili collusioni; infatti nel momento in cui venisse realmente verificato, si supererebbe la sua dimensione simbolica ed esso non risponderebbe più a bisogni sociali, come denigrare un gruppo o supportare le presunte qualità di un altro, costruire precisi pregiudizi su altri o su noi stessi, in poche parole verrebbe meno la sua capacità di costruire la realtà sociale. Grazie ai fattoidi una comunità concorda su precisi codici di significazione e li applica.
Così come si è configurato attraverso i media, il nonnismo può certamente essere classificato un fattoide. Questo non significa pretendere l’abiura da parte di chi sia stato vittima o testimone di aggressioni o violenze in caserma, semplicemente si sottolinea come i fatti documentabili siano solo una minima parte di quelli immaginati e soprattutto che nelle famiglie preesiste uno stereotipo avverso al servizio di leva che “ha bisogno” di dipingere il nonnismo come fonte di pericolo e di rischio.
Il nonnismo diviene di conseguenza strumento di battaglia politica, veicolato e utilizzato per rafforzare le paure genitoriali e adolescenziali sulla fine delle certezze familiari. Pur non sottovalutando le forme di violenza che in un contesto “chiuso” si possono determinare, è evidente la collusione fra il bisogno che il fenomeno esista e l’esistenza dello stesso, in una sorta di “profezia che si autoadempie” . L’opinione che negli anni si è consolidata circa la brutalità e il fanatismo dei paracadutisti militari non ha fatto altro che alimentare lo stereotipo “rambistico” del parà “massiccio e incazzato”, con buona pace di chi nella Folgore ha vissuto in prima persona (del resto ci racconta Rochat come gli stessi Arditi, dei quali i paracadutisti sono, almeno idealmente, diretti discendenti, non si opponessero ed anzi alimentassero la già consolidata memorialistica che li voleva reclutati tra feroci delinquenti).
A queste affermazioni si potrebbe replicare dicendo che se realmente il nonnismo nelle caserme non esistesse, almeno nelle forme descritte dai media, sarebbero i lettori uomini e militeassolti a confutare le notizie a riguardo; due elementi fanno sì che ciò non accada: il “qualunquismo” innanzitutto, ma anche la ghettizzazione dell’opinione pubblica attuata attraverso un effetto cognitivo noto nel campo della comunicazione politica: “la spirale del silenzio”, attraverso la quale i media convincerebbero il pubblico che gli atteggiamenti e le opinioni di cui parlano sono più importanti e diffusi di quelli che vengono taciuti, con il risultato che gli utenti, pur mantenendo le proprie opinioni, si autocensurano, pensando che il loro sia un punto di vista poco significativo e che, esponendolo, rischiano di essere socialmente disapprovati.

2.4 Il ruolo della scuola.
Paolo Segatti ha fatto affiorare un’anomalia tutta italiana e, rifacendosi proprio agli studi di Inglehart, ha addebitato parte della responsabilità per una predisposizione tendenzialmente negativa dei giovani nei confronti della leva, ad un’altra istituzione pubblica del nostro paese: la scuola, già passata sotto le “forche caudine” della contestazione e da esse in parte riformata.
Segatti esordisce sottolineando proprio come siano state la scuola e l’esercito le grandi istituzioni dello stato che più hanno contribuito a nazionalizzare le masse: “Anzi, la cartolina di precetto in molti paesi è arrivata prima dell’obbligo scolastico di massa e dell’allargamento del suffragio.” Ad oggi, però, l’esperienza scolastica dei giovani sembra giocare contro sia alla diffusione della disponibilità al servizio militare sia a quella del sentimento nazionale. A supporto di questa ipotesi Segatti utilizza i dati forniti dalle indagini Iard compiute nel 1983-87-89 per tracciare l’identità sociale “tipo” del giovane che ha dichiarato che il servizio militare è un dovere: giovanissimo (tra i 15 e i 17 anni), risiede in una regione del Sud o delle Isole, suo padre ha un titolo di studio particolarmente basso. L’identikit del giovane convinto che fare il militare sia solo una perdita di tempo è speculare al primo: maggiorenne, residente quasi sempre al Nord-Est, ha un padre diplomato o laureato.
Per sfuggire ad un’interpretazione troppo semplicistica si sono presi in considerazione i dati emersi da indagini condotte a livello europeo (Eurobarometro, 1990). Da un punto di vista politico-strategico si scopre che tra i paesi con il più alto numero di giovani disponibili a difendere la loro patria sono anche quelli coinvolti in conflitti durante questo dopoguerra (nell’ordine Portogallo, Grecia, Gran Bretagna).
Sotto l’aspetto ideologico emerge una certa corrispondenza tra il numero di giovani europei che si collocano al centro o a destra e quello dei giovani disponibili a difendere la patria; il che si spiega con la maggiore importanza attribuita alla conservazione dei valori tradizionali e al mantenimento della legge e dell’ordine tipica di quest’area politica. Se l’area di destra rappresenta in una certa misura il deposito naturale di valori connessi con la sensibilità al tema della difesa della patria, osservando i dati italiani si riscontra che l’essere di centro o di destra costituisce una discriminante molto più debole rispetto a quanto lo sia negli altri paesi europei, nel far aumentare il valore “difesa della patria”. Non solo, in Italia la disponibilità a difendere il paese è disancorata da più ampie costellazioni di variabili valoriali quali il definirsi conservatori, credenti, credenti praticanti; le medesime, in Francia, Germania, Spagna risultano a questa predisposizione direttamente proporzionali.
A riprova della peculiarità della situazione italiana, anche incrociando la variabile “sentimento di fierezza nazionale” e “disponibilità a difendere la patria”, l’Italia risulta l’unico paese in cui non emerge nessuna relazione tra i due sentimenti, pur risultando cospicua la quota di giovani dichiaratisi molto o abbastanza fieri di essere italiani (Eurobarometro,1983).
Segatti conclude così la sua analisi: “C’è un solo punto, dunque, che accomuna i giovani italiani ai loro coetanei europei: i più istruiti si sentono meno corresponsabili nella difesa in armi della patria (…). In Italia, come nel resto d’Europa, la scuola risulta oggi un fattore che non solo non incoraggia, ma addirittura scoraggia l’acquisizione di una sensibilità all’interesse nazionale”. Si tratta di un rilievo empirico che non può sorprendere, scrive Segatti, data la sistematica assenza di questa dimensione dai programmi ufficiali e dai libri di testo dell’ultimo anno della scuola superiore.

Conclusioni.
Pare evidente che in un contesto simile, l’enclave rappresentata da chi sceglie, per svariati motivi ma pur sempre volontariamente, di prestare servizio nei paracadutisti, possa suscitare qualche diffidenza. Il problema sorge quando questa diffidenza si trasforma in ostracismo e alla volontà di comprendere si sostituisce l’attacco indiscriminato.
Non è accusando i paracadutisti di essere fascisti, guerrafondai, esaltati e violenti che ci si mette “la coscienza a posto” e si legittima la propria posizione di cittadino italiano nei confronti di un servizio di leva obbligatorio percepito, forse a ragione, come inutile perdita di tempo.

3.
Cenni storici sulla Brigata Folgore.

Parlando di paracadutismo militare italiano è opportuno riportare, almeno a grandi linee, le vicende storiche che l’hanno caratterizzato dalla nascita ai giorni nostri.
La breve ricostruzione storica che segue approfondisce soprattutto quegli aspetti su cui la pubblicistica ha spesso glissato .

I primi paracadutisti dell’Esercito Italiano hanno fatto la loro comparsa nel Marzo del 1938 con la denominazione di “Fanti dell’aria”. La scuola di paracadutismo fu allestita in un aeroporto nelle vicinanze di Tripoli, in Libia, dove ottennero il brevetto non solo soldati e ufficiali italiani, ma anche elementi locali inquadrati nel nostro esercito. Si lavorava su terreno vergine, bisognava continuamente inventare, l’addestramento era molto difficile ed oltretutto la diffidenza innata per l’aereo non era cosa che si potesse superare con facilità
La scuola impiantata in territorio libico aveva carattere sperimentale in vista della costruzione di un campo di addestramento anche in Italia. Le prime prove furono compiute con apparecchi S/81 piuttosto inadatti; ci furono 15 morti e 72 feriti. Comunque si continuò, fin quando il 23 Maggio del ’40 si costituì a Barce il primo battaglione di paracadutisti nazionali. Fu posta maggior cura alla parte più spiccatamente tecnica impiegando gli aerei “SM/75” opportunamente modificati e sostituendo il paracadute “Salvator D/37” con l’ “I/40” che aveva una calotta maggiore e consentiva quindi una velocità di discesa inferiore. Nel frattempo era stata fondata a Tarquinia (Viterbo), alla vigilia del secondo conflitto mondiale, il 15 Ottobre 1939, la Scuola Paracadutisti della Regia Aeronautica.
Con l’afflusso a Tarquinia dei nuovi volontari, si costituirono altri reparti, tanto che il 1° aprile 1941 nacque ufficialmente il 1° Reggimento Paracadutisti. Tra i volontari vi erano giovani provenienti da ogni specialità delle Forze Armate (particolarmente dagli alpini) e un’anomala sovrarappresentazione, stile Ancient Regime, della nobiltà italiana: i fratelli Costantino e Marescotti Ruspoli di Poggio Susa, il Duca di Grazzano Guido Visconti di Modrone, Francesco Vagliasindi della Torre di Randazzo, Paolo Emilio Marenco di Portula, Alberto Bechi Luserna, per citarne alcuni.
Le difficoltà organizzative furono enormi, c’era un solo campo d’aviazione, alcune baracche e nient’altro. In fretta e furia sorsero baraccamenti, tende giganti, mentre dalla Piazza d’Armi di Villa Gloria a Roma fu rimediata una torre metallica alta oltre 50 metri che venne rimontata sul campo di Tarquinia.
In questa sede presero il brevetto anche gli uomini del 1° battaglione Carabinieri Paracadutisti. Pochi giorni dopo si preparava già il primo lancio di guerra dei paracadutisti italiani.
I prescelti per l’impresa furono gli uomini del 2° Battaglione “Tarquinia” che, nella notte tra il 27 ed il 28 aprile, in assetto di guerra abbandonarono il Lazio per raggiungere in treno, l’aeroporto della Puglia. Il 30 Aprile ebbe inizio l’imbarco e, subito dopo, il decollo dei “Savoia Marchetti 82” verso Cefalonia, una delle tante isole dell’arcipelago greco, importantissima posizione per il controllo strategico del Canale d’Otranto. Nel giro di tre giorni l’intero arcipelago era nelle mani del 2° Battaglione.
Questo fu il battesimo del paracadutismo italiano. L’impresa doveva rimanere isolata e nessun reparto conobbe l’ebbrezza del lancio di guerra nel corso della prima parte del 2° conflitto mondiale.
A Tarquinia intanto, l’addestramento e la costituzione di nuovi battaglioni continuava e tra l’estate del 1941 e la primavera del 1942 ne furono formati sette, denominati con numerazione progressiva.
Traendo spunto da una lettera inviata al Ten. Col. Bechi Luserna da un frate che salutava il comandante del 4° Battaglione con la frase “ex alto fulgor”, la Divisione venne ribattezzata “Folgore” e la frase latina, tradotta, divenne il motto ufficiale “come folgore dal cielo!”.
Nel luglio 1942, tutti i reparti della Divisione vennero trasferiti in Puglia dove iniziarono uno speciale addestramento in vista del progettato aviolancio sull’isola di Malta. Con la caduta di Tobruck, le operazioni subirono un contrordine e la tanto studiata azione su Malta venne abbandonata e per sopravvenute nuove esigenze operative la Divisione venne destinata ad altro compito: Africa Settentrionale.
Quando quasi tutta la Divisione ebbe raggiunto la nuova zona di operazioni, si effettuò un riordinamento organico dei reparti, per cui scomparivano il 1° ed il 2° Reggimento Fanteria Paracadutisti e si costituivano il 186°, il 187° Reggimento Fanteria Paracadutisti ed il 185° Reggimento Artiglieria Paracadutisti. I “parà” furono concentrati a El Daba e per ragioni di segretezza dovettero rinunciare alla mostrina del brevetto sulla divisa e a tutto quanto concerneva la loro specialità.
L’ordine di raggiungere la linea del fronte per schierarsi ad El Alamein, nel tratto più pericoloso dell’intero schieramento delle forze italo-tedesche, infranse ogni sogno di aviolancio. Abbandonati i loro paracadute (li ritroveranno sabotati), i “ragazzi della Folgore” raggiunsero, nell’Agosto del 1942, le posizioni assegnate. Il reggimento di artiglieria era equipaggiato da pezzi da 47/32 anticarro e mitra Beretta, un armamento che teoricamente poteva garantire il successo delle azioni di aviolancio, ma poco adatto a fornire un adeguato supporto di fuoco in una guerra di trincea.
Fra le sabbie del deserto iniziò, il 23 Ottobre 1942, la battaglia di El Alamein.
I paracadutisti trasformatisi da “aquile del cielo” in “volpi del deserto”, si infossarono nella sabbia e, contro un nemico numericamente e qualitativamente superiore, che alternava attacchi di fanteria con ondate di mezzi corazzati, si immolarono in centinaia.
All’alba del 6 Novembre, ogni resistenza risultava vana. Dell’intera Divisione i superstiti furono solo 32 ufficiali e 272 tra sottufficiali e paracadutisti. Nessuno aveva alzato le braccia in segno di resa prima di aver reso inutilizzabili le proprie armi e gli inglesi resero l’onore delle armi, mentre Radio Londra, nella cronaca di un discorso alla Camera dei Comuni attribuito al primo ministro W. Churcill, trasmetteva: “dobbiamo inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore”.
Per i fatti d’arme di El Alamein venne conferita alle bandiere di tutti i Reggimenti della Folgore la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
La Divisione Folgore, quello che di essa rimaneva, venne sciolta il 23 Novembre 1942. Per far fronte alle esigenze della guerra, verso la fine del 1942 venne istituita a Viterbo un’altra scuola che vide la formazione del 10° Reggimento Arditi e della Divisione Nembo. Ma il clima era cambiato, ben più incerto rispetto ai pur non lontani sogni di partecipazione diretta alla vittoria che avevano caratterizzato gli uomini della “Folgore”. La qualità stessa del volontariato non poteva essere assimilata alla precedente: le classi più giovani, prive di esperienza bellica e infiammate dagli esempi esaltanti e tragici della prima divisione, trovarono accentuate difficoltà di amalgama all’interno dei reparti nei quali vennero a mancare figure dal carisma paragonabile a quello di alcuni ufficiali della Folgore. I centri smisero di funzionare con l’8 Settembre e i paracadutisti italiani subirono al proprio interno drastiche fratture, recepite fra i reparti come il frutto accidentale di una situazione complessivamente incerta e confusa vissuta in un bilico che trovava soluzioni spesso casuali.
Esemplare di questo clima fu la tragica uccisione, il 10 Settembre, del Capo di Stato Maggiore della Nembo, tenente colonnello Bechi Luserna, comandante in Africa Settentrionale e rimpatriato prima della battaglia di El Alamein per guidare la Divisione Nembo. A sparargli pare sia stato un carabiniere che, vedendo degenerare pericolosamente la discussione tra il Bechi, giunto in Sardegna per convincere il maggiore Rizzati ad obbedire ai voleri armistiziali e il capitano Alvino (alle dipendenze di Rizzati), prese le parti di ques’ultimo. Gli uomini di Rizzati, assieme a quelli del capitano Sala (un centinaio), con il rifiuto della resa e della fedeltà ai patti suggellarono, attraverso un astratto richiamo all’onore militare, la continuità ideale con la guerra sino ad allora combattuta e la reiterata affermazione del suo carattere nazionale. Confluirono tutti nel tragico crogiuolo di Salò.
I paracadutisti italiani diedero un contributo non indifferente alla guerra di liberazione con la partecipazione diretta e con una funzione di punta nel dispositivo del C.I.L., all’offensiva alleata del Giugno-Agosto 1944.
Tale impegno rappresentò per il reparto una positiva uscita dall’inattività e da un lungo periodo di incertezza. Tra le imprese più importanti ricordiamo le battaglie di Abbadia di Fiastra (Giugno 1944), Filottrano (Luglio 1944) e la partecipazione all’operazione Herring, con il lancio sulle forze tedesche nella zona di Poggio Rusco, la notte del 20 Aprile 1945.
Le clausole del trattato di pace furono drasticamente limitative riguardo le Forze Armate Italiane; tra le imposizioni dettate vi era il divieto di costituire ed addestrare unità di paracadutisti, proprio alla luce dell’importanza che la nascente specialità aveva dimostrato nel corso del conflitto mondiale
Nel 1946 fu attivato a Roma un Centro di Esperienze per il Paracadutismo militare, composto da ufficiali e sottufficiali istruttori già appartenenti al reggimento Nembo e utilizzando vecchi materiali di lancio ed aerei “SM/82” sfuggiti alla demolizione, grazie alla cessione al Sovrano Militare Ordine di Malta, con le cui insegne volavano. Fu così possibile far riprendere i cicli addestrativi di lancio ad ex militari ed anche ad un certo numero di civili. Nel 1949, grazie alla costituzione di una unità sperimentale a livello di compagnia, che inquadrava anche personale di leva, il Centro lasciò la sede romana per portarsi a Viterbo.
Nel contempo, mutata la situazione internazionale ed apertosi il periodo della “guerra fredda” tra le potenze occidentali e i paesi del blocco sovietico, vennero ad attenuarsi le limitazioni imposte dal Trattato di Pace, mentre l’ingresso dell’Italia nella N.A.T.O. ne sancì la definitiva caduta.
L’attività del Centro poté allora proseguire senza soste: le compagnie paracadutisti divennero due e nel 1952 diedero vita al Battaglione paracadutisti. Furono successivamente costituiti un reparto carabinieri paracadutisti, un reparto sabotatori e cinque plotoni alpini paracadutisti destinati ad altrettante Brigate. Contemporaneamente veniva migliorato il materiale di lancio con l’adozione del paracadute “C.M.P./53” (che finalmente prevedeva anche il paracadute ausiliario) e gli aerei “Savoia Marchetti” furono sostituiti dai più moderni “Fairchild C/119G” (“vagoni volanti” nella dizione italiana) ceduti dagli Stati Uniti in conto MDAP (Mutual Assistance Program).
A partire dal 1957 fu ampliato il contingente di leva destinato a ricevere il brevetto e il battaglione operativo venne ampliato quanto ad organici, trasformandosi nel primo gruppo tattico paracadutisti.
A seguito di questi ampliamenti i paracadutisti lasceranno la sede di Viterbo per raggiungere quelle di Pisa e Livorno. Contemporaneamente, a tutti gli effettivi, fu concessa l’autorizzazione a portare, al posto del basco cachi precedentemente in uso, quello grigioverde (già della Nembo) quale riconoscimento simbolico della specialità.
Il 1 gennaio 1963, il vecchio Centro si trasformò, dando vita alla Brigata Paracadutisti (di fatto era una unità scelta di fanteria leggera, dato che le capacità nazionali di aviolancio erano limitate al livello gruppo tattico di compagnia) di stanza a Livorno, ed alla Scuola Militare di Paracadutismo di stanza a Pisa. Due battaglioni di paracadutisti (2° “Tarquinia” e 5° “El Alamein”), insieme a due BTG. professionali di forza ridotta (9° “d’assalto”, poi “incursori Col Moschin” e 1° carabinieri “Tuscania”, poi includente il Gruppo interventi speciali del GIS) entrarono a far parte delle forze speciali italiane.
Il 10 giugno 1967, la Brigata Paracadutisti riassunse l’antica denominazione ”Folgore” e ai suoi effettivi fu assegnato il basco amaranto, seguendo una tradizione comune a quasi tutti i paesi del mondo, che vuole le truppe d’élite dotate di baschi dai colori immediatamente identificabili. Si completava così la rinascita della specialità che, dopo El Alamein, si era identificata con quel nome leggendario al quale i paracadutisti militari avevano sempre fatto riferimento. Proseguì anche l’ammodernamento dei mezzi e dei materiali in dotazione, con la progressiva sostituzione degli aerei “C/119” da parte dei più moderni e capaci “C/130 Hercules” e dei “G/222” di progettazione italiana, oltre che con l’adozione di elicotteri di vario tipo.
Il 9 Novembre del 1971 la Brigata venne funestata dalla tragedia della Meloria, nella quale un “C/130K” della Royal Air Force si inabissò con a bordo 46 paracadutisti italiani partiti per effettuare un aviolancio in Sardegna.
Dal Settembre 1982 al Febbraio 1984 gli uomini della Folgore (gli incursori del “Col Moschin”, i carabinieri del “Tuscania”, il 2° “Tarquinia” e il 5° “El Alamein”) hanno preso parte alla missione in Libano del contingente ITALCON. Numerose sono anche le operazioni umanitarie alle quali la Brigata ha partecipato negli ultimi vent’anni.
Il 1° Gennaio 1986 la “Folgore”, unitamente alla Brigata “Friuli” ed a reparti di volo dell’Aviazione Leggera dell’Esercito, entra nella Forza di Intervento Rapido (FIR), unità interforze costituita per intervenire con immediatezza contro minacce interessanti l’intero territorio nazionale.
Nel 1991, tre reggimenti della Folgore (186° Tarquinia, 187° El Alamein, 185° Artiglieria Viterbo) sono andati ad incrementare la componente di leva della FIR. Dal Maggio al Luglio dello stesso anno la Folgore ha partecipato all’operazione “Provide Comfort” in Kurdistan.
Dal Gennaio al Settembre 1993 la Folgore ha fatto parte del contingente IBIS in Somalia, affrontando una delle missioni più impegnative e discusse dell’ultimo decennio. Risale al 1997, poco prima dello scoppio dello scandalo Somalia, l’ultima missione all’estero che ha visto la partecipazione di personale di leva. Con il congedo, in Maggio del 2001, dell’ultimo contingente di leva, la Folgore ha chiuso i battenti alla coscrizione volontaria di leva.

4.
Cultura tradizionale, psiche e storia dei paracadutisti italiani.

Ambiente destrorso, duri addestramenti, disciplina ferrea e “nonni” terribilmente violenti; questo è il viatico di conoscenze sulla Folgore che si ha al momento di partire per il servizio militare nei paracadutisti.
Per la comprensione del fenomeno in oggetto occorre innanzitutto sfatare alcuni dei preconcetti entrati a far parte del senso comune a causa dei media, dei parà stessi, ma soprattutto della carenza di “osservazione empirica”.
Certamente la profezia si è in qualche maniera auto avverata e attraverso i ranghi della Folgore, e proprio a causa di una pubblicistica faziosa e soprattutto di molta ignoranza, sia tra la truppa e i sottufficiali che tra gli ufficiali, qualche “testa calda”, per la soddisfazione dei giornalisti nostrani, ci è sicuramente passata.

4.1 Testi scientifici e memorialistica.
Per parlare in modo obiettivo della Folgore è necessario conoscerne la storia sociale, i miti e le leggende che hanno accompagnato la nascita del paracadutismo militare in Italia e i motivi che hanno spinto generazioni di giovani, in condizioni storiche, politiche e sociali molto differenti, a prestare servizio volontario nei paracadutisti.
Che il paracadutismo militare sia diretto discendente dell’arditismo della Grande Guerra lo si evince dai più o meno espliciti richiami ad una comune tradizione combattentistica ma anche da alcune specifiche caratteristiche organizzative: l’arruolamento volontario, il soprassoldo, la foggia della divisa differente, lo stemma (il gladio e l’alloro, simbolo dei reparti arditi, poi sovrastato dal paracadute in quelli paracadutisti). Ma anche i destini postbellici dei due corpi hanno molte cose in comune: entrambi furono subitaneamente politicizzati e strumentalizzati dal regime fascista nel momento dell’ascesa e in quello del declino, entrambi suscitarono nell’opinione pubblica un’ammirata diffidenza dando vita ad una vasta quanto poco affidabile memorialistica.
Due sono le opere di valore storico e scientifico indiscutibile che si sono occupate di ricostruire il passato controverso di questi due corpi di combattenti volontari: Gli arditi della Grande Guerra di Giorgio Rochat e I paracadutisti italiani di Marco Di Giovanni. Per quanto riguarda invece la memorialistica, Ritorno a El Alamein, il diario del reduce Battista G. Trovero , canavesano e studioso di storia e tradizioni culturali del Piemonte, narrato senza prolissità ed eccessi, costituisce un raro esempio di obiettività e modestia.
Non è qui mio compito né mia intenzione tracciare un quadro completo della storia di questi reparti, ai nostri fini sarà sufficiente trattare quegli aspetti che costituiscono la loro storia sociale e politica in modo da superare pregiudizi e preconcetti che anni di pubblicistica pseudoscientifica, assieme alla cronaca e al senso comune, hanno creato attorno a questo tema.

4.2 Gli effetti collaterali della “psy war” e la diffidenza per chi sfida il pericolo.
Come testimoniano Edward Shils e Morris Janowitz, proprio durante il secondo conflitto mondiale si sperimentò l’utilizzo della “guerra psicologica” che consisteva nella creazione di un forte pregiudizio nei confronti del nemico, descritto come feroce e spietato nei confronti dei prigionieri. Questo meccanismo, il cui funzionamento non era evidentemente ben chiaro nemmeno agli ideatori (se da una parte poteva forse aumentare l’efficienza in battaglia per la paura di essere catturati, dall’altra poteva infondere sicurezza e scaltrezza in chi ne era oggetto) ben si confaceva a propagandare la nuova specialità. Si rivelò tuttavia un’arma a doppio taglio particolarmente dannosa per il consenso interno, molto importante per i combattenti. Significativi questi due passaggi dal diario di Trovero:

Le ronde dei militari in Roma, alla stazione termini e sui treni sembrano evitare i paracadutisti come la peste. Eppure siamo dei bravi ragazzi, al massimo un pò turbolenti. Ho l’impressione che la gente racconti più cose di quanto in realtà riusciamo a combinare.

E ancora:

A Porta Nuova mi sistemo all’ultimo momento in uno scompartimento di terza classe occupato da due donne, sicuramente madre e figlia. Bella la giovane ragazza.
Due statue sono sedute di fronte a me, immobili: respirano appena. Forse si sentono male. Chiedo gentilmente se hanno bisogno di qualche cosa. Nessuna risposta. Saranno mute, penso. Possibile! Tutte due? Il loro sguardo è fisso su di me. Avrò qualche macchia sulla divisa?!
A Porta Susa madre e figlia si alzano di scatto, impugnano valige e pacchi ed escono dallo scompartimento come se avessero il fuoco al sedere. Avrebbero potuto prendere il tram, facevano prima!
Non sono scese. Le ritrovo per caso sedute in uno scompartimento pieno di fumo, occupato da un gruppo di alpini che canta a squarciagola. Ed io mi sono spostato per sentirli e vedere se conosco qualcuno. Le due donne hanno l’aria tranquilla, completamente a loro agio, chiacchierano come se niente fosse!
(…) corre proprio voce – mi hanno detto anche a Caravino – che i paracadutisti, me escluso naturalmente, sono tutti matti da legare o avanzi di galera con nulla più da perdere. Diversamente, come potrebbero buttarsi da un aereo in volo con tanta facilità!
Ma come la letteratura sociologica testimonia, il sospetto e la diffidenza per chi svolge volontariamente un lavoro pericoloso, non è diffusa soltanto nell’esercito, ma anche tra i civili.
Dal resoconto di Gouldner in “Modelli di burocrazia aziendale” si evince come l’atteggiamento degli operai di superficie nei confronti dei minatori rasenti quello dei civili o comunque degli altri militari nei confronti dei paracadutisti:

Il fatto che molti operai di superficie parlassero meravigliati dei minatori come di “gente strana” rivela il carattere alquanto differente della miniera rispetto al moderno folklore industriale. Gli operai avvertivano che la devianza dei minatori superava il normale livello di conformismo cui essi erano abituati.

Erano in modo particolare i valori e l’approccio alla vita dei minatori a sconcertare gli operai:

Gli atteggiamenti degli operai di superficie nei confronti dei minatori erano spesso molto passionali. Si può sospettare che la loro posizione violentemente critica derivasse in parte dall’invidia. Il minatore si ubriacava, giocava, rubava – “ruberebbe gli occhi a un morto” – frequentava le prostitute in modo vergognoso, secondo lo stereotipo della superficie; oltre a ciò i minatori sembravano costituire una confraternita i cui peccati erano forse resi più attraenti dal fatto di essere commessi con una indeflettibile solidarietà.
In breve, si pensava che i minatori potessero soddisfare tutti quei desideri che gli operai di superficie dovevano rigidamente evitare perché contrastanti con i valori della classe media, cioè la sicurezza, il successo competitivo e la rispettabilità.

Quanto detto pare sufficiente a dimostrare come certi pregiudizi abbiano radici lontane in senso temporale ma siano anche ancestralmente radicati nell’animo umano, il quale stenta a concepire tutto quanto si presenti non strettamente correlato con l’istinto di autoconservazione.

4.3 L’arditismo.
In “Stato e libertà” Franco Livorsi evidenzia l’importanza che il combattentismo volontario ha avuto per la nascita del fascismo.
Il cameratismo è il tratto fondamentale del movimento nascente: il camerata sostituisce il compagno, la battaglia lo sciopero generale, il potere dei combattenti quello dei proletari, il mito della guerra quello della rivoluzione.
In questo contesto, l’arditismo, pur non essendo di per sé fascista, diventa un modello primario e la guerra è vista come esperienza centrale della vita, prima che come mezzo estremo per un fine.
Scrive Mussolini in “Dottrina del fascismo”(1932):

Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a se stesso, nell’alternativa della vita o della morte.

Pienamente rispondente a quest’ottica il ritratto che degli arditi fa Mario Carli e riportato da Rochat :

il nostro organismo militare tendeva soprattutto a separare nettamente la massa combattente in due categorie: quella che aveva più l’attitudine per l’attacco; e quella che meglio si adattava alla resistenza. Da una parte i più giovani, gli spensierati, gli scapigliati, gli spregiudicati, gli irrequieti, i violenti, gli scontenti, i superatori, i passionali, i frenetici e gli sfrenati, i ginnasti e gli sportmen, i mistici e gli sfottitori, gli avanguardisti di ogni campo della vita, i futuristi di cervello o di cuore o di muscoli. Dall’altra gli anziani, i padri di famiglia, i lenti, i pesanti, i passivi, gli sfiduciati, i pigri, magari in gran parte buoni soldati, ma più adatti all’obbedienza che all’iniziativa, più fermi al loro posto che impazienti di scattare, ottimi puntelli per le trincee, ma poco idonei allo sbalzo in avanti.

4.4 Il paracadutismo militare italiano.
La pubblicistica reducistica e commerciale sull’argomento è vasta ma sino ad oggi l’unica ricostruzione storico-scientifica sulla nascita e le traversie della specialità sino al 1945, è quella fatta dal giovane storico livornese Marco Di Giovanni nel suo libro pubblicato nel 1991 e intitolato I paracadutisti italiani. Nella prefazione, Giorgio Rochat, tocca subito un tasto importante ai fini della presente ricerca:

(…), credo che le guerre di massa, decise dal confronto di milioni di uomini e dalla capacità di produzione industriale in serie di armamenti e rifornimenti, abbiano bisogno di corpi di élite composti da volontari superaddestrati, con un duplice compito militare e politico propagandistico: compiere azioni delimitate di particolare rischio e difficoltà e presentare il tipo ideale del combattente convinto ed efficace, in contrapposizione più o meno palese al soldato di massa, più obbediente che entusiasta, più grigio che brillante. Arditi, paracadutisti, rangers, commandos, su scala maggiore i marines, tutta una vasta gamma di altri corpi speciali hanno questo duplice compito, ovviamente con accentuazioni diverse a seconda dei paesi e delle situazioni.
I giovani volontari, soldati, sottufficiali e ufficiali, che affluivano al centro di Tarquinia non erano mossi da istanze politiche: li attiravano il fascino di una specialità nuova e rischiosa, il desiderio di fare la guerra bene, i piccoli privilegi materiali e morali rispetto alla grigia fanteria. Va infatti sottolineato che a Tarquinia non si imparava soltanto a saltare col paracadute, ma si riceveva anche un addestramento al combattimento molto più efficace di quello concesso alla massa dei soldati. Un privilegio pagato duramente, con il corrispettivo di un forte spirito di corpo e di rapporti camerateschi con i superiori.

Cosa spingeva dunque molti giovani a chiedere, in alcuni casi con veemenza l’arruolamento nei neo costituiti reparti paracadutisti?
In consonanza con quanto detto da Rochat, G. B. Trovero:

Che cosa attira questi uomini? Battersi per la Patria in maniera diversa? L’avventura? Il sentirsi dei superuomini? O molto più semplicemente la voglia di tornare in Italia, rivedere i familiari dopo mesi d’Africa, di Grecia, di Albania? Oppure ancora più prosaicamente l’indennità di volo una volta brevettati che è di ben 912 lire mensili?!
Dai discorsi che sento in giro, credo che ci sia un pò di tutti questi ingredienti, secondo una gamma di gusti personali. Ognuno possiede la propria ricetta.
Io per esempio son qui per allontanarmi dal confine francese (il Trovero era vissuto in Francia sino al 1940, quando il padre volle che ritornasse in Italia per seguire le sorti della patria, come aveva fatto lui nel 1915; il giovane era terrorizzato dall’idea di dover combattere contro i francesi, oramai suoi compaesani, e cosi lasciò le truppe alpine, troppo vicine al confine, e giunse a Tarquinia, prima sede italiana della Scuola militare di paracadutismo; ndr).
Tuttavia questa spiegazione non basta. Se voglio essere sincero con me stesso, devo ammettere che mi attira anche l’avventura con la “A” maiuscola, oltre al fatto di sentirmi più in gamba dei comuni mortali. E non mi dispiace neppure poter disporre di quasi mille lire al mese da spendere (come dice la canzone in voga), così, come voglio, senza pensarci su.

La Folgore fu oggetto, nel corso del secondo conflitto mondiale, di strumentalizzazioni che le diedero una connotazione sinistra che nemmeno il tempo avrebbe cancellato. A tale proposito lo stesso Di Giovanni scrive:

La vicenda dei paracadutisti italiani, dalla loro formazione alla travagliata esperienza della seconda guerra mondiale, con le sue fratture interne e le sue interessate leggende, di segno diverso, che ne hanno circondato sino ai giorni nostri storia e identità, la stessa non lineare parabola della loro memoria, è emersa subito ai primi sondaggi come di notevole valore esplicativo.
I reparti paracadutisti infatti avrebbero raccolto ed incarnato le spinte, le motivazioni, i miti di riferimento, le componenti in senso lato culturali insomma, di un segmento significativo, per quanto non omogeneo né, tantomeno, riconducibile tout court al fascismo più oltranzista del “consenso attivo” alla guerra. Essi costituirono e rappresentarono una enclave di entusiasmo e, successivamente, di capacità militari, nell’orizzonte dell’Italia in guerra, recependo al loro interno, e più ancora nell’immagine che caratterizzava la specialità, le suggestioni di un evento che sembrava segnare una svolta epocale (…).
Se l’esperienza della guerra reale, vissuta nel quadro di una impreparazione più generale, avrebbe scontato l’impraticabilità del ruolo scintillante e decisivo che da quei punti ideali di riferimento scaturiva, all’interno della chiusa vita di corpo si sarebbe comunque consolidata una fra le rarissime forme di identità positiva generatesi all’interno della guerra fascista ed una specifica e caratteristica fisionomia tecnico morale. Una identità gelosamente difesa lungo l’intero arco della crisi bellica e destinata a trasmettersi nel dopoguerra (…). Uno fra i rari e perciò significativi miti della guerra fascista sopravvissuti alla sconfitta, immagine assai ricca di implicazioni, soggetta a manipolazioni di segno diverso, destinata comunque a relativa vitalità.

Perché attorno a questi si creò un clima di diffidenza e titubanza generale, come già era avvenuto per gli arditi? Di Giovanni è chiaro anche su questo punto:

L’ambiguità che rivestiva l’immagine degli arditi, quella fama di spensieratezza e ferocia che li aveva circondati, ben si confacevano alle impressioni di violenza che gli italiani potevano trarre dai resoconti della stampa. Proprio l’intreccio tra spettacolarizzazione della guerra ed enfasi sulla dimensione politico-morale del paracadutismo, ponevano del resto in primo piano il valore simbolico del lancio col paracadute. Come ricorda con un certo compiacimento, un ex volontario paracadutista, allora:
“indipendentemente dai temerari compiti di guerra dei quali il lancio non era che il presupposto più semplice e naturale, fare il paracadutista significava essere votato alla morte ed affrontarla praticamente anche per il solo fatto di eseguire un lancio collettivo dall’aereo.
(…). Il lancio finiva per rappresentare, nelle impressioni di un popolo titubante, il disprezzo per la vita portato alle estreme conseguenze del ripudio di sé.

Ed ancora Di Giovanni:

Recupero di una dimensione eroica individuale, libertà dalle regole, spregiudicatezza e decisione, si intrecciano nell’immagine che i numerosi volontari paracadutisti proiettavano dalla tradizione degli arditi sul nuovo corpo.
Accanto al senso di tale continuità, ciò che sembrava caratterizzasse in maniera diffusa l’atteggiamento dei volontari era un’adesione piena e incondizionata ai sogni di potenza alimentati dal regime e la percezione di una sorta di occasione storica per i destini imperiali del paese, in una coincidenza significativa tra destino della nazione e protagonismo personale.
Si trattò di un’identificazione tra corpo nuovo, tradizioni patrie e sogni di potenza che ebbe sicuramente una presa notevole.
Il lancio col paracadute, posto in primo piano, si caricava di valenze simboliche inconsapevoli ma assai forti e durature, sintetizzando nella dimensione della “Prova”, che da tempo caratterizzava l’approccio occidentale alla guerra e alla vita militare in genere, quei valori di virilità, composti allo stesso tempo di timori e desideri, che costituivano ancora elementi rilevanti nei processi di formazione dei giovani.

4.4.1 Paracadutismo e “bisogno di vita eroica”.
Il sociologo bolognese Andrea Pitasi, spiega che “spesso la scelta di arruolarsi in un corpo speciale nasce dalla ricerca di un surrogato di soddisfazione esistenziale. E’ un senso di appartenenza che dà una dimensione di successo. Finita la leva, però, ritornano le frustrazioni” .
L’osservazione del sociologo, formalmente corretta, trova riscontro empirico solo in una minoranza delle testimonianze raccolte nell’ambito della ricerca:
Mi sentivo un rambo col cervello e volevo fare il mercenario. (1992, n°48)
Volevo un addestramento alla fullmetaljacket. (1997, n°73)

Si trascura il fatto che il mettersi alla prova è insito nell’animo umano e non solamente il risultato di frustrazioni.
A riprova di ciò, sono infatti parecchie le testimonianze in cui si fa esplicito riferimento alla dimensione della “prova”:

Il militare lo dovevo fare, lo sentivo un dovere ed era meglio farlo bene, (volevo, ndr.) conoscere i miei limiti, cercando nuove esperienze, penso che quello dei soldi sia proprio stato l’ultimo (dei motivi, ndr.), anche se ovviamente facevano comodo. (1966, n°2)
Avventura, rischio, operatività, fascino. (1969, n°5)
Volevo vedere se riuscivo a lanciarmi, l’attrazione verso un corpo scelto dell’esercito. (1977, n°11)
Passione e volontà di riuscire in qualcosa per pochi. (1977, n°13)
Fare qualcosa di diverso ed unico. (1983, n°18)
Avevo sognato fin da piccolo di lanciarmi dagli aerei. (1985, n°25)
Per provare se ero all’altezza e per fare dei lanci gratis.(1988, n°27)
Cercavo l’avventura, dove il rischio facesse parte della vita di tutti i giorni. (1989, n° 29)
L’esperienza della Folgore ha segnato molto la mia vita, in quanto mi ha fatto fare il balzo da ragazzo a uomo che deve imparare a cavarsela in ogni situazione DA SOLO. (1990, n°35)
Nessun motivo in particolare, volevo solo qualcosa di eccezionale. E’ stato l’episodio che ha sconvolto in senso positivo la mia vita. (1993, n°51)
Tradizione di famiglia e sfida con me stesso. (1997, n°72)
Forse poca fiducia in me stesso, piacere per le armi e la divisa e per rafforzare il mio carattere. Ero convinto che se fossi uscito indenne psicologicamente da lì, sarei stato un uomo con le palle nella vita civile (e ci sono riuscito alla grande). Forse me l’aspettavo più dura di quello che poi ho passato. (1989, n°34)

Particolarmente significativa la testimonianza di questo signore, la cui scelta di arruolarsi nella Folgore, prima dettata da motivi personali, si è poi rivelata fonte di soddisfazione personale:

Inizialmente la voglia di stare vicino alla mia ragazza (attuale moglie), dopo il Car e il Corso palestra mi sono sentito veramente un paracadutista, l’orgoglio che credo sia innato in ognuno di noi, mi ha fatto stare male quando sono stato rimandato alla torre, durante il Corso palestra. Lo stesso orgoglio mi ha fatto sentire molto gratificato quando sono riuscito a lanciarmi. Solo tre mesi prima non sarei andato nei paracadutisti nemmeno per un miliardo, quando poi ci sono andato mi è sembrata una cosa come tante e avere superato ciò che pensavo fosse un mio limite mi ha molto gratificato. Spero un giorno di impegnarmi altrettanto bene per imparare a nuotare e provare la stessa gratificazione nella mia prima traversata in mare, dove non tocco. Mi sono spiegato? Spero di si. (1989, n°31)

Le dinamiche psicologiche che hanno attratto verso il paracadutismo militare (molteplici ma riconducibili alla dimensione archetipica della prova e dell’eroismo ad ogni costo) sono state, sin dalle origini della specialità, strumentalizzate politicamente dalla destra fascista ed in seguito ad essa relegate.
Il dibattito che tra la fine degli anni sessanta e i primi anni ottanta ha coinvolto diversi filosofi riguardo l’esistenza o meno di un legame tra mito ed estrema destra può aiutarci nella comprensione delle motivazioni al volontarismo paracadutista.
Il problema del mito nella cultura della destra tout court nazifascista è trattato da Livorsi in Psiche e storia . Secondo Furio Jesi ciò che coniuga il mito alla destra estrema è il legame con la tradizione, con il passato remoto, con valori ancestrali che al mito sono sempre connessi, per il suo stesso reale o preteso radicarsi nelle profondità naturali della psiche. Nell’estrema destra il mito a tratti si fa necrofilo, nostalgico del morire (naturalmente combattendo). Per questo studioso il nesso tra mito e politica è sempre di destra e il mitizzare è ritenuto un tratto forte dei circoli iniziatici in cui tanti gerarchi nazisti si riconoscevano. E’ sin troppo facile vedere in quanto Furio Jesi ha detto a proposito del mito, la perfetta descrizione dello spirito che presumibilmente animava i volontari paracadutisti, ma è lo stesso Livorsi a metterci in guardia da semplificazioni eccessive.
Zoja, più equilibratamente, ritiene invece che il mitologizzare sia un’attività imprescindibile dell’essere umano. Il bisogno di una vita eroica, non più costruita all’ombra del padre e della madre, ma da individui adulti, previo il superamento di prove rischiose, magari sino al limite della morte, in cerca di una rinascita e di una individualità propria, sarebbe una disposizione profonda nel nostro mondo. Secondo l’autore a suo tempo i fascismi fecero la propria fortuna soddisfacendo, quantomeno illusoriamente, un tal bisogno mistico-eroico. In definitiva Zoja ritiene che questo pensare per miti non appartenga alla destra, ma che alla destra la sinistra lo abbia inopinatamente relegato ; lo studioso pare avvertire il bisogno di una “politicità” aperta da sinistra ai bisogni archetipici cosiddetti irrazionali, numinosi ed eroici. La posizione che traspare in Jesi è invece quella più datata e classica della sinistra, ora peraltro contraddetta da una vasta area intellettuale.
Avallando l’argomentazione più equilibratamente apportata da Zoja si può senz’altro concludere che questo “sogno e minaccia” offerto ai giovani dal paracadutismo è stato un fattore trainante per intere generazioni che hanno voluto mettersi alla prova, per porre un limite, anche soltanto virtuale, alla propria adolescenza. C’è quindi piena consapevolezza del fatto che sottoporsi al rito di iniziazione del lancio significa entrare in un gruppo che attorno alla propria rischiosa attività (o comunemente ritenuta tale) ha sviluppato un folklore ad esso in parte funzionale. Tornando al dato empirico, le testimonianze in cui si fa esplicito riferimento a ideologie politiche sono 7 su un totale di 96 tra questionari (75) e interviste (21):

Desiderio di esperienze forti, credo politico, ero già paracadutista sportivo. (1978, n°14)
Ideologicamente mi sento vicino a certe idee che girano nell’ambiente. (1986, n°26)
Mi sono iscritto all’associazione ex combattenti della 10a M.A.S. Militarmente parlando è stato l’ultimo, unico motivo, per il quale nel mondo, ancora oggi, possiamo andare in giro con la testa alta. (…) Mi auguro che la direzione della tua tesi sia quella giusta. Spero che tu non sia una “testadicomunista” come molti universitari del giorno d’oggi. (1989, n°28)
Sono cresciuto con forte ammirazione verso questo reparto oltre che con ideologia da camerata. (1996, n°61)
Continuità nella tradizione familiare (nonno paterno nella R. S. I., padre ufficiale Arma Carabinieri). (1996, n°64)
Io sono sempre stato di destra e anche la mia famiglia…abbiamo tutti forti sentimenti nazionalistici. (G. M., 1965, intervista del 23-01-01)

4.4.2 Il lancio: funzioni manifeste e funzioni latenti.
Sinonimo di guerra tecnologica d’avanguardia, il paracadutismo militare si è sviluppato in Italia con un certo ritardo (tra i primi a sperimentarlo russi, tedeschi e inglesi), e ha segnato una svolta nel modo di concepire la battaglia: non più una guerra di posizione ma un nucleo d’assalto paracadutato direttamente in territorio nemico. Il lancio dall’apparecchio era il mezzo fondamentale e caratterizzante questa nuova specialità e se ne compresero immediatamente le potenzialità latenti. Si rivelò da subito per molti giovani un’attrattiva ad arruolarsi, uno stimolo rinvigorente per chi era stanco del grigiore della vita militare; rendendo inoltre necessaria una selezione psicologica e fisica minuziosa. “L’esercizio del lancio poteva rappresentare, sul piano militare, una estrema simulazione di quell’aspetto del combattimento che consiste nella capacità di affrontare consapevolmente il rischio, con disciplina e autocontrollo.”
Questo spiega forse perché l’attività aviolancistica sia rimasta in vigore per il personale di leva anche quando non accompagnata da un adeguato corollario addestrativo (per chi ha ricoperto incarichi d’appoggio e comunque sempre più spesso nell’ultimo decennio) per oltre sessant’anni. Si è giunti addirittura all’apparente paradosso del lancio fine a se stesso:

C’era un ragazzo del mio scaglione che era arrabbiatissimo perché era stato impiegato in mensa anche se non aveva fatto studi alberghieri. Alla fine si è congedato con più lanci di tutti noi…il maresciallo per tenerlo buono lo faceva mettere sovente in decollo. (D. F., int. del 01-12-00).

L’illusione, non proprio giustificabile, è forse quella di addestrare comunque un personale che, avendo accettato e superato questa prova (assimilabile ad un rito di passaggio, come evidenziato dall’antropologa Donna Winslow ), una sorta di reality check, ha dimostrato di essere ideologicamente e moralmente idoneo ad un eventuale impiego operativo.
E’ tuttavia probabile che la funzione di “filtro ed attrattiva” del lancio, non scomparendo mai del tutto, si sia dissolta nel corso del tempo: se negli anni quaranta il cielo e le attività “rischiose” erano prerogativa di pochi e blasonati arditi di “dannunziana” memoria, oggi gli sport cosiddetti “estremi” sono alla portata di molti e godono di un parterre di praticanti in continua espansione. Non è infatti difficile constatare nell’atteggiamento di molti militari un orientamento ludico-sportivo alla vita militare proposta dall’esercito, slegato però dall’accettazione di quei valori che la vita militare (la disciplina, la vita di gruppo, la rinuncia a parte delle libertà civili) necessariamente comporta. In poche parole un individualismo narcisistico che mal si confà alle reali esigenze dell’esercito.

4.4.3 Avvenimenti eclatanti.
Particolare rilevanza hanno avuto alcuni avvenimenti saliti alla ribalta della cronaca negli anni:
-la misteriosa “moria di allievi” del 1964 (3 ragazzi morirono improvvisamente nella caserma Gamerra) che fece nascere il sospetto che agli allievi paracadutisti venissero somministrate sostanze eccitanti, insinuazione che costò ad un giornalista un colpo di karatè da parte dell’allora comandante della scuola colonnello Palumbo;
-la celeberrima ”marcia su Pisa”, sempre nel 1964, in risposta all’aggressione di alcuni paracadutisti da parte di giovani pisani e che annovera numerose riedizioni (nel 1973, nel 1981), meno ufficiali, che scossero comunque l’opinione pubblica perché sempre ricondotte a motivazioni politiche;
-lo scandalo Somalia, con le reali e presunte torture ai danni della popolazione locale;
-le polemiche degli anni ‘90 per le morti avvenute durante gli aviolanci.
-ultimo in ordine di tempo il caso Scieri che, non ancora risolto, ha infiammato le cronache nell’estate del 1999.

4.4.4 Racconti e canzoni.
Come rilevato da Little le narrazioni esagerate riguardanti eventi bellici o persone sono diffuse da sempre all’interno delle forze armate. Queste hanno origine in un contesto di sentimenti ambigui nei confronti dell’evento narrato e sono frutto di valutazioni ed elaborazioni da parte di persone a vari livelli di status. Questi racconti, pur non riguardando eventi o personalità ufficialmente ricordati, divengono comunque, pur attraverso un’elaborazione continua, un elemento durevole nei sentimenti dell’unità, sopravvivendo spesso alla presenza effettiva in caserma della persona o dell’usanza oggetto della leggenda. Sia che siano positive o negative, le leggende di status esprimono l’immagine che la truppa sviluppa del proprio ruolo.
Si sono qui raccolte alcune di queste storie, avvalendosi in parte delle testimonianze raccolte tra “ex” ma anche di articoli pubblicati su quotidiani e stampa scandalistica. Poco importa verificarne la veridicità, più importante capirne la funzione.

1) Si narra che quando dal C.A.R. in fanteria si vuole andare nei “parà”, l’accoglienza non è delle migliori. Per prima cosa viene fatto letteralmente mangiare il basco nero. Superata questa prova il più grosso della compagnia ti appoggia il fregio metallico del basco sulla fronte e con il palmo della mano aperto lo preme con il massimo della forza. Il segno rimarrà per almeno un mese.

2) Si racconta che un tempo gli allievi graduati istruttori non andassero in libera uscita per 70 giorni e la notte venissero fatti strisciare con i gomiti nudi sull’asfalto del Piazzale El Alamein.

3) Pare che negli anni ottanta si “andasse a terra” (piegamenti sulle braccia) lanciandosi dagli armadietti ed atterrando ad almeno due metri di distanza.

4) Si dice che le camerate della Compagnia Grifi di Pisa fossero dipinte totalmente di nero e con i vetri oscurati.

5) Corre voce che nella Compagnia Pipistrelli si usasse fare il contrappello inerpicati sulla branda a testa in giù.

Alcuni di questi racconti risultano plausibili, altri decisamente fantasiosi ma il fatto che siano rimasti nella memoria di parecchi indica che una qualche funzione la devono pur avere espletata. L’ipotesi più probabile è quella che siano serviti ad esaltare il prestigio di un reparto in cui sia la disciplina che le cerimonie di accoglienza possono dissuadere gli animi più fragili dall’intraprendere l’avventura, rendendola, nell’immaginario comune, qualcosa per pochi.

6) Alla Scuola di Pisa c’era un Maresciallo che viveva in una baracca del parcheggio automezzi e di lui si diceva:
-che era stato ufficiale, degradato in seguito ad una sfida con un maggiore americano a chi avesse ritardato di più l’apertura del paracadute. Naturalmente vinse l’americano, schiantandosi. Da allora si sarebbe presentato in caserma con la mimetica sbottonata e senza gradi, comunque rispettato e salutato dagli ufficiali.
-che avesse combattuto in Indocina con la legione straniera e che conservasse di quel periodo una foto che lo ritraeva con due teste mozzate nelle mani.
-che assaltasse e disarmasse di notte e a mani nude le guardie.
-che prima di un lancio si fosse affacciato al portellone dell’aereo senza paracadute e avesse orinato su Lucca, dove a suo dire risiedeva la moglie dalla quale era divorziato.
-che fosse padrone del cane chiamato “Poggio Rusco”, mascotte del battaglione. L’animale era zoppo ma regolarmente brevettato con tre lanci regolamentari e ogni mattina, all’alzabandiera, passava in rassegna i reparti schierati e mentre la bandiera saliva sull’asta, sostava in posizione eretta ed assorta ai piedi del pennone.
La figura di questo maresciallo, realmente esistito e ricordato da chiunque sia passato da Pisa tra gli anni settanta e i primi anni novanta, è un pò il simbolo della natura eccentrica dei paracadutisti e della tolleranza, da parte degli ufficiali, per una condotta fuori dagli schemi. Spregiudicatezza, eccentricità, libertà dalle regole, prevalere della competenza sul grado e anche una sorta di gallismo esasperato erano le peculiarità del comportamento che ha caratterizzato gli arditi prima e i paracadutisti poi. La descrizione di Carlo Bonciani in Squadrone F, riportata da Di Giovanni, coglie a pieno questo aspetto:

Vivendo coi suoi vent’anni in un ambiente di “votati alla morte” dove per la fretta di vivere, tutto è portato al parossismo (…) è diventato anche lui (il paracadutista, ndr) un tantino pazzo, leggermente scombinato e gli piace sentirsi tale e soprattutto farsi vedere tale.

7) Gira voce riguardo varie “marce su Pisa”, organizzate dai comandanti della caserma in risposta alle aggressioni ai danni di paracadutisti da parte dei pisani.
Pare in effetti che episodi di intolleranza da parte della popolazione ci siano in effetti state e che a queste sia alcune volte seguita la reazione, più o meno organizzata, dei militari. Significativo di una forte identità, contrapposta anche a quella dei civili, è il fatto che tutti i paracadutisti in congedo conoscano almeno una delle tante versioni di questi avvenimenti.
Uno dei soggetti intervistati, oggi quarantenne, istruttore a Pisa nel 1981-82, è stato protagonista di uno di questi eventi:

Una sera erano rientrati dei ragazzi picchiati da dei pisani; io ero istruttore nella 9a Tigri e con due tenenti abbiamo radunato un gruppetto di dieci persone per andare a pescare gli interessati. Poi qualcuno non ha tenuto la bocca chiusa e in Corso Italia ci siamo trovati in un centinaio. Tafferugli e botte da orbi, poi è arrivata la polizia e ci ha scortato in caserma. Ci hanno imposto tre giorni di coprifuoco e fuori dalla caserma qualcuno era venuto a danneggiare macchine e a fare scritte sui muri con le bombolette. Nel frattempo un mio commilitone comunista convinto di Torino aveva fatto il mio nome con dei giornalisti e mi sono beccato una denuncia da parte di quelli di Democrazia Proletaria. La prima sera che hanno dato la libera uscita ci sono stati altri problemi e a quel punto il nostro capitano di compagnia ci è venuto a cercare: “Tutti fuori!” ma poi il picchetto in carraia ci ha impedito di uscire su ordine del Comandante della Scuola. Su vari giornali c’era il mio nome e la mia foto (ho ancora tutti i ritagli) e il Comandante mi chiama nel suo ufficio. Su di un solo giornale il mio nome era sbagliato e lui aveva proprio quello, mi fa: “Lei è P. R.?” “Signorsì” e lui: “Bene, qui c’è scritto P. B., vada pure!”
Poi per sicurezza mi hanno mandato in propaganda, volevano mandarmi addirittura a Torino (quasi un premio) ma non c’era posto e così mi hanno detto di scegliere tra Brescia e Catanzaro e io, matto com’ero ho scelto Catanzaro. Si stava bene, ero sul mare, ma nemmeno un mese e mi han fatto tornare su.

Come si noterà la storia si presenta già di per sé abbastanza significativa e non pare esserci alcuna necessità di “ricamarla”, come è stato fatto, chiamando in causa complotti tra generali o istanze politiche reazionarie.

Medesimo il discorso per le canzoni. Alcune di provenienza ministeriale, altre opera di volontari, vennero accolte con entusiasmo dai volontari già nei primi anni ‘40, un fenomeno raro nell’esercito italiano della seconda guerra mondiale. Le meno “pulite” vengono ufficiosamente inventate e tramandate con una certa continuità soltanto dalla truppa.

“Se non ci conoscete guardateci dall’alto…
noi siamo i paraca del battaglion d’assalto!
RIT.: Bombe a man e saette col pugnal,
Bo-Bo-Bombe a man e saette col pugnal
Se non ci conoscete guardateci nel viso…
veniamo dall’inferno e andiamo in paradiso!
RIT.
E se l’artiglieria fa il suo bombardamento…
arriva il paraca veloce come il vento!
RIT.
Noi siam corrente elettrica, corrente troppo forte…
chi tocca un paraca, pericolo di morte!
RIT.
Un paraca ed un fantone giocarono a scopone
vinse il paraca con l’asso di bastone!
RIT.
Abbiamo per trofeo un brutto basco nero
gli abbiamo riservato un posto al cimitero!
RIT.

Nel richiamo alle bombe a mano e al pugnale nel ritornello è evidente un implicito riferimento al tipico armamento leggero degli arditi. Questi ultimi costituivano infatti il riferimento “letterario” principale della vasta produzione “canzonettistica”. Ciò che rende singolare ed un pò illegale questa canzone è l’esplicita denigrazione della fanteria, in contrapposizione alla quale i paracadutisti hanno costruito la propria identità. Da sempre la parola fante è perciò utilizzata con accezione negativa all’interno della Brigata.

4.4.5 Distinguersi in tutto ed essere orgogliosi ad ogni costo.
L’attività rischiosa, le vicende storiche controverse, il trattamento di favore rispetto agli altri corpi dell’esercito sono tutti elementi che hanno portato i paracadutisti a sentirsi oltre che ad essere in una posizione particolare.
Lo spirito ribelle e scapigliato che ha caratterizzato gli appartenenti alla divisione Folgore e alla Nembo sono sopravvissute all’8 Settembre e alla fine del conflitto, tant’è che un istruttore al Centro Militare di Paracadutismo di Viterbo così ricorda il clima di intimità e informalità che si respirava in caserma nel 1953, quando i paracadutisti militari erano 300 in tutta Italia):

Sapevamo cosa potevamo fare, dove si poteva eccedere…nella Folgore si potevano fare simpaticamente delle cazzate. L’atmosfera era gioiosa ed attiva.
Io indossavo gli stivaletti da lancio che avevo da civile e anche se erano gialli nessuno mi diceva nulla. (P. G. M.,1953, intervista del 09-01-01)

Ancora nel 1960, in un racconto affidato alla rete, A. D. P , così descrive un episodio curioso:

Quando ci fu l’inaugurazione del monumento che rappresentava due lupi di Toscana nella caserma Vannucci, che era dei fanti “Lupi di Toscana”, vennero tutte le autorità militari e quando scoprirono il monumento trovarono i lupi con la museruola, una pelle di pecora sopra la groppa e le palle verniciate di rosso, immagina la scena con tutti i fanti schierati sul presentarm e tutti gli ufficialoni sul palco.
Da dire che all’epoca i paracadutisti italiani erano circa 800, compresi ufficiali, sottufficiali, carabinieri e sabotatori e erano di stanza solo a Pisa e Livorno e che per farne parte si doveva superare una grandissima selezione, dato che le domande erano tantissime e i posti erano pochissimi; nel mio scaglione ci siamo brevettati in 150 contro i circa 600 che erano stati ammessi al corso.

L’ampliamento dell’organico e il successivo passaggio a Brigata, se da un lato hanno ridotto la selettività all’ingresso e il livello addestrativo medio, non sembrano aver intaccato lo spirito e la voglia di differenziarsi:

Gli ufficiali ci volevano fieri di essere paracadutisti, per questo ci lasciavano indossare la divisa fuori ordinanza in terital come la loro. Una volta a Torino, ero in divisa estiva al distretto e mi hanno chiesto…un caporale è venuto a chiedermi che grado avevo, l’aveva mandato un ufficiale. Figurati cosa avranno detto tra loro. (M.L.,1971, intervista del 13-12 00)

Specie in occasioni ufficiali o in visita ad altri reparti, i soldati della Folgore si sono sempre ritagliati un proprio spazio, trovando spunto per rimarcare la superiorità del proprio corpo nei confronti degli altri:

Vicino al congedo ci hanno portato a fare un picchetto a Poggio Rusco; la sera prima siamo stati ospiti in una caserma dell’artiglieria pesante alla periferia di Bologna. La mattina successiva all’alzabandiera mi sono visto vicino ragazzi della mia età che sembravano straccioni, vestiti con pantaloni della drop da libera uscita e giacca della tuta da lavoro con i fumetti che uscivano dalle tasche. Quella è stata la delusione, vedere come veramente si può far gettare via un anno di vita ad un ragazzo. (1975, n°9)
Ricordo che a un campo NATO, invece di farci socializzare con gli alpini e i fanti che erano lì, hanno diviso il refettorio, così a colazione gli altri ci vedevano mangiare cioccolata e paste fresche e a loro soltanto gallette.
Una volta che eravamo in Piemonte, mi hanno fatto andare a casa in mimetica e con l’arma, a Porta Nuova la polizia mi ha subito fermato ma io gli ho mostrato l’autorizzazione del capitano. (L. V., 1979, intervista del 02-02-01)
Al GRACO di Verona non c’erano parà non brevettati: eravamo un gruppo di parà scelti in mezzo a circa 1500 schifosi e sporchi artiglieri (e non sono cattivo o esagerato!). (1983, n°18)
Ho passato da Dicembre a Maggio in un distretto militare, Como, non sapevano neanche marciare, il loro passatempo erano gli spinelli e la noia mortale che li assaliva. Il comandante del distretto mi ha assegnato l’incarico di inquadrare i suoi soldati, e nonostante la mia posizione di aggregato e quindi esente da servizi ho prestato volontariamente servizi di guardia alla porta, meritando anche giorni di premio per la presentazione del mattino al comandante del distretto da parte del corpo di guardia. Ogni forma di saluto, disciplina e rispetto nei confronti del superiore, anche solo tra c.le e c.le maggiore non esistevano…inconcepibile…io li ho fatti rispettare, almeno all’interno della caserma, fuori magari anche a mangiare la pizza e a darci giustamente del “tu”, ma dentro siamo soldati, esiste una disciplina e un codice. (1989, n°32)

Con la seconda metà degli anni ’80 e sempre di più nel corso degli ultimi quindici anni, i tagli economici che hanno progressivamente coinvolto l’intero esercito e il processo di omogeneizzazione imposto alla Folgore, hanno pesato in modo particolare sul livello addestrativo che, lanci a parte, si è livellato con quello degli altri corpi. Questa uniformità imposta dall’alto, nei confronti della quale gli ufficiali formatisi nei ranghi della Folgore hanno sempre avuto un atteggiamento ambivalente, ha trovato nella truppa il suo principale oppositore. Chi si aspettava da quell’anno esperienze uniche e irripetibili, non trovandole, ha cercato spontaneamente dei surrogati che gli dessero un segno di distinzione e appartenenza.
Di questo desiderio di “farsi notare” hanno goduto sempre di più i commercianti di gadget militari. Se anteriormente al 1975, anno in cui è stato concesso ai militari di truppa l’utilizzo della divisa “drop” uguale a quella degli ufficiali, le divise fuori ordinanza in terital erano le più gettonate, i commercianti si sono ampiamente “rifatti” con la vendita di tute e borse da viaggio colorati, diventati un must negli ultimi dieci anni.
Questo commercio sembra aver tratto giovamento dalla progressiva eliminazione dei tratti caratteristici dell’abbigliamento paracadutista (tuta da lancio imbottita non più fornita nel corredo, stivaletti da lancio forniti indistintamente a tutto l’esercito) ma anche dai progressivi tagli alle spese, particolarmente evidenti nell’ultimo decennio:

L’equipaggiamento era obsoleto, ai limiti di un paese del terzo mondo. Noi abbiamo prestato servizio in Somalia. Prima di partire ognuno di noi ha speso una cifra non certo irrisoria per acquistare medicinali, creme protettive, zanzariere etc.. (1992, n°46)
Il sistema militare italiano non dispone di mezzi idonei e moderni (e si che eravamo un corpo scelto). In pratica la mentalità e le tradizioni c’erano (da far invidia a tutti) ma i mezzi che lo stato ci forniva erano alquanto scarsi. (1994, n°55)

La ricerca dell’originalità ha fatto si che, anche in passato, il materiale fornito in vestizione fosse ufficialmente rifiutato e di conseguenza modificato o sostituito. Per oltre vent’anni, sino a quando è stata adottata la mimetica chiazzata modello “Roma”, alla cosiddetta “verdolina” le tasche inferiori che aveva sulla giacca sono state fatte staccare per poi essere ricucite sui pantaloni. Anche il basco amaranto fornito in vestizione non è mai stato visto di buon occhio e per le sue dimensioni è stato soprannominato “pizza” o “padella”. Per anni la “pizza” è stata indossata soltanto dagli alti ufficiali e dalla truppa nelle occasioni ufficiali, normalmente però la truppa ha continuato a procurarsene altri di foggia più piccola (modelli spagnolo o canadese); l’utilizzo di questi modelli “alternativi” è stato via via sempre più tollerato sino ad essere paradossalmente richiesto già durante le cerimonie di giuramento.
Contemporaneamente a questa omogeneizzazione imposta si è iniziata a rivendicare addirittura una forma diversa di nonnismo e ha preso piede la parola “tradizione” per indicare tutti i comportamenti legati ad esso. In poche parole il fenomeno, da cosa che “c’era e basta” è asceso a tradizione caratterizzante il corpo dei paracadutisti; una tradizione che, in quanto tale, deve assumere un’accezione positiva e per questo differente da quella di ogni altro reparto, specialmente di fanteria:

Si parlava di nonnismo come usanza di fanteria. (1989, n°30)
Una pompata per raccogliere un basco, pompare perché un anziano è andato a terra per primo, meglio che farsi spinelli tutto il giorno nelle caserme di fanteria o di chiunque abbia indossato un basco nero. (1989, n°32)
Noi Paracadutisti non abbiamo mai amato i souvenir tipo tubo porta congedo o “è finita”. Noi non siamo la fanteria. (1991, n°41)
L’unica cosa che gli anziani ci facevano fare era pompare, poi un parà si distingue dai fanti perché si fa le sue da sé. (1991, n°42)
Non esisteva nonnismo, solo rispetto delle tradizioni e nessuno pensava che ciò fosse male. (1993, n°52)
Il nonnismo da fante era punito dagli stessi anziani. Ti faccio un esempio, una sera ad un mio frà gli venne chiesto da un anziano di fargli la branda. Il “mostro” ovviamente accettò. Quando gli altri anziani vennero a sapere dell’accaduto presero autonomamente provvedimenti. (1995, n°57)
Mai parlato di nonnismo, nella Folgore esistono solo le tradizioni, il nonnismo è da fanteria avanzata. (1995, n°58)
Non bisogna confondere il rispetto per l’anzianità piuttosto che per le tradizioni (che hanno una storia alle spalle) con gesti stupidi e inutili (nonnismo vero e proprio tipo bloc, sbloc, ecc., che tra l’altro ho visto in una caserma dove i baschi non erano del nostro colore) tipici di chi non sa come far passare il tempo in caserma. (1996, n°61)
Tra noi caporali veniva definito nonnismo da fante il farsi fare la branda o il juke-box ecc.., mentre le nostre pompate, i pugni ecc.., venivano considerate tradizione. (1997, n°73)

Significativamente, a partire dai primi anni ‘80 e sempre più diffusamente all’interno della Brigata, i termini cardine usati da tutti i coscritti italiani per definire la recluta (“spina”, “missile”) sono stati sostituiti, tra i paracadutisti, dal termine “mostro”; allo stesso modo, anche la parola “tradizione”, ultimamente così in voga per riferirsi alle usanze della truppa, non risulta si utilizzasse in precedenza per indicare comportamenti rapportabili più semplicemente al nonnismo. Segue la testimonianza di un “ex”, allibito dall’abbinamento (“pompate = tradizione”) proposto nel questionario:
Tradizioni le pompate??? Tradizione era, al momento del congedo, addobbare gli stivaletti da lancio con le funicelle del paracadute, o correre cantando i canti dei paracadutisti. (1975, n°10)

La “pompata” e le forme goliardiche non erano un tempo osteggiate (o, perlomeno, non con vigore) in quanto utilizzate dai sottufficiali e ufficiali stessi come sistema punitivo informale più che dagli anziani come passatempo:

La cella di rigore veniva utilizzata pochissimo, preferivano farci correre o pompare con lo zaino sulle spalle. (P. C., 1972, int. del 17-02-01)

Un sottotenente di complemento (1984, n°22) osserva infatti che in passato

le pompate non erano una tradizione ma uno strumento punitivo alternativo alla consegna. Peraltro molto più sano, visto che costringere i ragazzi alla permanenza coatta in caserma ha creati più tossicodipendenti del movimento beat. Considera inoltre che io ho già vissuto il periodo della rivolta delle mamme contro il nonnismo, e quindi, se decidevo di punire qualcuno con le pompate dovevo andare a terra io e tutti quelli presenti in quel momento, in modo da presentare la situazione come reazione fisica.

In una lettera pubblicata nel 1987 sul mensile Folgore, un paracadutista in congedo (1980) così scrive a proposito dei provvedimenti contro il nonnismo:

Si pompava con gli ufficiali (questi compresi) per festeggiare, si pompava in “piazza del congedo” a Livorno tutti insieme prima di tornare a casa. Si pompava sempre e si era contenti di farlo. Anche se spesso era una punizione, raramente era ritenuta tale. Primo perché rinforzava il fisico, secondo perché era meglio cavarsela con venti pompate che restare in caserma la sera puniti a pulire lo spaccio. (…) Se i fanti vogliono la mamma così sia, ma noi, lasciateci continuare ad essere uomini (…).

Ma la volatilità di certe convinzioni riguardo a quelle che dovevano essere le usanze della fanteria piuttosto che dei paracadutisti è dimostrata dal fatto che, fino alla metà degli anni ‘80, il “fare la branda all’anziano” rientrava nelle “normali” pratiche del nonnismo anche tra paracadutisti:

L’unica che possiamo chiamare tradizione era che gli allievi dovevano fare la branda ai nonni prima di andare in libera uscita; spesso finiva in un sacco e quindi in qualche sana pompata a terra. (1983,n°18)
Il nonnismo si limitava a fare qualche branda e a prendere qualche panino o a qualche sana pompata. Ne ho trovato molto di più in altre caserme di fanti; avevano molto più tempo per fare più che altro stupidi scherzi, da non confondere con un pò di sano nonnismo. (1981, n°17)

A livello ufficiale il segno di distinzione più “originale”, rappresentato dall’addestramento lancistico, è stato difeso strenuamente e nonostante i costi elevati e la scarsa utilità (oggi non superiore a quella che può avere saper andare a cavallo per un soldato della cavalleria), esso è rimasto in vigore per tutti gli effettivi giudicati idonei, dal furiere, al vassoista, all’assaltatore, ridimensionando semmai il numero medio di lanci effettuati nell’arco del servizio.

4.5 Nuclei d’élite e spirito di corpo.
Guardando alla storia passata degli eserciti, possiamo constatare come il concetto di “spirito di corpo” abbia subito una triste involuzione di significato e una relativa perdita dei suoi contenuti originari.
Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, gli aspetti morali che confluiscono nello “spirito di corpo” sono legati a doppio filo con quelli tecnico-organizzativi.
Come si è osservato il paracadutismo militare italiano ha le sue radici nell’ardititismo della Grande guerra, con i suoi reparti d’assalto creati nel 1917 in esplicita contrapposizione alla fanteria, giudicata più adatta come massa di resistenza.
Rochat, sottolinea come oltre all’armamento e all’addestramento, quantitativamente e qualitativamente migliori rispetto all’esercito ordinario, gli arditi abbiano usufruito anche dell’esenzione dai massacranti turni in trincea, di migliori condizioni di vitto e alloggio, del soprassoldo, di un regime disciplinare meno rigido e formale, di maggior copia di licenze e permessi, nonché di una divisa particolare che li distingueva a colpo d’occhio da tutti gli altri militari (giubba aperta e maglione invece dell’insopportabile colletto chiuso, equipaggiamento individuale più pratico e leggero). Furono queste premesse e i primi successi a creare uno spirito di corpo elevatissimo e un aggressività eccezionale. Riguardo al reclutamento, pare che fosse attuato su base prevalentemente volontaria tra militari già in servizio e dopo un vaglio severissimo ; anche se solitamente la minaccia di essere rimandati in fanteria se non idonei si rivelava tra gli arditi uno stimolo potente al buon comportamento.
Quasi identiche le premesse che caratterizzarono la nascita del paracadutismo militare italiano, discendente ideale degli arditi, dai quali mutuò il simbolo (il gladio e l’alloro, sovrastati dal paracadute, in uso ancora oggi).
Come ben documentato da Di Giovanni, caratteristico del nuovo corpo fu ovviamente l’utilizzo del paracadute per lanciarsi direttamente oltre le linee nemiche ma in quanto ad addestramento a terra, selezione, divisa, soprassoldo e disciplina le similitudini con l’arditismo sono veramente notevoli. Scrive Rochat nella prefazione del libro di Di Giovanni:

I giovani volontari, soldati, sottufficiali e ufficiali, che affluirono al centro di Tarquinia non erano mossi da istanze politiche: li attiravano il fascino di una specialità nuova e rischiosa, il desiderio di fare la guerra bene, i piccoli privilegi materiali e morali rispetto alla grigia fanteria. Va infatti sottolineato che a Tarquinia non si imparava soltanto a saltare col paracadute, ma si riceveva anche un addestramento al combattimento molto più efficace di quello concesso alla massa dei soldati. Un privilegio pagato duramente, con il corrispettivo di un forte spirito di corpo e di rapporti camerateschi con i superiori.

Sono queste le tradizioni che la Folgore di oggi si porta alle spalle ma lo spirito di corpo non può fondarsi soltanto sulla nostalgia per il passato e una Brigata con un personale di leva di migliaia di persone non può essere organizzata come un nucleo di élite. Perciò, nonostante si siano formalmente mantenuti, in via del tutto simbolica, alcuni privilegi e caratteristiche distintive (arruolamento volontario, selezione del personale, soprassoldo, divisa differente e addestramento lancistico, evidente contrapposizione verso gli altri corpi dell’esercito) nella pratica si è però dovuti ricorrere, per essere efficienti in tempo di pace, alle metodiche organizzative coercitive tipiche dell’esercito di massa. In un simile contesto l’espressione “spirito di corpo” rappresenta sempre più spesso una vuota chimera, pronta ad essere utilizzata a piacere dall’ufficiale o dallo studioso di turno.
Possiamo affermare che gli unici legittimi eredi dei paracadutisti di El Alamein siano oggi da considerare i professionisti del 9° Rgt d’assalto Col Moschin, nucleo superaddestrato che recluta i propri componenti, attraverso una selezione effettivamente dura, solo tra sottufficiali e ufficiali effettivi.

4.7 Conclusioni.
La Folgore, forse proprio in seguito alle polemiche degli ultimi anni, ha chiuso alla leva ed è passata al professionismo, anticipando di qualche anno la definitiva abrogazione del servizio militare obbligatorio. In chi vi ha fatto parte, sembra aver lasciato un buonissimo ricordo e questo è provato, oltre che dalle testimonianze raccolte, anche dalla proliferazione di siti web non ufficiali ad essa dedicati. Parimenti significative, le recenti reazioni in occasione della ventilata chiusura della Brigata, che hanno visto esponenti politici “folgorini” esprimere a riguardo la loro contrarietà; in un intervista a L’Espresso , Marco Berlinguer, dirigente di Rifondazione Comunista e figlio dello scomparso segretario nazionale del Pci, ha affermato: “A me dà fastidio l’ambiente militare in quanto tale, ma nella Folgore, dove scelsi di fare il servizio di leva come ufficiale nel 1987-88, porcherie non ne ho mai viste. Conservo solo bei ricordi e buone amicizie.”
Una rara forma di identità positiva in seno all’Esercito Italiano, come l’ha definita Di Giovanni , alla quale forse è mancata solo la legittimazione esterna di cui hanno goduto invece gli alpini, per trasformarsi in una realtà libera da pregiudizi politici e morali.
Un esercito che forse troppo fiero di essere etichettato come “corpo maledetto” ha involontariamente lasciato che pochi eventi spiacevoli mettessero in secondo piano quanto di positivo, sul piano militare, ha rappresentato negli anni.
C’è un teorema, spesso utilizzato dagli uomini del marketing, che dice: “ci vogliono dai 5 ai 10 anni per costruire l’immagine di un marchio, ma basta una notte per comprometterlo irrimediabilmente.”

5.
La sociologia militare e l’esercito.

La sociologia militare, vista nell’ambito degli studi sulle organizzazioni complesse, presenta una problematica, un interesse scientifico che la rende diversa dalla sociologia dell’organizzazione tout court e che le parole di Nora Stewart ben esemplificano: “Non ci si riferisce all’efficienza del lavoro, al conseguimento di certe quote di produzione, oppure all’aumento dei goal di una squadra di calcio, ma alla morte e al morire per il bene del gruppo. Questa è l’essenza della coesione militare. Perché trovarsi in combattimento significa trovarsi in una situazione orribile e brutale.”
Sono coinvolti gli estremi della vita umana: la vita e la morte, e ciò rende particolarmente delicato ma di notevole interesse questo campo di studi.
Se in tempo di pace pare quasi assurdo parlare dell’esercito in questi termini, non bisogna trascurare quella che resta la sua mission principale ed in base a questa affrontare anche le tematiche manageriali che sembrano prevalere con l’affacciarsi di un approccio “occupazionale” alla carriera militare.
Quando i sociologi hanno tentato di collocare l’organizzazione militare in una tassonomia analitica, non hanno mai saputo bene cosa fare. Quale continuità può trovare la teoria, tra esercito di pace e esercito di guerra?
Un ulteriore problema che ha da sempre condizionato la sociologia militare è che essa ha per parecchio tempo potuto indagare nell’esercito soltanto con il suo permesso (una sociologia dell’istituzione e per l’istituzione) oppure si è dovuta “accontentare” dei contributi di osservatori partercipanti, “una sorta di sociologia povera, non ufficiale, settoriale e frammentaria”.
I rapporti di committenza hanno predeterminato forme, contenuti e limiti di questi studi ma soprattutto hanno trasformato la sociologia in psicologia sociale: “ridotta a aggregato di atomi sociali, detotalizzata, la caserma non è stata studiata in rapporto a un contesto che ne definisce l’organizzazione interna, la struttura e il sistema di valori attraverso le funzioni che le assegna”.
Nel caso italiano, per parecchi anni si è addirittura arrivati ad annullare di fatto la possibilità e l’idea stessa di una sociologia militare.
Le difficoltà nel rapporto tra sociologi e soldati è evidenziato sin dalle prime righe dell’introduzione italiana di Charles Moskos a Sociologia e soldati: “da un lato, gli ufficiali di carriera tendono ad assumere una posizione antagonistica nei confronti di un’analisi indipendente delle forze armate; ciò alimenta un atteggiamento di chiusura nei confronti dei ricercatori esterni. Sul fronte opposto, gli scienziati sociali rimangono sovente legati a stereotipi grossolani e fuorvianti sui membri dell’organizzazione militare. E’ un fatto che gli studiosi accademici sono spesso prevenuti nei confronti dei ricercatori che studiano le forze armate. (…) questo atteggiamento è controproducente sia per i soldati sia per i sociologi” .
La sociologia organizzativa e quella militare, utilizzate in piena autonomia di modalità e di intenti, possono fornirci innumerevoli stimoli nell’analisi degli aspetti formali dell’organizzazione militare; tra questi ultimi si approfondirà l’osservazione di quelli che risultano influenzare l’organizzazione informale, di cui il nonnismo è prodotto tipico.
Soprattutto per quello che riguarda i comportamenti devianti si è sempre cercato, sul modello dell’American soldier, di costruire il ritratto sociologico e psicologico-sociale del deviante istituzionale traducendo storie di vita in variabili psicosociali, in tipico stile human engineering, senza considerare che il comportamento deviante può essere anche una risposta al sistema sociale militare . L’obiettivo del presente studio è di utilizzare il maggior numero possibile di variabili, sia endogene che esogene, nel tentativo di inquadrare un fenomeno la cui complessità richiede uno studio di caso specifico, senza pretese di generalizzazione dei risultati.
Per parlare del nonnismo nella Folgore è necessario innanzitutto prendere in considerazione l’istituzione esercito all’interno della quale il fenomeno è più tipicamente diffuso, analizzarne l’organizzazione e quindi rilevare per comparazione quali siano le particolarità (e sono molte) proprie della Brigata. Soltanto conoscendo un’organizzazione è infatti possibile avvicinarsi ai fenomeni che si generano al suo interno.
Nei paragrafi che seguono ci si sposterà in continuazione dal quadro generale allo studio di caso, in modo da far risaltare uniformità e peculiarità organizzative, senza mai perdere di vista l’oggetto precipuo del nostro studio.

5.1 Un po’ di revisionismo sull’equazione: caserma = “istituzione totale”.
Sono trascorsi oltre trent’anni dalla pubblicazione della versione italiana (1968) di Asylum , l’opera di Erving Goffman dedicata alle “istituzioni totali” e la tesi che assimila la caserma ad una delle tipologie possibili di istituzione totale, immediatamente sposata da parte degli studiosi di problemi militari e non solo, è assurta allo status di “a priori sociologico”.
Goffman definisce l’istituzione totale come “il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.” Si badi bene, la caserma è chiaramente ancora oggi un’istituzione totale, ma le sue caratteristiche più spiccatamente coercitive sono andate progressivamente sfumando nel corso degli anni. In quanto istituzione totale essa continua a distinguersi, poiché:
-la vita si svolge, in ogni suo aspetto, in un medesimo luogo e sotto un’autorità unica;
-le diverse fasi di attività giornaliera sono svolte in contatto diretto con un gran numero di persone, tutte trattate allo stesso modo e coartate alle stesse cose;
-le varie attività sono svolte secondo un ritmo prestabilito e organizzate in un piano unico che serve ad adempiere formalmente allo scopo ufficiale dell’istituzione.
In base a tali caratteristiche, l’istituzione totale – nella quale è presente una pregiudiziale separazione/contrapposizione fra un gruppo grande di persone, gli internati, e un gruppo piccolo, i dirigenti – svolge la funzione fondamentale di manipolare i bisogni umani delle persone costrette in essa, da parte dell’organizzazione burocratica che le controlla.
Qui di seguito ci proponiamo di elencare e trasporre al mondo della caserma tutti quei concetti che si incontrano nella lettura di Asylum e che trovano riscontro empirico in ambito militare.
Carattere inglobante o totale: simbolizzato nell’impedimento all’uscita verso l’esterno, attuato attraverso le strutture fisiche dell’istituzione: mura, filo spinato, personale di sorveglianza all’uscita.
Rottura delle barriere tra sfere di vita differenti: se nella vita civile l’uomo dorme, si diverte e lavora in luoghi diversi, con persone diverse, sotto diverse autorità e potenzialmente senza alcun esplicito schema precostituito, nell’istituzione totale tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa unica autorità.
Frattura fra staff e internati: a fronte di un grande numero di persone controllate (internati) c’è un relativamente esiguo numero di controllori (staff). La comunicazione fra i due gruppi è spesso unidirezionale e l’internato viene esplicitamente scoraggiato a richiedere le motivazioni degli ordini che gli vengono impartiti.
Il mondo esterno come leva strategica: le istituzioni totali non tendono ad una sopraffazione culturale (durante il servizio militare non ce ne sarebbe materialmente il tempo) ma si limitano a sostenere un tipo particolare di tensione fra mondo familiare e mondo istituzionale attraverso la concessione di permessi e licenze oppure di punizioni (consegna semplice o di rigore).
Processi di mortificazione: la recluta è sottoposta ad una serie di umiliazioni e degradazioni che provocano il progressivo mutare del tipo di credenze che l’individuo ha su di sé (perdita del senso di sicurezza personale e autostima) e su coloro che gli sono vicini (sopravvalutazione del potere e delle competenze dello staff).
Benvenuto: cerimonia nel corso della quale lo staff, ma più spesso gli internati stessi da esso reclutati, chiariscono “come vanno le cose”, delineando a volte scenari ancora più minacciosi del vero, con lo scopo di intimidire il neofita.
Nelle istituzioni totali le diverse giustificazioni alla mortificazione del sé sono spesso pure razionalizzazioni, prodotte dal tentativo di controllare l’attività giornaliera di un gran numero di internati, in uno spazio ristretto e con un numero limitato di risorse.
Procedure d’ammissione: fotografare, pesare, spogliare, assegnare numeri, tagliare i capelli, la vestizione, l’istruzione sulle nuove regole, l’assegnazione dell’alloggio, sono alcune delle procedure classiche che segnano l’ingresso in caserma.
Test di obbedienza: lo staff mette alla prova la prontezza con cui la recluta mostra un atteggiamento deferente nei suoi confronti. Tipica è la richiesta fatta dai caporali di presentarsi più e più volte ad alta voce mettendo a dura prova la saldezza di nervi della recluta.
Sistematica violazione dell’autonomia d’azione: anche i più piccoli segmenti dell’attività di una persona (andare ai servizi, fumare una sigaretta), possono essere soggetti alle regole e ai giudizi dello staff e vige l’obbligo di chiedere il permesso e domandare aiuto per attività minori. Questo ovviamente avviene solo nella fase addestrativa iniziale.
Sistema dei privilegi: consiste nella concessione di un esiguo numero di compensi o di privilegi in cambio dell’obbedienza allo staff; molte di queste gratificazioni potenziali (parlare, fumare, prendere un caffè, uscire) sono date per scontate nella vita civile. Nelle istituzioni totali i privilegi non corrispondono a ciò che si considera come privilegio nel mondo esterno ma semplicemente l’assenza di privazioni alle quali nessuno presume abitualmente di dover sottostare.
Punizioni: conseguono ad un’infrazione alle regole e consistono nel ritirare, temporaneamente o definitivamente, i privilegi o il diritto ad ottenerli.
Gergo istituzionale: è un linguaggio tipico che gli internati utilizzano tra di loro e che è utilizzato e conosciuto anche dal personale meno qualificato.
Adattamenti secondari: insieme di pratiche che consentono agli internati di ottenere qualche soddisfazione proibita grazie a connivenze interne e conoscenza dei trucchi del mestiere. Il loro perseguimento costituisce per l’internato la prova del suo essere ancora padrone di sé.
Kitchen strata: con questo termine Goffman definisce la stratificazione gerarchica informale che regola l’accesso dell’internato ai beni illeciti disponibili e che può essere assimilata alla gerarchia parallela dell’anzianità all’interno delle caserme.
Fraternizzazione: processo attraverso il quale persone socialmente diverse si trovano a sviluppare un mutuo appoggio e di conseguenza una maggiore possibilità di opporsi al sistema che li costringe ad una forzata intimità e ad un destino comune.
Cerimonie istituzionali: durante le quali staff e internati intervengono mescolandosi in forme di sociabilità standardizzate come mangiare insieme, discutere liberamente. Durante queste cerimonie si mettono spesso a dura prova i limiti della licenza e le prese in giro superano quanto alcuni membri dello staff riterrebbero tollerabile. Secondo l’analisi che ne fa Durkheim queste pratiche consentono ad una comunità profondamente separata in internati e staff, di mantenersi unita.
Vita sotterranea: si sviluppa con facilità nelle istituzioni totali poiché quanto più ampio è l’arco di tempo giornaliero che l’organizzazione pretende di programmare e controllare, tanto meno sarà programmato con successo.
Lavorarsi il sistema: modalità che indica l’utilizzazione, da parte dell’internato, delle vie ufficiali per ottenere vantaggi personali e l’ampliamento o l’elaborazione delle fonti di soddisfazioni illegittime.
Incarichi sfruttabili: particolari mansioni di lavoro che possono rendere accessibili determinati adattamenti secondari (chi lavora in mensa avrà più cibo, chi in infermeria avrà letti a disposizione anche durante il giorno, così come chi è impiegato in determinati uffici potrà manipolare documenti a vantaggio proprio o di terzi).
Incarichi amministrativi: sono quelli che hanno sempre distinto, in tempo di guerra, i soldati delle retrovie da quelli di prima linea. Lo stare a contatto degli esponenti più importanti dello staff garantisce condizioni di vita più confortevoli.
Incarichi nascondiglio: per l’ubicazione in cui si svolgono o per la relativa assenza di membri dello staff, consentono di “prendersela calma” .
Luoghi liberi: spazi fisicamente limitati in cui il livello di sorveglianza è notevolmente ridotto e nei quali l’internato può dedicarsi a qualche attività proibita o semplicemente riposarsi.
Territori di gruppo: sono così definiti gli luoghi liberi ad accesso limitato in base a livello di anzianità, simpatie personali o conoscenze.
Territori personali: sono rappresentati da spazi riservati al singolo internato; nelle caserme si riducono spesso al solo armadietto, all’interno del quale si detengono oggetti personali, molti dei quali ufficialmente non concessi, come foto di donnine, radio, fornellini elettrici, piccoli televisori.
Commerci nascosti: costituiti dallo scambio di merci di proprietà dell’istituzione (cibo, vestiario, fogli di viaggio) tra gli internati addetti a diversi reparti.
Overdetermination: “adattamento secondario” perseguito soltanto per il piacere di fare qualcosa di proibito, una sorta di rivincita sull’istituzione.
Stigmatizzazione : il foglio di congedo è un documento ufficiale che accompagna l’uomo per il resto della sua vita e che può influenzare positivamente o negativamente la ricerca di lavoro una volta terminato il servizio militare. Se essere congedati “con l’articolo” (per inadattabilità alla vita militare) può rappresentare una pregiudiziale pesante, l’aver prestato servizio come ufficiale di complemento, nell’arma dei carabinieri, o più semplicemente aver acquisito il grado di caporale, può al contrario essere di aiuto nel “dare una buona impressione” (nei moderni moduli conoscitivi usati durante i colloqui di lavoro c’è spesso una domanda su dove si è prestato servizio e con quale grado ci si è congedati). C’è poi una stigmatizzazione sociale più lieve secondo la quale, specialmente se si è svolto il servizio come carabiniere o paracadutista, gli amici e i conoscenti possono di tanto in tanto affibbiare all’interessato la qualifica conseguita a mò di nomignolo.

5.2 Le riforme nel sistema caserma come “istituzione totale” in Italia.
Proprio a partire dagli anni ‘70 e fino ai giorni nostri si è assistito ad una progressiva mutazione dell’ambiente militare, nel tentativo, evidentemente non riuscito, di aggiornare le proprie logiche all’esigenza di sopravvivere ai giudizi avversi di un nuovo soggetto entrato sulla scena politico-sociale del paese sul finire degli anni ‘60: l’opinione pubblica.
Tralasciando il caso specifico della Folgore (un’anomalia all’interno dell’esercito italiano poiché, con il reclutamento volontario di personale in servizio di leva obbligatoria, richiede, come abbiamo visto, un allontanamento dalla concezione prettamente coercitiva del servizio militare), prendiamo in considerazione le riforme che nell’esercito hanno via via attenuato i caratteri più esplicitamente “goffmaniani” del servizio militare, apportando notevoli cambiamenti all’interno delle nostre caserme:
-nel 1964 la ferma è stata ridotta da 18 a 15 mesi.
-nel 1970 è stato abolito un privilegio proprio degli ufficiali e cioè il diritto ad un attendente che spesso svolgeva mansioni che andavano ben al di là delle esigenze lavorative; forme di asservimento e scambio di favori sono tuttavia proseguiti, più discretamente, anche in seguito a questo provvedimento.
-nel 1975 è stato introdotto l’uso obbligatorio del “lei” da parte degli ufficiali nei confronti della truppa e la “drop”, la divisa per la libera uscita è diventata la medesima sia per gli ufficiali e sottufficiali, sia per la truppa.
-nella seconda metà degli anni ‘70 si è provveduto ad una progressiva regionalizzazione del servizio di leva, fatto che ha sicuramente allentato i vincoli disciplinari e ideologici con l’istituzione. La durata dei permessi settimanali è stata elevata da 24 a 48 ore, permettendo ai militari abitanti ad una distanza inferiore ai 500 chilometri di raggiungere il proprio domicilio.
-nel 1975 il periodo di ferma ha subito un’ulteriore riduzione, passando da 15 a 12 mesi, con un relativo dimezzamento del periodo C.A.R. da 9 a 4 settimane.
-nel 1977 è stato abolito il divieto di detenzione di abiti civili in caserma e del loro utilizzo durante la libera uscita (restava l’obbligo della divisa durante il periodo iniziale dei Corsi). Questo provvedimento ha reso inutile l’utilizzo della ronda, in vigore ancora per qualche anno durante i periodi “caldi” come le partenze per licenze natalizie e congedo di contingenti.
-l’obbligo di “firmare” presso la caserma dei carabinieri del proprio presidio, prima di poter indossare abiti civili nei giorni di licenza è stato abolito nel 1978 assieme al divieto di oltrepassare, in libera uscita, i confini della circoscrizione militare.
-nel 1978 è stata abolita la cella di rigore. Questo provvedimento disciplinare prevedeva la reclusione in una cella dotata di un tavolaccio inclinato come giaciglio.
-nel corso degli anni ’80 e compatibilmente con la disponibilità delle Armerie di Reparto è stata abrogata la detenzione dell’arma individuale presso il posto branda e introdotta la modalità della consegna solo al momento di effettiva necessità.
-nel corso dei primi anni ‘80 si è progressivamente estesa la concessione degli armadietti nelle camerate una volta giunti al Corpo (aspetto solo apparentemente secondario dato l’importanza che questo “territorio personale” riveste nella vita di caserma). A metà degli anni ‘90 l’uso di armadietti si è esteso anche ai Centri addestramento reclute.
-nel 1986, con l’emanazione del nuovo Regolamento militare, le regole di pernottamento per il personale effettivo sono cambiate. Il pernotto fuori dalla caserma, prima concesso soltanto ai sergenti maggiori coniugati, è stato esteso a tutti i sergenti.
-nel 1987, anche a seguito delle polemiche suscitate dall’aumento improvviso dei suicidi in caserma nel 1986, è stato presentato un progetto per la costruzione di “caserme college”; esso sarà attuato, nonostante la drastica riduzione dei finanziamenti per la difesa, attraverso la costruzione di edifici di concezione alberghiera, con camere chiudibili e servizi igienici interni.
-nel corso dell’ultimo decennio è inoltre cresciuta la tendenza a concedere permessi di 48 ore nei fine settimana e a rendere libero l’accesso a quelle infrastrutture ricreative (piscine, palestre, campi da gioco) che erano prima riservate al personale effettivo. L’orario addestrativo settimanale è stato inoltre progressivamente ridotto fino alle attuali 36 ore in applicazione dei vari provvedimenti di concertazione per le Forze Armate.
-dal 1° Gennaio 1997 la durata del servizio di leva è scesa a dieci mesi, pur restando invariato il periodo di addestramento reclute (4 settimane) .
Parallelamente a questi provvedimenti, che hanno sicuramente migliorato la qualità della vita del soldato di leva all’interno delle caserme e ridotto i segni più evidenti della differenza di status rispetto agli ufficiali, ci sono state delle riforme che hanno interessato anche il personale effettivo. In particolare, nel 1990, con l’approvazione della “legge sugli straordinari” si è avuta una progressiva sostituzione del concetto di militare come servizio con quella di militare come professione; da allora comandanti, ufficiali e collaboratori del quadro permanente (da sergenti in su), terminato l’orario di lavoro, possono lasciare il reparto fino al giorno seguente, con il risultato che durante i fine settimana, così come dopo il termine dell’orario addestrativo, le caserme rimangono sprovviste di adeguati controlli. Per fare fronte a questa situazione si è cominciato a concedere con più magnanimità i permessi di 48 ore, rendendo così ancora più penosa la situazione di chi, troppo distante da casa, non dispone di tempo sufficiente per raggiungere il proprio domicilio.
Questa “smilitarizzazione” ha coinvolto il soldato di leva sia da un punto di vista simbolico (divisa non obbligatoria durante la libera uscita, arma in deposito, licenze frequenti), che pratico (il taglio delle spese per l’addestramento, particolarmente evidente a partire dal 1988, ha particolarmente inciso sull’operatività e gli addestramenti del personale di leva ).

6.
Obbedienza, selezione, potere e leadership nell’organizzazione militare.
Alcuni strumenti analitici per studiare la Folgore.

6.1 Una tipologia organizzativa.
Indipendentemente dalle barriere (fisiche ed ideologiche) che hanno separato la scienza sociale dal mondo militare, quest’ultimo presenta una complessità reale ed intrinseca. Per stabilire a quale delle tipologie organizzative individuate da Etzioni (coercitive, normative, utilitaristiche) corrisponda una caserma si seguirà lo schema indicato dallo studioso stesso come valido per ogni tipo di organizzazione:

Capiti i principi generali, essi si possono applicare a qualsiasi organizzazione si voglia esaminare o studiare. Innanzitutto bisogna analizzare la natura del potere che viene prevalentemente esercitato dall’organizzazione: si tratta di potere coercitivo, utilitaristico o normativo? In quale misura? Subito dopo occorre stabilire quale sia in generale l’atteggiamento del gruppo dei membri dell’organizzazione che viene osservato: è alienato o impegnato? Questi dati possono essere messi in relazione con la posizione occupata dai leaders nella struttura formale di potere dell’organizzazione: essi sono anche capi gerarchici (leadership formale) o sono persone che non occupano una posizione di potere formale (leadership informale)? La leadership dell’organizzazione è solo strumentale o solo espressiva o si estende a tutti e due i campi di attività? Rispondendo a queste domande è possibile delineare la struttura dell’obbedienza in una organizzazione.

Iniziamo con il considerare quali sono i principi generali. La variabile scelta da Etzioni per classificare le organizzazioni è rappresentata dal modo in cui si comanda e si obbedisce al loro interno. La “disposizione all’obbedienza” può essere di tipo:
-alienativo, se ottenuta con la forza;
-utilitaristico, se ottenuta in cambio di un incentivo economico;
-morale, se si condividono i valori e i fini dell’organizzazione
A partire da questa distinzione tra i tre “tipi puri” di disposizione all’obbedienza, Etzioni classifica le organizzazioni in base allo spazio occupato al loro interno da ognuna di esse :
-Organizzazioni prevalentemente coercitive: inducono ad un orientamento alienativo da parte di chi subisce il potere contro la sua volontà. In ordine decrescente di idealtipicità: campi di concentramento, quasi tutte le prigioni, la maggior parte degli istituti di correzione, gli ospedali psichiatrici di custodia, i campi di prigionieri di guerra, i centri profughi, i sindacati obbligatori.
-Organizzazioni prevalentemente utilitarie: inducono un coinvolgimento di tipo utilitaristico da parte di chi ha un rapporto prevalentemente economico con l’organizzazione in questione (aziende operaie e reparti di altre aziende, aziende impiegatizie e reparti impiegatizi in altre aziende, organizzazioni di agricoltori (subordinazione normativa come pattern secondario), organizzazioni militari in tempo di pace (subordinazione coercitiva come pattern secondario)).
-Organizzazioni prevalentemente normative: inducono un coinvolgimento di tipo morale-impegnato da parte dei membri che condividono i valori e i fini dell’organizzazione (organizzazioni religiose, organizzazioni ideologiche e politiche, ospedali, college e università, sindacati, associazioni volontarie)
-Strutture duali: normativo-coercitive (unità combattenti), utilitarie-normative (la maggior parte dei sindacati), utilitarie-coercitive (alcune delle prime industrie, alcune aziende agricole, navi e company towns).
I tipi di leadership prevalenti nelle organizzazioni sono tre e strettamente legate al tipo di organizzazione :
-Leadership formale (completa): al ruolo gerarchico si accompagnano le qualità personali e il leader in questione ha ottenuto per merito quella posizione.
-Leadership informale: il potere deriva da doti personali, al di fuori di ruoli gerarchici, come quello proprio di un capobanda.
-Leadership burocratica: il potere deriva unicamente dal ruolo burocratico ricoperto; un esattore delle tasse o un poliziotto sono due buoni esempi di leader burocratico.
Etzioni ha rilevato come vi sia una netta corrispondenza tra il tipo di potere e il tipo di adesione (Tesi della congruenza ): nelle organizzazioni ove si riporta la maggior frequenza per quanto riguarda l’utilizzo di mezzi coercitivi si ha anche un minor livello di coinvolgimento; di converso, quanto è minore la coercizione usata, tanto è maggiore la possibilità che si sviluppi una influenza personale delle persone che ricoprono cariche elevate (si formi cioè una leadership formale) .
Etzioni suddivide ancora la leadership in due sottounità :
-Leadership strumentale: riguardante il dominio delle tecniche e delle procedure; una leadership pura di questo tipo non può essere carismatica.
-Leadership espressiva: riguarda il dominio delle convinzioni morali e dei valori; il carisma è riservato a questo tipo di leadership nel momento in cui chi la esercita è riconosciuto nella sua autorità ed esercita un influenza diffusa sui convincimenti dei propri subalterni.

6.2 L’esercito e il caso Folgore.
L’approccio universalistico della teoria dell’organizzazione fatto proprio da Etzioni nella costruzione della sopra elencata tassonomia implica l’indifferenza ai contenuti delle varie organizzazioni; in essa le determinazioni specifiche e gli aspetti concreti delle organizzazioni vengono espulsi durante la costruzione del modello, ciò che interessa è la trama formale-universale che li ordina. Un convento e una prigione hanno certo contenuti e scopi assai lontani, eppure presentano analoghe modalità di rapporto con il contesto, di strutturazione interna, di interazione sociale, di norme e sanzioni.
L’incertezza di Etzioni su come collocare l’esercito all’interno della tassonomia da lui stesso costruita, oltre ad indicare l’oggettiva difficoltà di definizione dell’oggetto in questione, ne richiama anche l’intrinseca dicotomia (esercito di pace/esercito di guerra). Egli finisce per collocare l’esercito di pace tra le organizzazioni utilitarie (dove la compliance è legata alla remunerazione del soldato), e l’esercito di guerra tra le strutture duali con doppia forma di ottemperanza: normativa (fondata su di un sistema di norme interiorizzate) e coercitiva. Se la classificazione fatta a riguardo dell’esercito di guerra trova effettive rispondenze con quanto espresso da Etzioni (l’obbedienza è ottenuta sia con la minaccia di sanzioni fisiche sia con risorse morali come l’appello all’onore, allo spirito di corpo, al patriottismo, nonché con l’uso di mezzi simbolici come decorazioni, citazioni; in definitiva attraverso quello che Bonazzi definirebbe un mix di frusta, norme e cultura ), l’esercito di pace trova invece una collocazione che risulta del tutto fuori luogo se applicata alla situazione italiana contemporanea, nella quale il personale di leva costituisce ancora una fetta importante dell’istituzione militare. Se da un lato questo rende la situazione meno drammatica rispetto a quella di un carcere o di un ospedale psichiatrico, la presenta dall’altro come altamente più complessa.
Il procedimento indicato da Etzioni per classificare un’organizzazione resta comunque uno dei più validi in campo organizzativo ed è per questo che verrà utilizzato. L’attenzione si incentrerà però su di un’organizzazione concreta e specifica per l’analisi della quale non si adopereranno principi astratti e generali propri di una metodologia formalista ed astorica; l’osservazione empirica si inserirà nel framework teorico come caso, senza ridurre ad esempio una realtà sociale specifica.

6.2.1 Potere.
Seguendo lo schema suggerito da Etzioni, sono subito evidenti le particolarità che distinguono un’ideale caserma della Folgore da una qualsiasi altra dell’esercito. Iniziamo dal tipo di potere esercitato al suo interno:
-Potere coercitivo: nonostante il reclutamento volontario nel corpo prescelto, il servizio militare resta comunque un obbligo istituzionale da espletare.
-Potere normativo: garantendo la potenziale acquisizione di una qualifica che si suppone ambita e il relativo status superiore che ne deriva, si realizzano valori e aspirazioni in cui i membri dell’organizzazione credono.
-Potere utilitaristico: anche se in forma del tutto minoritaria bisogna comunque tenere conto del fatto che l’indennità di aeronavigazione, la migliore qualità del vitto e il punteggio che la qualifica di paracadutista apporta in eventuali concorsi pubblici, possono portare ad un orientamento utilitaristico e ad un’obbedienza “interessata”.
L’ordine in cui sono stati elencati è anche quello, decrescente, nel quale questi tre tipi di potere sembrano presentarsi; anche il potere utilitaristico, in posizione decisamente marginale, risulta comunque presente.

6.2.2 Obbedienza.
Per quello che riguarda la definizione dell’atteggiamento dei membri dell’organizzazione (alienato, utilitaristico, morale-impegnato), la questione si complica poiché sono tre le categorie da tenere in considerazione: ufficiali e sottufficiali che compongono lo staff, e militari di leva. Risulta difficile affermare con certezza quale delle tre disposizioni sia prevalente; si può con buona approssimazione affermare che mentre tra gli ufficiali dovrebbe prevalere più marcatamente un atteggiamento di tipo morale-impegnato, tra i sottufficiali la definizione è più complessa poiché essi vanno generalmente incontro ad una modificazione del proprio atteggiamento col passare degli anni (burn-out ): se i giovani sottufficiali si presume siano in maggioranza moralmente impegnati nel proprio ruolo e solo una piccola percentuale di loro abbia un atteggiamento prettamente utilitaristico, questa proporzione tende ad invertirsi con il passare degli anni:

I marescialli, forse per l’età, mi sembravano più stanchi…non tutti, mentre i sergenti e gli ufficiali mi sembravano tutti determinati e convinti. (P. C., 1972, intervista del 17-02-01).
Specialmente gli anziani, se sottufficiali, mi parevano stanchi e non motivati. (R. C., 1975, intervista del 22-02-01).
I marescialli erano i più scazzati, mentre i più determinati erano sicuramente i sergenti e i giovani ufficiali. (M. S., 1987, intervista del 04-.04 01)
I più mi sembravano convinti, c’era qualche scansafatiche, specialmente marescialli. (G. V., 1990, intervista del 16-01-01)
Mi sembrava che i marescialli addetti ai servizi fossero dei “magna magna”. Gli ufficiali mi parevano convinti. (A. A.,1993, intervista del 09-02-01)

Per ovvi motivi le due categorie professionali non presentano solitamente disposizioni di tipo alienato.
Diverso e più complicato, ma ai fini della ricerca più interessante, risulta il discorso per i soldati di leva: la loro disposizione risulta, al momento di partire, da una paradossale commistione tra il morale-impegnato (“prestare servizio in un corpo prestigioso”), l’alienato (“se fosse stato possibile avrei fatto volentieri a meno di un anno inutilmente buttato”) e l’utilitaristico (“la paga è migliore e c’è la possibilità di non ammuffire in caserma”).
Nella fase addestrativa iniziale l’atteggiamento morale-impegnato viene messo a dura prova e lascia sempre più spazio a quello alienato. Se si superano le prove di selezione e si accede al lancio, l’atteggiamento alienato scompare quasi del tutto e si viene assegnati al corpo con un morale solitamente alto. Si può anche verificare il caso che l’esperienza del lancio, gratificando la curiosità iniziale, porti ad “abbassare il tiro” e a desiderare, una volta ottenuto il brevetto, una naia più rilassata:

Io al corpo volevo fare l’autista perché sapevo che si stava bene. (G. M.,1965, intervista del 20-01-01)
All’inizio volevamo essere tutti operativi ma dopo i tre mesi di corsi a Pisa la maggior parte desiderava imboscarsi. (R. C., 1975, intervista del 22-02-01)
Dopo i corsi si voleva stare bene, allora si aveva paura di finire a Siena con Celentano, erano troppo inquadrati. (L. V., 1979, intervista del 02-02-01)
Il desiderio all’inizio era di andare negli operativi, ma dopo due mesi di caserma già in molti volevano essere tranquilli. (M. C., 1980, intervista del 19-02-01)
La maggior parte voleva imboscarsi…il Car e il Corso palestra ti spompano. (F. M., 1991, intervista del 21-02-01)
All’inizio eravamo tutti convinti, poi dopo i lanci ti sentivi appagato e preferivi fare una naia tranquilla. (G. A., 1994, intervista del 05-03-01)

Con l’assegnazione al corpo le sensazioni cambiano a seconda dell’incarico che si va a ricoprire: mentre chi va ad occupare un incarico decisamente non operativo inizia a contrattare con l’istituzione i propri spazi di libertà (licenze e permessi diventeranno pensieri assillanti) e assume un atteggiamento decisamente utilitaristico; chi invece va a ricoprire incarichi operativi, se in un primo momento regredisce ad un atteggiamento alienativo a causa del lavoro pesante, della disciplina rigorosa quasi quanto quella dei corsi e del senso di “privazione relativa” nei confronti di chi si è “imboscato”, ritroverà col tempo quell’atteggiamento morale impegnato che aveva prima della partenza e al momento dei lanci e che solo la coscienza di acquisire competenze militari stricto sensu può dare. Esemplare la testimonianza di questo signore che dalla compagnia trasporti è passato ai mortaisti:

Pensavo di essere fortunato a fare l’autista ma poi quando sono stato mandato nei mortaisti ho capito che a vent’anni era meglio non starsene ad ammuffire, è meglio fare il guerriero. (G. M., 1965, intervista del 23-01-01)
Nel primo caso sarà più probabile l’insorgere di un adattamento all’”istituzione totale” che Goffman (1968) ha definito di “regressione” (una sorta di ritiro dalla situazione, per cui la recluta giunge al completo disinteresse nei confronti del mondo che lo circonda e concentra le proprie attenzioni al benessere della propria persona), con la conseguente ricerca di uno spazio vitale strettamente privato, attraverso lo sfruttamento egoistico di tutte le risorse che il sistema può offrire (annidement).
Nel secondo caso si svilupperà più facilmente una “conversione all’istituzione” che consiste nell’assunzione dei valori e dei modelli che essa offre. Solo in casi eccezionali, dato l’arruolamento volontario, si riscontra una decisa “non collaborazione”.

6.2.3 L’importanza di una “leadership formale” e il processo di civilianisation.
Per quanto riguarda il tipo di leadership vale il discorso fatto prima e in pratica risulta anch’essa legata, ovviamente non in modo esclusivo, alla situazione lavorativa. Gli ufficiali occupati nel settore logistico-amministrativo, al pari dei soldati di leva, avendo sviluppato proprio malgrado un orientamento occupazionale al servizio, sono anche meno motivati e forse meno capaci di essere, oltre che leader burocratici, anche leader formali e carismatici.

Solo alcuni sottufficiali del logistico mi sembravano scansafatiche. (C. P.,1981, intervista del 06-02-01)
Diversamente da quelli della C.C.S., gli ufficiali ma anche i sottufficiali delle compagnie operative mi sembravano tutti convinti. (F. M., 1991, intervista del 21-02-01)

Poiché l’ideale del militare di professione continua ad essere quello del “guerriero”, la discrepanza tra questa autoimmagine e la routine quotidiana sempre più burocratizzata, possono dar adito ad un diffuso malcontento con un conseguente ripiegamento carrieristico-manageriale.
Nelle compagnie operative sono presenti perlomeno le condizioni ottimali affinché si instauri, tra gli ufficiali e la truppa, un rapporto che vada al di là di quello prettamente burocratico; ciò è favorito dalla natura stessa delle mansioni operative in quanto queste prevedono un contatto più assiduo con la truppa, periodi di convivenza in condizioni ostili durante i quali la formalità dei rapporti passa spesso in second’ordine:

In pattuglia, quando si stava via dieci giorni sulle montagne c’era più cameratismo e meno formalità con gli ufficiali. (P. C., 1972, intervista del 17-02-01)
Mi ha colpito il fatto che quando si mangiava facevano servire prima noi e i rapporti erano più informali. Una volta, in pattuglia con C. (comandante di compagnia), ricordo che anche lui ha fatto il suo turno nel portare la radio. (M. S., 1979,intervista del 19-12-00)
Ai campi la vita era diversa e la disciplina…non di molto ma si allentava. (M. S., 1987, intervista del 04-04-01)
I rapporti in addestramento e in missione si allentavano anche se loro mangiavano e dormivano meglio. (G. V., 1990, intervista del 16-01-01)

In questi frangenti può nascere (ma le qualità personali sono in questo caso la discriminante principale) un profondo senso di stima nei confronti dello staff, giudicato per le capacità militari dimostrate in prima persona. Quanto sia importante una leadership carismatica nell’esercito è dimostrato da innumerevoli studi: Little ha sottolineato la necessità di selezionare gli ufficiali e soprattutto i sottufficiali avendo sempre riguardo alla loro capacità di emanazione carismatica e di efficace guida degli uomini, lasciando intendere che in tempo di pace c’è invece la tendenza a presceglierli sulla base delle loro capacità nell’addestramento e nel management; Max Weber aveva visto nella disciplina un’aberrazione della forma di potere carismatico, fondato su un ascendente personale di carattere eccezionale e irrazionale, che si rende tuttavia necessaria quando l’obiettivo diventa “l’uniformità razionale dell’obbedienza” da parte di formazioni sociali di massa.
Considerando i dati di Shils e Janowitz sulla Wermacht, Etzioni nota come il comportamento verso gli scopi organizzativi (efficienza combattiva) fosse più elevato in quei gruppi dov’era parimenti elevato l’attaccamento agli ufficiali; questa “coesione gerarchica” (diversa da quella tra pari), includendo i capi immediati nella sfera delle relazioni primarie dei subordinati, consente a questi di influenzare la direzione dell’impegno dei membri del gruppo.
Ecco cosa un ufficiale tedesco ha dichiarato far funzionare il proprio esercito: “indottrinamento politico e ramanzine erano tutte stupidaggini; che i soldati lo seguano o no dipende dalla personalità dell’ufficiale. Il leader deve essere un uomo che possiede l’abilità militare: allora i suoi uomini sapranno che egli li protegge. Egli deve essere un modello per i propri uomini; deve essere un’autorità potente ma anche benevolente.”

6.3 Il servizio di leva nella Folgore, un’anomalia nell’Esercito Italiano.
Se da un lato la Folgore non si discosta dalla definizione che Etzioni riserva all’esercito in generale, e cioè di organizzazione coercitiva-normativa, dall’altro presenta delle peculiarità che la rendono unica:
-adotta le modalità tipiche delle organizzazioni normative in percentuale evidentemente superiore rispetto al resto dell’esercito (recluta soltanto volontari e li sottopone a selezione) ma anche quelle proprie delle organizzazioni utilitaristiche (la Folgore invia i propri caporali “in propaganda” nei distretti militari).
-presenta in parte le caratteristiche di alcune organizzazioni normative, in particolare “le più selettive sono quelle che risultano più efficaci e al tempo stesso ispirano ai loro membri una maggiore lealtà (…) sono generalmente anche quelle più ricche e quindi esse possono disporre di più mezzi da adibire alla realizzazione del fine”. Un ritratto che calza perfettamente a quella che sicuramente ha rappresentato un’élite all’interno dell’Esercito Italiano.
Come esistono organizzazioni civili che, con la loro limitata capacità di feed-back ambientale (rarità o assenza della verifica pratica dell’adeguatezza ai propri obiettivi) o a causa del reclutamento non selettivo dei membri, contengono in sé strutture formali del tutto simili a quelle militari; così ci possono essere singoli corpi o reparti dell’esercito che si differenziano fortemente riguardo all’estensione con cui sottostanno alle condizioni tipicamente militari. I reparti paracadutisti appartengono (o meglio, appartenevano) sicuramente a quest’ultima categoria. Vediamo di riassumere i motivi di questa affermazione:
A) L’arruolamento avviene su base volontaria: è necessario esprimere la volontà di essere arruolati nei paracadutisti al momento della visita di leva o alla presentazione di eventuali domande di rinvio.
B) In genere le organizzazioni militari inseriscono i propri membri in un mondo molto più integrale e privo di condizioni di quanto facciano le organizzazioni civili e proprio per questo sono costrette a tollerare al proprio interno la formazione di strutture informali. L’obbligo giuridico della leva, non prevedendo un reclutamento selettivo del personale e non essendovi possibilità alcuna di licenziamento (salvo casi limite, attraverso il “congedo con l’articolo”), fa sì che un folto ed eterogeneo gruppo di persone si trovi a convivere per settimane o mesi, ventiquattr’ore su ventiquattro, con tutti gli aspetti della propria vita (non solo lavorativa); in questa situazione è quasi inevitabile che gli “internati” facciano valere, all’interno dell’organizzazione stessa, tensioni emozionali, esigenze di ricreazione, così come eventuali tendenze ad un comportamento deviante. Il reclutamento nella Folgore, da sempre volontario e selettivo, pone un marchio di differenziazione simbolica e organizzativa che non può essere trascurato. Nell’arco dei primi due mesi dal reclutamento sono aperte le possibilità sia di abbandonare volontariamente che di essere licenziati per inidoneità. L’inidoneità può essere stabilita per la non corrispondenza ai parametri fisici richiesti per la specialità (lievemente superiori a quelli richiesti negli altri corpi dell’esercito) o per dimostrata incapacità a superare le prove fisiche e attitudinali previste. L’efficacia di sanzioni come l’espulsione è tipica delle organizzazioni che Etzioni definisce normative e questo non fa che evidenziare ulteriormente l’anomalia rappresentata dalla Folgore.
L’equazione di Etzioni secondo la quale ad una maggior selezione dovrebbe corrispondere un minore controllo legittima quindi le aspettative di un grado di lealtà all’istituzione superiore alla media da parte di un militare che presta volontariamente servizio in un corpo per l’ammissione al quale ha dovuto superare una selezione. Inoltre, il fatto che il paracadutista militare si sottoponga, attraverso i lanci di addestramento, ad una sorta di reality check (“scontro con la realtà”, intesa come pericolo) lo pone in una posizione diversa rispetto ai soldati degli altri corpi ed è forse per questo che, anche quando un incarico non operativo lo spinge verso atteggiamenti più utilitaristici, mostra comunque un orgoglio di appartenenza notevole.

6.4 Tra formalizzazione e informalizzazione, autorità e potere, la duplice natura dell’esercito.
Battistelli ha brillantemente definito l’organizzazione militare come un Giano bifronte per la sua peculiare proprietà costituita dal fatto di dover operare su due fronti: l’ambiente consuetudinario della pace e quello eccezionale della guerra.
A queste due condizioni di lavoro, una di routine e l’altra estrema, corrispondono forme e modelli organizzativi differenti e contrapposti.
Questo tra formalizzazione e informalizzazione è uno dei “dilemmi organizzativi” proposti da Battistelli come una tra le coppie di soluzioni strutturali, antitetiche ma non reciprocamente escludentisi, adottate dall’esercito per far fronte alla propria duplice natura.
Iniziamo col definire i tratti caratterizzanti la vita militare. Un’interessante analisi in proposito è stata fatta da Kurt Lang. Per prima cosa egli vede nel carattere solidaristico (communal character) della vita militare una delle sue peculiarità principali; questa sarebbe legata all’alto grado di pervasività esercitato dall’organizzazione militare nei confronti dei propri appartenenti e non troverebbe riscontro nei settori civili. In secondo luogo nota un’enfasi pesante sulla gerarchia, tale da far trasparire una certa ideologia autoritaria. Questa struttura gerarchica è simboleggiata dalla catena di comando e presuppone un flusso di direttive dall’alto verso il basso (come nelle line-organization di Etzioni). Calando verso i livelli inferiori della gerarchia, le direttive di carattere generale si trasformano in specifici ordini che ricadono, in ultima istanza, su comandanti tattici e soldati. Questi non devono fare altro che obbedire: la disciplina è la loro virtù principale. A questo flusso discendente di direttive corrisponde un flusso ascendente di informazioni.
Fin qui il consenso sulle osservazioni di Lang, attenutosi al livello della formalizzazione non può che essere unanime. Egli non fa che riprendere le specificità culturali attribuite all’organizzazione militare da parecchi studiosi nel campo della sociologia e organizzazione militare. Ma una “normativizzazione totale”, con la quale “imbrigliare e controllare una realtà sfuggente”, contrassegnata dalla soggettività non soltanto esterna (il nemico) ma anche interna (i membri della propria struttura), è e resta un’utopia.
Se l’organizzazione militare concentra il proprio sforzo, almeno in tempo di pace, nel tentativo d’imporre la massima codificazione dei comportamenti, è soltanto per ridurre questa sua atavica incertezza.
Di fatto, in ambito militare, come e più che in quello civile, l’estensione delle relazioni di lavoro al di là degli ambiti formalmente riconosciuti dalla catena di comando induce spesso ambiguità e confusioni sulle relazioni in materia di status.
Per esempio, mentre il grado determina il livello di responsabilità all’interno del sistema di status, non è detto che esso conferisca automaticamente un corrispondente grado di autorità. Questo problema, rileva acutamente Lang, è particolarmente sentito tra i sottufficiali: “Mentre la responsabilità risulta proporzionale alla posizione occupata nel complessivo sistema di status, l’autorità appare associata in modo selettivo e sproporzionato agli ufficiali” rileva Borgatta (1955) in uno studio sull’aviazione. Capita spesso, infatti, che gli ufficiali inferiori impartiscano ordini direttamente ai soldati, ma che poi ritengano i sottufficiali responsabili per la verifica della loro esecuzione; questo gradino saltato nella discesa dell’ordine dalla catena di comando favorisce lo sviluppo di poteri paralleli fra sottufficiali, i quali operano parallelamente e spesso indipendentemente dall’autorità espressa dagli ufficiali.

7.
Folgore e nonnismo, un’analisi di stampo antropologico e
organizzativo.

Parte prima.
Nella prima parte di questo capitolo si mostreranno, al di là di ogni intento deterministico, le sorprendenti somiglianze riscontrate tra l’organizzazione della gerarchia parallela nella vita di caserma e quella comune a molti villaggi tribali che sono stati oggetto di studio da parte di illustri antropologi.
Non è semplice valutare quanto questo tentativo possa essere fatto rientrare in quella che Mondher Kilani ha classificato come antropologia del “noi” e rimpatrio dell’ oggetto “esotico” ma la distanza culturale che separa la vita di caserma da quella civile risulta così evidente da colmare la mancanza di distanza spaziale e temporale e tale da giustificare l’utilizzo di omologie fra selvaggio e civilizzato, fra tradizione e modernità, fra villaggio della savana e “tribù militare”.
Pur estendendo gli spazi “esotici” al di là dei loro limiti tradizionali non sembra sia venuto meno, data l’“esperienza sul campo” e l’inchiesta sistematica tramite interviste in profondità e questionari, quel rigore metodologico in assenza del quale una tale antropologia “rimpatriata” potrebbe essere tacciata di “creare artificialmente un oggetto etnografico in guisa ed al posto di un oggetto empirico particolarmente assente o debole.”

7.1 Separazione, marginalità, incorporazione.
L’etnologo francese A. Van Gennep, nel suo libro del 1909 Rites de Passage, considera tutti i tipi di rituale come strutturati secondo la forma processuale del “passaggio”.
Egli distingue tre fasi nel rito di passaggio : Separazione, Transizione, Incorporazione.
1) La separazione delimita nettamente lo spazio e il tempo sacri da quelli profani o secolari; ovviamente non è sufficiente entrare in un luogo fisico ritenuto sacro per percepire il senso di separazione; quest’ingresso si deve accompagnare ad una mutazione qualitativa del tempo, in modo da costruire una sfera culturale nuova nella quale il conteggio delle ore, dei giorni, dei mesi, assume un significato differente rispetto ai processi temporali che caratterizzano la routine della vita secolare-civile.
2) Nel corso della fase di transizione, che Van Gennep chiama “margine” o limen (in latino significa “soglia”), i soggetti rituali attraversano un periodo e una zona di ambiguità che ha poco in comune con lo status e le condizioni sociali precedenti alla separazione ma anche con quelli che si acquisiranno successivamente.
3) La terza fase di incorporazione o aggregazione comprende fenomeni e azioni simboliche che rappresentano il raggiungimento del nuovo status da parte degli iniziati; una posizione relativamente stabile e ben definita (anche giuridicamente) all’interno della società.
I riti di passaggio legati all’iniziazione tendono ad “abbassare” le persone, vale a dire che le iniziazioni umiliano gli individui prima di elevarne permanentemente la condizione.
Mutatis mutandis suddetta classificazione risulta facilmente applicabile al servizio di leva. Fino a non molti anni or sono “fare il militare” significava la prima sigaretta, il primo contatto sessuale con una donna, la prima sbornia.
Era tutto il nucleo familiare e la comunità di appartenenza del giovane a riconoscere nel servizio militare un punto di svolta, un passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ma l’obiettivo della presente ricerca richiede di abbandonare il punto di vista civile e di adottare quello dell’istituzione militare; la funzione manifesta del servizio militare è sempre stata quella di formare del personale potenzialmente utilizzabile nella difesa del territorio nazionale.
Partendo da quest’ultima concezione e tralasciando di considerare l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo, si può considerare il relativamente lungo periodo liminale della “naia” suddivisibile in due momenti costitutivi: il primo si conclude al momento del giuramento e il secondo all’atto del congedo.
La classificazione di Van Gennep si presta a descrivere efficacemente le fasi di svolgimento della fase iniziale di “addestramento reclute”:
– Separazione: delimita nettamente lo spazio e i tempi militari da quelli civili. Questa fase è caratterizzata dal distacco fisico dalla famiglia ed evoca immagini impresse nella memoria di chi abbia vissuto l’esperienza in prima persona: l’ultima cena con gli amici, la preparazione dei bagagli, il padre che accompagna il figlio alla stazione, la madre in lacrime.
-Marginalità: per sottolineare la similitudine tra ”C.A.R.” e periodo liminale richiamerò direttamente le parole di Van Gennep:

una fase liminale di una certa durata nei riti di iniziazione nelle società tribali è spesso caratterizzata dalla separazione fisica dei soggetti del rito dal resto della società; (…) gli iniziandi sono considerati scuri, invisibili (…) vengono privati del nome e dei vestiti (…) i soggetti di questi riti vengono sottoposti ad un processo di livellamento nel quale vengono distrutti i segni del loro status preliminale.

Non è esattamente questo che avviene (oggi meno di un tempo) in un Centro addestramento reclute?
Il ruolo di officianti in questo periodo liminale è svolto prevalentemente da neo caporali istruttori che dispongono di un potere totale sulla recluta pur essendo usciti da pochissimo tempo dalla medesima condizione; il ”complesso dello schiavo” generatosi nei mesi precedenti trova in questo modo pieno appagamento nei rapporti interpersonali con le reclute.
-Incorporazione: attraverso la cerimonia del giuramento si rappresenta il compiuto raggiungimento, da parte della recluta, del nuovo status di militare.
Anche il periodo successivo ai corsi, quello più lungo, specie se caratterizzato da un allentamento del controllo istituzionale, presenta caratteristiche anch’esse proprie di un periodo liminale:

Nella liminalità (…) i diritti e gli obblighi precedenti sono sospesi ma a titolo di compensazione i sistemi cosmologici possono acquistare un’importanza centrale per i novizi, che sono posti dagli anziani, mediante il rito, il mito, il canto, l’apprendimento di un linguaggio segreto (…). Nella liminalità la gente gioca con gli elementi della sfera familiare e li rende non familiari. La novità nasce da combinazioni senza precedenti, di elementi familiari.

Sostituendo ai sistemi cosmologici le regole dettate dall’anzianità di servizio, è evidente come in questa descrizione si ritrovino appieno i tratti caratteristici di parte delle usanze di cui si parla in “Giorni di naia” : privato in qualche misura delle libertà civili, il militare troverà vicarie compensazioni nell’interiorizzare nuove regole che possono assumere importanza soltanto all’interno del ristretto mondo militare. Ancora Victor Turner, in Dal rito al teatro, afferma:

sono del parere che l’essenza della liminalità, la liminalità par excellence, consista nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra.

La suddivisione in classi di età non mima forse il naturale processo di crescita e il cambiamento di status all’interno del gruppo familiare nella società civile o gli avanzamenti di grado in quella militare? E le varie nenie che l’allievo deve imparare o l’attenzione che il “nonno” presta alla foggia del proprio abbigliamento non paiono forse bizzarre ad un osservatore esterno e molto simili ad una vera e propria performance teatrale?
A riprova di queste affermazioni le conclusioni che Radcliffe-Brown ha tratto dal suo studio sulla danza e i rituali tra gli abitanti delle isole Andamane: nelle loro danze, come nei gesti e nelle nenie “da caserma”, ritroviamo l’importanza dei ritmi fissi e ripetuti, delle stereotipie e delle ridondanze (“…mille più del fante, cento più del diavolo, una meno dell’anziano che riposa” ) che contribuiscono alla performance di un’attività sociale congiunta; e ancora: tra gli Andamani come tra i militari, coloro che resistono a sottomettersi all’influenza di questi rituali o vengono privati della possibilità di farlo (si considerino le parole amare del “parà” a cui era fatto divieto di “pompare” ), soffrono probabilmente di una spiacevole e marcata inquietudine, mentre l’esperienza del particolare tipo di vincolo che il rituale agisce sul partecipante, induce in lui, quando vi si assoggetta, il piacere dell’abnegazione rituale in una pratica che si sente comune (la pompata di Capodanno con i caporali a Firenze o quella del congedo con “il Don” ). A tale proposito alcune testimonianze risultano particolarmente significative:

Da padre di famiglia non direi che le pompate sono un atto di nonnismo, fanno parte di una tradizione e servono ad aumentare la muscolatura per il lancio, certe tradizioni sono comunque presenti spesso anche fra i civili, nelle palestre. (…) Non ho mai visto ufficiali acconsentire a qualche atto o tradizione, fatta eccezione per la sera del congedo, dopo la cena con gli ufficiali e i sottufficiali andammo tutti a terra a fare flessioni, ma non ho visto facce tristi o qualcuno che fosse costretto, fu un modo per salutarsi. (1989, n°31)
All’arrivo dei sottufficiali le pompate erano interrotte, ma di certo questi ultimi non si dannavano l’anima per reprimere questa “tradizione”, che ho ritenuto a volte irritante, ma fondamentalmente aggregante (mio personalissimo parere!). (1990, n°38)
Era un venerdì mattina; io e due colleghi graduati ci svegliamo poco prima della sveglia: Quel giorno saremmo dovuti andare in “48 conge”, forse era l’eccitazione! Ci alziamo, bagno, cubo, ginnica e…non so per quale arcano motivo, ci sediamo sulla mia branda, a cubo già fatto (sacrilegio!), e ci facciamo una manciata di cazzi nostri. Passa la sveglia, e con lei l’ufficiale di picchetto (che era il nostro vice-Com. di compagnia!) che ci schiaffa a rapporto. Ore 16.30, ufficio del Comandante. Tre deficienti attendono la punizione (addio 48!!). Il capitano, dopo averci cazziato per bene, dice: “Adesso andate a terra e fatevi una pompatina sulla tigre*, che così da vicino non l’avete mai vista, e pensate che non la rivedrete più! Coglioni! Ci piango ancora adesso.
* mosaico simbolo della Compagnia. (1992, n°45)
Ricordo con piacere che una mattina, all’alzabandiera, a seguito di una telefonata di una mamma che lamentava il troppo esercizio fisico di suo figlio, il Comandante della Scuola al microfono disse: “dite pure alle vostre mamme che fa bene al corpo e alla mente tenere in allenamento i propri muscoli” ed esclamò: “…guardate come si fa!”. Bene, quella mattina tutto il piazzale era a terra che pompava, ufficiali, sottufficiali, tutti insomma…Che spettacolo ragazzi! (1993, n°49)
I miei burba mi spronavano a farli pompare la sera perché altrimenti non si sentivano parà. (1994, n°55)

Per quanto riguarda le classi di età risulta evidente come il passaggio da un “grado” al successivo avvenga non in modo graduale e impercettibile come nella società civile occidentale, ma per “salti” che stanno ad indicare che l’individuo avanza da uno status sociale ad un altro. Queste “classi di età”, apparentemente assurde nell’arco di 10 mesi, pure mimano alla perfezione l’arco della vita, compreso il decadimento legato alla “vecchiaia”: si veda “il fantasma” che comunque rispettato, perde ogni potere e va incontro alla “sporca” (la quale mostra interessanti parallelismi con “l’uccisione rituale” del sovrano di cui ci ha parlato Frazer ).
In modo particolare durante i corsi di formazione per caporali istruttori, tesi a formare dei graduati di truppa in un periodo di sole quattro settimane, sono ben evidenti le omologie con i rituali di passaggio propri delle comunità tribali:
-Rito di separazione: esprime la separazione dell’iniziato dal suo precedente status (come le norme informali che “consigliavano” di evitare la libera uscita e di non proferire con alcuno al di fuori del corso ).
-Rito di segregazione: l’iniziato continua ad essere tagliato fuori dalla vita normale della comunità; non ha alcuno status riconosciuto, resta in una terra di nessuno: non è più recluta in quanto ha terminato i corsi ma non è ancora caporale; mentre i commilitoni giungono al corpo di appartenenza e appongono sulla mostrina il proprio cognome, l’aspirante istruttore sarà identificabile soltanto grazie ad un’apposita mostrina (un “uno” dorato su sfondo blu elettrico). Il corso per caporali istruttori si presenta quindi come un prolungamento del C.A.R., con regole e disciplina ancora più rigidi.
-Rito di aggregazione: esprime il fatto che l’iniziato è stato accettato nel suo nuovo status. A livello istituzionale l’aggregazione avviene con la consegna dei gradi, a livello informale può esserci un “battesimo” più o meno cruento (il “benvenuto” tra i caporali istruttori di Firenze oppure la sua variante: pompate e secchiate d’acqua gelata, in uso qualche anno prima).
I rituali di passaggio esprimono la grande importanza sociale attribuita da una società ai mutamenti di status dei suoi membri, il riconoscimento e l’accettazione da parte di ognuno del ruolo particolare che gli compete.
Il fatto che anche nelle comunità tribali queste usanze siano presenti in modo più marcato dove- come tra i Nilo-Calamiti di cui ci parla Beattie – è essenziale che vi siano dei guerrieri pronti a combattere in ogni momento, non fa che rafforzare la nostra similitudine tra divisioni paracadutiste dell’esercito e comunità tribali.

7.2 Microritualità quotidiana e riti di passaggio.
Considerando i caporali istruttori come casta a sé, lascia perplessi il fatto di aver riscontrato un numero relativamente basso di rituali di passaggio veri e propri nella truppa a fronte di una microritualità quotidiana invece molto diffusa.
Sino alla metà degli anni ‘60 infatti, si poteva ancora riscontrare nelle caserme della Folgore l’usanza di “battezzare” i neo paracadutisti giunti al corpo: il rituale in questione veniva chiamato “comunione”, si svolgeva nei corridoi delle compagnie con la compiacenza dei comandanti e dell’ufficiale di picchetto e consisteva nel disporre i nuovi arrivati a carponi uno dietro l’altro lungo il corridoio, nudi e spalmati di grasso e lucido da scarpe; quando arrivavano, come durante le comunioni, all’altare (una croce posticcia con su scritto lo scaglione degli “iniziati”) i “nonni” officianti, coperti da un lenzuolo, li imboccavano uno ad uno con un cucchiaio di feci e urine precedentemente raccolte in un secchio, gli allievi dovevano gridare “Folgore!”, quindi potevano sputare l’intruglio.
Molta attenzione era prestata alla coreografia, con i lucidi da scarpe (infiammabili) accesi lungo il corridoio ma anche alla sicurezza, con le ante delle finestre chiuse e piantonate dagli “anziani” per evitare che qualcuno finisse di sotto nel tentativo di sfuggire al rituale e con bicchieri d’acqua e detersivo per il risciacquo subito pronti a “comunione” avvenuta.
A partire dalla metà degli anni ‘60, quest’usanza, definita barbara dagli alti ufficiali, fu progressivamente ridotta in clandestinità e quindi si estinse, sostituita da pratiche più innocue come lo “sbrandamento di scaglione” fatto su preavviso. Queste pratiche segnavano l’ingresso in caserma ma ve n’erano altre che si compivano in occasione del congedo: la più diffusa era la “mascherata di fine naia”: ai congedanti era concesso durante il silenzio fuori ordinanza a loro dedicato di presentarsi al cospetto del comandante vestiti come meglio credevano, dei lumini venivano accesi sui davanzali e in qualche occasione venivano fatti brillare fuochi d’artificio o traccianti militari.
Anche lo “sbrandamento di scaglione” è poi stato vietato e la mascherata si è progressivamente ridotta ad un’adunata più o meno formale (la “marcetta di scaglione” qui descritta).
Soltanto a partire dagli anni novanta si è nuovamente sviluppato un rituale piuttosto cruento –la già menzionata “sporca” – la quale presenta però delle particolarità anomale: si svolge a fine servizio ed è “l’anziano”, anche se può sembrare un ossimoro, ad essere iniziato.
Sia concesso di osservare come il genere e la collocazione temporale del rituale in questione abbiano in sé un alto valore esplicativo: se è vero che i rituali di passaggio segnano solitamente l’ingresso dell’iniziato verso un nuovo stato di cose desiderato e che per accedervi è necessario pagare lo scotto di un rituale solitamente doloroso, che crea timore ed ansietà, si noterà allora come il fatto che negli anni questo rituale si sia “spostato” dal momento dell’ingresso al corpo (la “comunione”) a quello del congedo (la “sporca”), possa essere indicativo di un differente approccio al servizio militare anche fra i paracadutisti: mentre quarant’ anni fa il dazio si pagava all’ingresso attraverso la “comunione”, nel caso della “sporca” il dazio lo si paga al termine del servizio, ad indicare che il ritorno alla vita civile, e non lo svolgimento del servizio, meritano il superamento di una prova cruenta.
Soltanto fra i caporali istruttori l’usanza dei rituali d’ingresso si è mantenuta più a lungo:

Durante il corso A.G.I., se non facevi il cubo correttamente l’istruttore anziano ti mandava a correre con il materasso in Piazzale Grizzano. (R. G., 1981, int. del 15-02-01)
Il gavettone fatto con i bidoni dell’immondizia lavati e riempiti d’acqua fredda mentre pompavi era il battesimo per la squadra A.G.I. quando prendeva i gradi. Ma si pompava tutti assieme e si prendeva l’acqua tutti assieme ridendo. (1984, n°21)

La causa può essere trovata in una motivazione e in una “coscienza di classe” difficilmente riscontrabili tra gli altri militari di leva e dovuta forse anche al fatto che, come ha notato Beattie: “il vincolo della sofferenza comune (il corso li mette a dura prova, ndr) rafforza i legami di coloro che sono iniziati insieme” ; sono diverse le testimonianze raccolte che tendono ad avallare suddetto ragionamento. Sono in special modo i caporali istruttori che continuano a rivedersi regolarmente con i colleghi a distanza di anni, fatto difficilmente riscontrabile fra chi non abbia condiviso quest’esperienza. Seguono alcune testimonianze a riguardo:

Sicuramente al corso A.G.I. ho stretto rapporti di amicizia che durano ancora oggi dopo vent’anni. Fatti conto: l’anno scorso mi sono sposato e c’erano quasi tutti i miei colleghi.(Roberto, 1981, intervista del 15-02-01)
Il fatto di dover affrontare momenti e situazioni difficili con carica emotiva molto alta ha contribuito notevolmente alla creazione di un forte spirito di gruppo soprattutto con i miei “fratellini” (es. il 29 Luglio scorso, a distanza di tre anni dal congedo, mi sono sposato, uno dei miei testimoni era un mio fratellino A.I.P., ovviamente il più anziano, ed era presente gran parte degli A.I.P. del 6/96 con provenienza Torino, Vicenza, Brescia, Modena, Parma, Grosseto, Palermo). (1996, n°61)

Azzardando un pò si potrebbe tentare una generalizzazione: tanto più alto è il prestigio in gioco o comunque il desiderio di entrare a far parte di un gruppo, più cruente sono non solo le prove, ma anche i rituali di ammissione.
Facendo sempre riferimento alle ricerche di antropologia culturale torna alla mente la coinvolgente descrizione che Colin Turnbull fa del rituale previsto per entrare nella società segreta degli Anyota, gli uomini leopardo (feroci guerrieri con il compito di dirimere le dispute all’interno delle tribù uccidendo e cibandosi del corpo della vittima), molto più temuto dell’ordinaria circoncisione ma anche socialmente più influente sull’ascesa dei partecipanti nella scala sociale (tutti vengono circoncisi ma solo qualcuno diventerà uomo dalla pelle di leopardo così come tutti faranno il militare ma soltanto qualcuno diventerà caporale istruttore).
Quello che possiamo con sicurezza definire spirito di appartenenza è perciò una qualità fondamentale per la coesione del gruppo e questo è tanto più forte quanto più la partecipazione ad esso è ristretta o clandestina e da essa deriva un certo prestigio.
Il cerimoniale di aggregazione segue solitamente schemi ben precisi che simboleggiano l’accettazione, da parte del neofita, di norme che da quel momento regoleranno la sua condotta.
Oltre al già citato caso degli uomini leopardo, possiamo riscontrare usanze simili anche in istituzioni civili occidentali in tempi relativamente recenti.
Adriano Sofri racconta come pesanti episodi di goliardia fossero all’ordine del giorno anche all’interno della prestigiosa Normale di Pisa almeno sino all’ammissione di studenti di sesso femminile:

In un collegio privilegiato com’era la Scuola normale superiore pisana, il livello intellettuale e il disprezzo snobistico per i comuni goliardismi non sottraevano i più (me compreso) a una tradizione di prepotenze fisiche e mortificazioni psicologiche spinte fino al tormento.

Per quanto riguarda l’esercito, anche se non quello italiano, si ricorderà lo scandalo dovuto alla scoperta, nel 1995, di alcuni filmati che mostravano pesanti riti di iniziazione tra i “parà” canadesi. Molti dei riti in questione erano a sfondo sessuale proprio per esorcizzare la mancanza di mascolinità, la cosa peggiore che un soldato possa mostrare all’interno di una all male society. Questo maschilismo esasperato è curiosamente assente (almeno nei riti di iniziazione) nel nostro esercito e si limita, si fa per dire, alla proliferazione di discorsi, canzoni, allusioni e “pubblicistica” sulla “donna oggetto”.
Per quel che riguarda il fatto che la coscienza di appartenere ad un gruppo che per vari motivi si può ritenere elitario o comunque autarchico e separato da realtà “altre” possa favorire l’insorgere di comportamenti rituali, una personale esperienza dell’autore può provare la validità del ragionamento:

Nei primi anni ‘80 vivevo in un condominio signorile, uno dei primi in città ad avere tutt’intorno un parco di oltre 16000 mq., campo da tennis e parco giochi, caratteristiche che lo rendevano “ghiotto” anche ad un utenza esterna; ebbene, al suo interno si erano formati tre gruppi giovanili distinti in base all’età: il gruppo intermedio, che chiameremo dei ”vicenonni”, di un paio d’anni più anziani rispetto ai più piccini, si era inventato un regolamento secondo il quale per circolare liberamente in cortile era necessario essere muniti del “bollino” che era in distribuzione in cambio di 200 lire presso la cantina loro punto di ritrovo, trasformata in “base operativa” e curiosamente munita di campanello). Il gruppo dei “vicenonni” era quello che faceva pressioni maggiori sui più giovani ma era anche quello che organizzava e partecipava ai giochi in cortile . I “nonni” invece, detti “giganti”, in piena età adolescenziale, mantenevano un rapporto di altero distacco, quasi di “evitazione”, nei confronti di tutti gli altri e soltanto occasionalmente, in una sorta di regressione infantile intervenivano per spaventarli. Si tenga presente che allora le play station non tenevano i bambini incollati alla TV e le bande di quartiere erano ancora attive e vitali; nonostante ciò un tale spirito di appartenenza al proprio condominio era difficilmente riscontrabile altrove”.

In ambito militare bisogna inoltre distinguere i rapporti generati dalla gerarchia ufficiale (che crea divisioni nette e visibili come in pochi altri ambienti) da quelli che si sviluppano tra pari grado o nella truppa in base al fattore “anzianità di servizio”: specialmente ai livelli più bassi della gerarchia militare (truppa e graduati di truppa) un folklore marcatamente sviluppato si può pensare abbia come precipua funzione quella di delimitare e separare ruoli che potrebbero essere confusi data la scarsa divisione del lavoro e la precedente mal sopportata omogeneizzazione del C.A.R..
Gluckman nei suoi studi sembra arrivare alla medesima generalizzazione: “quanto maggiore è la molteplicità dei ruoli sociali non differenziati e sovrapposti, tanto maggiore è il rituale per separarli” .
Appare del tutto evidente che nella situazione di una grande città, se considerata in rapporto alla società tribale o alla caserma, i diversi ruoli della maggior parte degli individui sono separati l’uno dall’altro perché vengono svolti su piani diversi, ed è proprio in questa differenziazione la ragione per cui il costume e il cerimoniale sono meno sviluppati.
Il rituale ed anche il cerimoniale tendono a cadere in disuso nella situazione urbana attuale, in cui il tenore di vita e la frammentazione dei ruoli e delle attività, di per sé, separano i ruoli sociali.
Nella “vita moderna” troviamo tuttavia “sacche” di rapporti sociali simili a quelli della società tribale in quanto presentano gruppi i cui membri vivono costantemente insieme in modo tale che i loro rapporti all’interno di un ruolo influenzano direttamente lo svolgimento degli altri ruoli; la caserma, assieme al collegio o al monastero possono essere ascritte in queste “sacche” poiché costringono individui con abitudini e cultura differente a convivere in spazi ben definiti e soggetti ad un regolamento uniforme.
La necessità di creare divisioni per sopperire ad un’uniformità sostanziale è caratteristica portante di quelle che Durkheim definisce comunità a “solidarietà meccanica” e che trovano ancora corrispondenza nel mondo militare come reminiscenze di gemeinschaft.
In particolare la tesi di Durkheim si può sintetizzare dicendo che nelle società tribali gli individui rivestono vari ruoli rispetto ad altri individui dello stesso ambiente (amici, colleghi, confidenti) così che i ruoli non sono differenziati dalle condizioni materiali e da associazioni particolaristiche: per questo troviamo qui usi più specifici di un’etichetta stilizzata, più convenzioni e in genere più usanze, per differenziare e separare questi ruoli.
Questa forma di “autogoverno ” tra i militari di truppa, se considerato dal punto di vista della gerarchia militare ufficiale può rappresentare una sorta di organizzazione clanistica che ricalca sì le sembianze di un gruppo a “solidarietà meccanica” ma con tutte le incongruenze proprie di un “familismo amorale” che ruota intorno al desiderio di riappropriarsi di identità, diritti e libertà che la vita militare aveva cancellato. Sostanzialmente una “gerarchia parallela”, solo in parte funzionale e legittimata da quella ufficiale e che, nei momenti delicati (come rilevato da Donna Winslow) può intralciare il raggiungimento degli obiettivi primari dell’istituzione.
Quando si dice che questa “gerarchia parallela” è o è stata in qualche modo legittimata nell’ambiente militare, ci si riferisce al fatto che essa può potenzialmente svolgere un ruolo funzionale nella vita in caserma in quanto esercita un controllo laddove quello istituzionale è latitante ma che serve anche a dissimulare inevitabili conflitti interpersonali grazie al “timore reverenziale” suscitato nei confronti di una casta di “anziani” ufficiosamente riconosciuta.
In conclusione: se il fatto di appartenere ad un “corpo scelto” dell’esercito può in parte giustificare il proliferare di rituali e rapporti di potere informali, si devono tuttavia distinguere i rituali di iniziazione veri e propri dalla microritualità quotidiana; quest’ultima pur cercando legittimazione in atteggiamenti rituali e “tradizionaleggianti”, ha in realtà il compito di rimarcare una differenza di status all’interno di un gruppo, quello dei militari di leva, che si sente minacciato da un’imposta uniformità.
Prima di approfondire il discorso sulle funzioni manifeste e latenti dei riti di iniziazione si potrebbe quindi tracciare una linea di demarcazione tra questi ultimi, che mantengono una funzione soprattutto espressivo-simbolica e la “ritualizzazione dei rapporti quotidiani” tra “anziani” ed “allievi” che presenta funzioni prevalentemente strumentali-utilitaristiche e riconducibili a quelle svolte dal “nonnismo” nel senso comune del termine.

7.3 I rituali, tra ordine tecnico e ordine morale.
Parlare di rituali e riti di passaggio all’interno del mondo militare, se da un lato può sembrare naturale poiché essi sono da sempre presenti nell’immaginario comune sotto forma di parate, cerimonie e giuramenti, dall’altro, se si riflette sul loro significato e sul fatto che spesso la vita militare è costellata di riti anche non ufficiali, ci si accorge inevitabilmente della loro autonomia epistemologica rispetto ai riti che si svolgono nelle chiese o in quelli che le popolazioni africane ancora celebrano e che sono stati oggetto di studio per generazioni di antropologi sociali.
Cerimonie in senso stretto e rituali rappresentano due categorie che sfumano l’una nell’altra e stanno ad indicare “qualsiasi complessa attività umana che non sia specificamente tecnica o ricreativa e che comporti l’uso di modi di comportamento che esprimano i rapporti sociali”.
La “ritualizzazione dei rapporti interpersonali” presente in ambito militare va sicuramente distinta dagli atti cerimoniali nelle religioni più diffuse, come il cattolicesimo, che hanno stilizzato in alto grado le loro azioni riferite a nozioni mistiche, ma che non hanno sviluppato il ritualismo al di fuori dei ruoli e dei rapporti dell’intera congregazione; se si considera la caserma come una società a sé e i valori dell’obbedienza, dell’onore e della patria come sua “religione civile” (espressi simbolicamente attraverso cerimoniali stilizzati di vario tipo) si noterà che il ritualismo si è sviluppato ed esteso anche al di là delle cerimonie e dei rapporti gerarchici in senso stretto e ha contaminato l’intero modo di vivere la “società caserma”. Questo ritualismo diffuso rende la “società caserma” molto più simile alle comunità tribali che a quelle moderne delle quali tuttavia fanno parte: ciò risulta particolarmente evidente se si considerano i modelli piuttosto vaghi di rispetto e subordinazione intercorrenti tra genitori e figli o di eguaglianza tra fratelli che contraddistinguono i rapporti nelle nostre famiglie, anche cattoliche praticanti, rispetto alle particolari osservanze e interdizioni che indicano se un uomo sta trattando un altro come padre, figlio, nonno o nipote in una tribù africana.
Risulterebbe tuttavia grossolano ed esageratamente semplicistico supporre una perfetta corrispondenza tra villaggio tribale e comunità militare; al contrario la caserma evidenzia come il mondo profano urbanizzato dal quale il militare di leva inevitabilmente proviene, abbia comunque bisogno di un’espressione rituale per il passaggio da uno status all’altro: vi sono iniziazioni tra gli apprendisti nell’industria, ci sono state tra gli studenti, ci sono ancora tra i massoni e non deve stupire ci siano anche in caserma. La differenza sostanziale tra questi riti e quelli che si svolgono nella comunità tribale è che, pur segnando dei cambiamenti di status, non implicano alcuna idea che il compimento di atti prescritti possa influenzare in qualche modo mistico il benessere degli iniziati. La questione è stata oggetto di un decennale dibattito fra due scuole di pensiero: quella dei neotyloriani da una parte e quella dei sostenitori di una teoria semiotica del rituale dall’altra. I primi vedono le credenze come precedenti l’azione rituale, considerata come derivante e secondaria, i secondi sono più attenti al carattere performativo del rituale, considerato mezzo per trasmettere significati, per costruire la realtà sociale.
Tambiah, nel suo studio del 1985, Rituali e cultura, offre l’indizio per risolvere quest’apparente antinomia tra sacro e profano: in effetti qualsiasi cosa verso la quale si adotti un atteggiamento di “indiscutibilità” o “tradizionaleggiante”, può essere considerata come sacra; applicando questo ragionamento i rituali intorno al ruolo del comandante, della patria o della bandiera (a livello istituzionale) e quello intorno alla figura dell’anziano (a livello di gerarchia “parallela”), nell’esercito, possono avere caratteristiche comuni e simili con quelle dedicate agli dei o agli antenati nelle società tribali e a Gesù Cristo nel cattolicesimo.
Affrontando la questione da un punto di vista differente e forse più analitico, Robert Redfield, nella sua notevole analisi del 1953 sui rapporti tra “ordine tecnico” e “ordine morale” nella civiltà, ha fatto cadere la dicotomia tra sacro e profano di fronte alla constatazione che ogni status o ruolo serve ad un fine strumentale o tecnico, anche se quest’ultimo è sempre accompagnato dalla dimensione del dovere e della responsabilità, simboleggiata da forme rituali o cerimoniali che la collocano nell’ordine morale. Si prenda in considerazione la cerimonia ufficiale del giuramento: anch’essa trova spazio nelle trattazioni antropologiche come cerimoniale espressivo e strumentale allo stesso tempo (assieme alle benedizioni e maledizioni) poiché un uomo che presta giuramento si pone volutamente in uno stato di pericolo rituale se non fa quanto ha giurato di fare. Nella fattispecie, durante il giuramento militare si è constatato come l’enfatizzazione dell’evento al C.A.R., la coreografia e il coinvolgimento emotivo che ne consegue, rendano questa cerimonia portatrice soprattutto di valori espressivi, al punto di offuscare quasi totalmente quelli tecnico-strumentali. Tuttavia, considerando questa cerimonia con maggior distacco, ci accorgeremo che in esso, non essendoci alcun riferimento ad entità religiose o soprannaturali ma soltanto “costituzionali” (la patria, la bandiera) si può concludere abbia un valore prevalentemente strumentale, rendendo perseguibile penalmente colui che si rendesse in seguito responsabile di diserzione o tradimento.
Meyer Fortes avalla il ragionamento di Redfield e anche il nostro: “Questo è evidente tanto nelle professioni occidentali (…) quanto nella vita tribale africana”.
A margine di questa discussione è doveroso precisare che un ritualismo fine a se stesso è concepibile ed empiricamente rilevabile, specialmente nelle società aristocratiche, nelle quali l’esclusività è data proprio dal fatto di assumere atteggiamenti particolari svincolati da necessità immediate. Come afferma Padre Brown, protagonista del racconto Gli strani passi di Chesterton: “La società aveva numerose cerimonie e regole, ma non aveva né storia né scopo, e proprio per questo era così aristocratica”. Anche a rischio di invalidare tutte le ipotesi precedenti, sembra legittimo traslare questo ritualismo aristocratico alla condizione del militare di leva nelle caserme italiane: non conosce la storia e non si sente compartecipe dello scopo.

Parte seconda.
A partire dal paragrafo seguente si abbandona l’orientamento strettamente antropologico per analizzare come determinate caratteristiche organizzative possano influenzare la genesi e l’evoluzione del nonnismo.

7.4 Autorità e potere.
Per motivi di convenienza esplicativa è necessario rifarsi alla distinzione convenzionale tra autorità e potere assumendo che, mentre la prima è definita dalle strutture formali dell’organizzazione ed agisce per garantire un funzionamento razionalizzato, il potere, invece, si annida negli spazi interstiziali dell’organizzazione in cui è più carente la standardizzazione delle procedure.
Crozier ha definito questi spazi interstiziali come “aree di incertezza”, essi farebbero parte della natura umana, mai totalmente predeterminabile e riducibile ad automa. La rivincita del sottufficiale anziano sta nel “colonizzare” queste aree d’incertezza attraverso rapporti informali con altri sottufficiali e una più elevata conoscenza dell’ambiente (il ricambio dovuto a trasferimenti è tra i sottufficiali molto meno elevato che tra gli ufficiali), regolando di conseguenza a suo piacimento il flusso ascendente di informazioni di cui ha parlato Lang. L’esercizio di questo “potere negativo” o “non decision making” come lo definiscono Bachrach e Baratz, attraverso il quale “domande di cambiamento nella allocazione dei benefici e dei privilegi nella comunità possono essere soffocate prima che prendano voce” , rappresenta un atteggiamento diffuso tra coloro che, avendo cumulato una certa anzianità di servizio, sanno di avere la carriera bloccata e l’unico obiettivo diventa perciò quello di “tirare a finire”, limitando al massimo le turbolenze.
Questo atteggiamento funziona spesso da rivincita per la precarietà sociale e psicologica del sottufficiale (Tocqueville ne aveva descritto “l’esistenza oscura, ristretta, disagiata e precaria” e identificava in questa categoria, posta a ridosso di quella superiore senza averne l’autorità e i privilegi, una potenziale turbolenza, foriera di guerre e rivoluzioni ; non a caso la “legge degli straordinari” del 1990, un passo di svolta significativo per la concezione della professione militare, pare sia stata caldeggiata principalmente dai sottufficiali).
In linea di massima quindi, risulta evidente che le discrepanze tra strutture organizzative formali e informali sono per molteplici motivi più marcate negli eserciti che nelle organizzazioni civili. Se nella vita militare gli appelli alla disciplina e all’obbedienza sono messi maggiormente in rilievo che non nelle organizzazioni civili, non si deve per questo concludere che al suo interno si produca effettivamente un livello particolarmente alto di conformità comportamentale. Piuttosto il controllo sociale superiore alla media operato nelle caserme si rivela come il mezzo e non il fine (“deculturazione” e “risocializzazione”) attraverso il quale l’organizzazione militare cerca di far fronte alla forte intensità delle strutture interne informali.
Dato che, come dimostrato da numerosi studi, proprio in guerra il gruppo potenzia il proprio ruolo e diviene il più valido sostegno all’azione di comando, la formazione delle suddette strutture informali, in precario equilibrio tra massimizzazione dell’efficienza e pericolo di insubordinazione, “si pone per ogni comando come un delicato problema di ottimizzazione”.
Queste osservazioni possono essere utili nel tentativo di sfatare la concezione inveterata nel senso comune ma anche in certa sociologia militare della peculiarità radicale delle organizzazioni militari, giudicate capaci, attraverso un controllo e una disciplina estesi, di invalidare ogni tentativo di “lavorarsi il sistema” da parte dei propri membri.
L’estetica di questo tentativo sta nel voler rendere esplicito ed evidente come una struttura molto burocratizzata porti più facilmente che altrove alla formazione di logiche informali e parallele a quelle espresse dal potere ufficiale (di cui il nonnismo tra i soldati di truppa è soltanto una delle espressioni più evidenti) e come, mentre questi aspetti informali risultano nella maggior parte delle burocrazie civili marginali e non direttamente correlati allo scopo, in quelle militari, pur apparendo irrazionali, possano risultare funzionali al raggiungimento di questo.

7.5 Il gruppo primario in caserma.
Il primo ad impiegare il concetto di “gruppi primari” è stato Charles Horton Cooley nel suo libro Social Organization (1909). Per gruppi primari egli intendeva “quelli caratterizzati da intima associazione e cooperazione faccia a faccia” il cui risultato “è una certa fusione della individualità in un tutto comune, cosicché il vero io di ciascuno, per molti scopi almeno, è la vita comune e il comune scopo del gruppo.”
Nei tre volumi che compongono l’American Soldier il concetto di gruppo primario, mentre è stato ampiamente utilizzato nello spiegare il comportamento dei soldati in combattimento, è stato sottovalutato nell’analisi dell’addestramento e della vita di caserma. Questa mancanza non si spiega con il fatto che certe dinamiche informali non siano presenti in tempo di pace ma semplicemente perché nell’ordinaria routine di caserma il gruppo primario può essere portatore del germe della disobbedienza.
Battistelli coglie a pieno la natura di questa antinomia: “il gruppo primario è l’ultima ratio che l’organizzazione mette in campo nel momento della suprema verifica organizzativa; un’arma segreta da custodire, ma, per la sua polivalenza, da evocare il meno possibile nelle normali condizioni di routine.” Ed in effetti la sociologia militare ha finito per trascurare l’argomento e quando lo ha fatto, non uscendo dalla logica della scienza al servizio dell’istituzione, lo ha affrontato su commissione del mondo politico e non più di quello militare.
Ma il gruppo primario assume un significato diverso non soltanto in situazioni di guerra o di pace ma anche a seconda della tipologia (operativa o logistica) dei singoli reparti e del loro modo di operare (in massa o decentrato).
Ci sono reparti e nuclei dell’esercito che per loro natura tendono a sviluppare una forte struttura informale e pienamente funzionale agli obiettivi dell’istituzione in cui operano. Alle origini la specialità del paracadutismo militare, nata per far fronte a nuove esigenze di combattimento decentrate, era sicuramente tra queste. Il paracadutista, aviolanciato all’interno delle linee nemiche, doveva operare in condizioni imprevedibili e molto poco trasparenti rendendo funzionale e necessaria quella “regressione” a forme strutturali elementari informali, molto lontane dal modello di organizzazione altamente burocratica e pianificata propria di un esercito in tempo di pace o dagli ordinati assalti in una guerra di posizione. Che questa capacità di improvvisazione rappresenti una qualità positiva è confermato da Geser quando osserva, a mò di avvertimento:

Gli eserciti moderni, nonostante la loro dipendenza indiscussa dal management burocratico, devono tenere in serbo allo stesso tempo elementi strutturali di natura totalmente diversa, fortemente non burocratici, che poi possano essere richiamati al momento della guerra attiva. Anzitutto, è indispensabile incoraggiare l’autonoma capacità di azione del singolo soldato, in maniera inversamente proporzionale a un’alta considerazione per la disciplina degli ordini e delle regole, per assicurare che egli si comporti in combattimento in modo adatto alla situazione e concentrato sullo scopo, senza la copertura rappresentata da prescrizioni e previsioni.

Recentemente anche la sociologia organizzativa si è occupata di come si possa far fronte a situazioni eccezionali attraverso “l’improvvisazione e il bricolage”. In questo quadro la capacità del bricoleur dovrebbe essere quella di rimanere creativo anche in situazioni caotiche, riuscendo a far fronte ad eventuali collassi del sistema organizzativo. Per questo non basta l’apprendimento di routine, c’è bisogno invece di una forte interazione tra i partner dell’organizzazione ed in modo particolare del triangolo fiducia-onestà-autostima che si instaura tra di essi. Solo se questo triangolo è solido, il gruppo riuscirà a sopravvivere al collasso della struttura formale e al relativo annullamento di ruoli, routine, senso.
Allo stesso modo, i componenti dei piccoli nuclei operativi dell’esercito operanti in situazioni estreme dovrebbero essere tutti dei provetti bricoleurs, capaci di decisioni autonome più che di “adempimento statistico”.
In effetti, il gruppo primario è il luogo ideale dove si possono facilmente creare i presupposti per un’efficace interazione di gruppo, ma affinché in un esercito di massa il peer group possa “prestare” all’organizzazione queste sue qualità è necessario “un soggiacente impegno verso il valore dell’intero sistema sociale per cui egli (il soldato, ndr.) sta combattendo. Questo impegno non deve essere articolato formalmente e nemmeno forse essere consciamente conosciuto, ma ad un qualche livello ci deve essere un’accettazione, se non degli specifici scopi della guerra, almeno della generale rettitudine del sistema sociale di cui il soldato è membro.” In altre parole un’ideologia di base deve accomunare comandanti ed esecutori.
Questo genere di “informalità funzionale e creativa” è difficilmente plasmabile in un esercito di massa basato sulla leva e, in situazioni estreme quali il combattimento, la formazione di un solido peer group è dettata dal bisogno di sopravvivenza, gli scopi dell’istituzione verranno perseguiti casomai indirettamente.
Durante il servizio militare c’è spazio per la formazione di un gruppo primario come inteso da Cooley?
La risposta, ad oggi, è negativa. Sembrano mancare il tempo, i mezzi e soprattutto la volontà per “addestrare alla creatività”, e soprattutto manca il “consenso attivo” della truppa.
Ma anche in questo caso la Folgore sembra sviare ogni nostro tentativo di generalizzazione quando scopriamo che, negli anni della “guerra fredda”, un paracadutista di leva poteva ancora fare esperienze di questo tipo :

Livorno, Febbraio 1979.
“Il Grifo” alias Cap. Martinelli, convoca me e gli altri comandanti di squadra del 1° plotone per comunicarci che un’aliquota della compagnia avrebbe partecipato all’esercitazione denominata “Muflone 79”. Le unità interessate sarebbero state 4: 1° plotone della VI CP GRIFI , aliquota di incursori del 9° BTG. Col Moschin, la C.E.PAR. (Compagnia Esplorante Paracadutisti) che al tempo era comandata dal Cap. Celentano, attuale comandante della Brigata ed in ultimo un A-Team delle U.S.S.F, i Berretti Verdi americani. Il “canovaccio” dell’esercitazione consisteva nell’ipotesi, spesso praticata all’epoca, della guerriglia con relativa controguerriglia. La C.E.PAR. simboleggiava l’esercito regolare e si occupava di controguerriglia. Noi della Sesta, quelli del 9° e gli americani, riuniti in un unico gruppo eravamo i guerriglieri. La zona delle operazioni era l’Appennino pistoiese e più precisamente il covo di noi guerriglieri era base Alpha, un edificio destinato a colonia estiva in località Macchia Antonini vicino Prunetta. Il primo plotone della Sesta raggiunse la colonia e vi si installò. Nella notte gli elementi degli altri due reparti si aviolanciarono da un C130 americano e guidati dal c.m. Atzeni della Sesta ( che si guadagnò così, invidiatissimo, il brevetto U.S.A.) raggiunsero la colonia. Da lì partivano le “sortite”. Una squadra della VI, alcuni Incursori alcuni Berretti Verdi e via a preparare imboscate alla C.E.PAR. Io ed il mio amico Roberto, compagno di pazzie, scappammo dalla colonia con la copertura del STen. Falduzza e facendoci circa 35 Km. di corsa arrivammo alla stazione ferroviaria dove prendemmo il treno per Livorno. Aspettammo davanti alla Vannucci l’ora della libera uscita e non visti entrammo in compagnia a prendere le chiavi della mia auto. L’auto, una gloriosa A112 portante posteriormente un grosso adesivo raffigurante un paracadute sormontato dalla scritta “Arditi del Cielo” fù la nostra “tecnica” con la quale tornammo non visti alla colonia, base Alpha. Il blitz durò circa 4 ore. Un dettaglio, in questa esercitazione non c’erano gradi per rendere più verosimile la cosa. ed ognuno si scelse un nome di battaglia. Feci sapere al ten. Fusari del 9°che comandava tutti noi che essendo io di Firenze avevo la possibilità procurarmi un automezzo civile facendomelo portare dalla mia ragazza. Due ignobili menzogne in quanto la “tecnica” era già lì ben mimetizzata e la mia ragazza in quel momento non esisteva proprio, in quanto in quell’anno breve, inteso ed indimenticabile non c’era posto per alcun rapporto amoroso tranne quello fra me e la Folgore del quale come vedi porto ancora i postumi. Non appena la “tecnica” venne presa in forze, a base Alpha iniziò il vero divertimento. Devo ammettere che io e Roberto fummo dei privilegiati: con la “A.R. civile” giravamo in borghese con i F.A.L. a fianco. Facemmo così delle ricognizioni a lungo raggio che ci permisero di localizzare i campi base della C.E.PAR. che uno per uno previa eliminazione delle sentinelle furono cancellati. Durante una di queste ricognizioni effettuate sempre rigorosamente in borghese vedemmo un carabiniere fermo cavanti alla caserma in località Le Piastre. Pestai sui freni a causa del lampo di genio di Roberto che mi disse: chi meglio dei carabinieri della zona può fornirci informazioni su movimenti di mezzi militari in zona. Bingo!!!!, fermai la macchina a circa 50 cm. Dal milite e gli chiesi se aveva visto paracadutisti e mezzi militari in zona. Al momento non capivamo come mai questi ci guardasse con gli occhi sbarrati non riuscendo a proferire parola. Solo in un momento successivo ci siamo accorti che il suo sguardo era fisso sui F.A.L. privi di tromboncino appoggiati sulle ginocchia mie e di Roberto il quale stava peraltro anche giocherellando con il dito sul grilletto con la canna rivolta in direzione del malcapitato (erano i tempi caldi delle B.R. 1979). Dopo le opportune spiegazioni e fatte le nostra scuse non ce la siamo sentita di replicare quando ci ha detto di andare a…….. noi e tutta la Folgore. Oltre che obbiettivi difesi dalla C.E.PAR. ve ne erano alcuni sotto il controllo del Genio, uno di questi era un ponte ferroviario dismesso che attaccammo e prendemmo con successo. Nell’azione furono usate la mia “tecnica ” ed un camion . Il camion lo noleggiammo frugandoci in tasca e facendo la colletta. Nel cassone del camion presero posto circa venti parà, nella “tecnica” io armato di F.A.L. ed alla guida travestito da donna mediante una carinissima pezzuola sulla testa il Ten. Fusari. Per inciso mi ricordo che Fusari aveva un ascesso ad un dente ed erano circa 5 giorni che conviveva con un dolore lancinante che avrebbe tenuto a casa per un mese qualsiasi pubblico dipendente. Alle ore 23.00 il convoglio parte da base Alpha e si dirige verso l’obbiettivo, la tecnica precede il camion di circa 20 metri. L’azione si svolge in un attimo, io avevo tirato giù il ribaltabile ed ero sdraiato accanto alla “Signora Fusari” la quale in prossimità del nucleo a difesa del ponte ferma la tecnica e tirato giù il finestrino con voce suadente attira l’attenzione dell’incauto Tenente del Genio. Nel frattempo io scivolo giù dal lato destro dell’auto e mentre il Geniere sta per attraversare la strada per fornire informazioni ad una così bella signora gli lancio una castagnola e una raffica di F.A.L..A tale segnale convenuto il telone del camion che nel frattempo si era fermato dietro alla A112 come por miracolo vola via e 20 Folgorini urlanti cominciano un concerto fatto di raffiche di F.A.L. e castagnole. I poveri Genieri ammutoliti “fanno la cartella ” e tornano a casa. Piccola nota di colore, sul ponte in oggetto erano solite soffermarsi le coppiette della zona in vena di effusioni e quella sera c’erano quattro macchine. Dopo l’inizio dell’attacco che durò neanche un minuto al posto delle quattro auto c’erano solo strisciate di pneumatici lunghe qualche decina di metri. In un altro attacco catturammo l’allora Ten. Teobaldi della C.E.PAR. che si vide uscire da una A112 due Grifi armati. Il Tenente e l’autista furono scortati a base Alpha ma durante il tragitto Teobaldi pur con le mani legate dietro la schiena fuggi unseguito da una raffica di F.A.L. che in caso reale avrebbe messo fine alla corsa. Devo precisare che comprendo bene l’atteggiamento del Tenente, meglio una fuga da Highlander che le ire del Cap. Celentano. A base Alpha erano giorni splendidi di puro divertimento finché il nostro addetto alla radio, solito coglione, ogni compagnia ha i suoi, rivelò ad un furbo radiotelegrafista della C.E.PAR. la posizione della base. Nel giro di 10 minuti base Alpha venne evacuata ed iniziò una precipitosa ritirata. Dulcis in fundo cominciò a piovere e durò ininterrottamente per quattro giorni. In tre giorni ci portammo da base Alpha non toccando strade per non essere visti fino all’aereoporto di Tassignano. La marcia forzata sotto la pioggia battente fu veramente dura era febbraio e faceva un freddo cane, la notte dormivamo abbracciati per riscaldarci l’un l’altro. Avendo inoltre dovuto lasciare praticamente tutto all’infuori di armi e munizione alla base l’unica cosa che riuscivamo a mangiare era qualche cesto di insalata strappato in qualche orto che trovavamo lungo il cammino colto e consumato senza smettere di camminare. Arrivati a Tassignano non ne potevamo veramente più e non vedevamo l’ora di tornare all’Hotel Vannucci in quel dell’Ardenza. Avevamo fatto però i conti senza la burocrazia da sempre nemica della logica. L’esercitazione era stata programmata per finire il giorno successivo e pur avendo conseguito tutti gli obbiettivi avevamo commesso l’errore di arrivare un giorno prima. Il ten Fusari si mise in contatto con il comando ( il suo ascesso aveva raggiunto le proporzioni di una mongolfiera). Dal Comando Brigata arrivò la risposta alla nostra richiesta di evacuazione : “Disponetevi per la notte a difesa zona lancio, sarete evacuati all’alba”. Ti puoi immaginare che dopo 4 giorni sotto la pioggia ed il gelo sognando una doccia calda ho seriamente pensato al suicidio. Dopo circa un’ora eravamo comunque riusciti ad accendere un flebile fuoco nella palude dove eravamo e ci siamo riscaldati scherzando ed intonando i nostri canti per tutta la notte fino all’alba quando i camion della Sesta sono venuti a prenderci. (….)
Spero di non aver annoiato chi leggerà questi ricordi vecchi di vent’anni ma ancora freschi dentro di me. Da contatti che ho con alcuni camerati della Sesta che sono rimasti e prestano servizio attualmente nella Brigata so che episodi del genere sarebbero oggi irripetibili sia per situazioni contingenti che per carenza di motivazione sia degli ufficiali che dei singoli parà. Mi diceva questo mio amico che saluto (ciao Francesco) che adesso per fare una pattuglia di due o tre giorni a comandarla ci vuole quasi un generale. Per me come per ogni comandante di squadra era la norma uscire da solo con i suoi uomini in pattuglia anche per due o tre giorni. Per chi deve partire per la SMIPAR, un consiglio: cercate di vivere l’anno nella Brigata con entusiasmo, rimarrà il più bello della vostra vita e vi servirà anche nel futuro per superare gli ostacoli che immancabilmente vi troverete davanti. Nel mio lavoro sono continuamente in contatto con tante “piccinerie umane” ( sono architetto libero professionista ) con tante cose che nella “cosa pubblica non funzionano”. Nel mio studio sulla scrivania ho il crest del Secondo Battaglione e non immaginate quante volte il guardarlo mi da la forza di andare avanti in situazioni in cui verrebbe la voglia di gettare la spugna. Questo è lo spirito della Folgore che ti guida sempre e ti aiuta a non arrenderti mai anche dove le armi non servono.

Da questo racconto che il signor Alessandro ha affidato alla rete paiono evidenti la creatività, la libertà d’azione e la fiducia nel soldato di leva che caratterizzavano i nuclei operativi della Folgore non molti anni or sono, ma anche la partecipazione cosciente ed attiva del soldato ad un addestramento a dir poco massacrante.
Nell’esercito “routinizzato” gli spazi per un’informalità di tipo funzionale sono ormai completamente assenti nelle fasi addestrative. Le uniche concessioni ad un comportamento “fuori dagli schemi” vengono fatte al caporale inquadratore, solitamente scelto tra le reclute meno sensibili agli attacchi dell’istituzione e con naturali doti di leadership, potenzialmente pericoloso ma annientato e gratificato attraverso la cooptazione. Tale pratica e stata osservata da Etzioni in un diverso contesto normativo: “se in una parrocchia sorgono leaders informali abbastanza potenti da minacciare la posizione di leadership del parroco, questi tenderà a reclutarli e a renderli leali dando loro incarichi ufficiali nell’ambito dell’organizzazione” . Ecco alcune testimonianze di e sui caporali istruttori:

Avevo un caporale istruttore tale e quale il sergente di “Ufficiale gentiluomo”, alle volte era quasi brutale…ovviamente senza passare il limite, sono arrivato ad odiarlo ma oggi ci penso e mi accorgo che era tagliato per quell’incarico. (G. M., 1965, int. del 23-01-01)
A volte i caporali, per punizione collettiva ci portavano a correre la notte. (P. C., 1965, int. del 12-12-01)
Durante il giorno il caporalmaggiore istruttore si segnava i nomi di chi sgarrava e la sera li sbrandava. Oppure tirava i materassi dalla finestra e le scarpe. La mattina dopo la colazione ci davano cinque minuti per ritrovare ognuno le sue cose. Tutti vedevano ma nessuno diceva niente. (L. V., 1979, int. del 02-02-01)
Penso che il 95% del comportamento dei caporali istruttori era fuori dal regolamento ma serviva forse ad incoraggiare e selezionare. (M. C., 1980, int. del 19-02-01)
I caporali hanno iniziato ad urlare già in stazione e io mi chiedevo chi me l’aveva fatto fare. (F. M., 1972, int. del 21-02-01)
I caporali erano terribili e gli ufficiali lo sapevano…forse era un metodo per selezionare il personale. (M. B., 1993, int. del 06-12-00)
I caporali mi sembravano in caserma da dieci anni…erano severissimi, ci facevano correre nei corridoi e tutte le sere dovevamo passare la cera infiammabile. (G. A.,1994, int. del 05-03-01)

7.6 Nonnismo: “concezione angelica” contro “concezione demoniaca”.
Rifacendosi a Ziegler (1968), Van Doorn (1976), George (1971), Geser evidenzia come il rapporto dell’organizzazione formale con il gruppo primario sia in linea di principio ambivalente :
-da una parte ci sarebbe tra queste una relazione di “complementarietà simbiotica”. Soddisfacendo numerosi bisogni individuali che non possono essere ben esauditi da parte dell’organizzazione formale, i gruppi informali forniscono ai soldati una stabilità psicologica e rappresentano valide sottounità che si autoregolamentano e sono in grado di assolvere autonomamente a determinati compiti. In questo caso si legittima quella che Bonazzi definisce la “concezione angelica” del potere informale, funzionale all’esercizio di norme e obiettivi dell’istituzione.
-d’altra parte, però, i gruppi informali pongono continui limiti all’influenza dell’organizzazione formale nel momento in cui coltivano modelli di valore e regole di comportamento autonomo e spesso deviante e quando, creando vincoli di solidarietà particolaristici (buddy sistem), riducono la mancanza di difesa del singolo nei confronti dell’organizzazione militare. In questo caso opera la “concezione demoniaca” del potere, volta a rilevare la “faccia sporca” di esso, giudicato completamente disfunzionale agli obiettivi dell’organizzazione.
Come quasi sempre accade, una visione che si pretenda critica sconsiglia di sposare l’una o l’altra di due concezioni ma di rilevare semmai quali siano le condizioni ambientali che favoriscono ora l’una ora l’altra.
Tralasciando la questione dello staff professionale, il potere nella truppa si esprime prevalentemente attraverso il nonnismo. La questione di quanto questo fenomeno sia funzionale e perciò legittimato dalle gerarchie oppure si presenti come potere parallelo e quindi nocivo al sistema è da sempre stato oggetto di dibattiti dilettantistici e Battistelli stesso sembra trarre conclusioni perlomeno affrettate e la cui sostanziale correttezza risulta del tutto casuale poiché non sorretta da un adeguata analisi teorico-empirica.
Battistelli scrive:

L’intensità della gerarchia informale e la sua accettazione da parte di quella formale si rivelano direttamente proporzionali all’asprezza delle condizioni ambientali (privazioni materiali e psicologiche, isolamento, carico di lavoro): tanto più severe cioè, sono, le condizioni di vita, tanto più radicato (e tollerato da parte della gerarchia formale) è il nonnismo. E’ così che questo fenomeno è stato, ed è in parte tuttora, assai forte in corpi (tipicamente ma non unicamente i paracadutisti) caratterizzati da intensa disciplina, elevato grado di attività, difficili condizioni ambientali* mentre si attenua via via che diminuisce l’operatività dei reparti.
*le medesime caratteristiche danno vita allo “spirito di corpo”, cioè all’autoidentificazione in una élite fondata sulla qualità, laddove il nonnismo è autoidentificazione in una élite fondata sull’anzianità.

Questa interpretazione risente di tre punti di partenza erronei.
1) In primo luogo l’autore non esce dallo stereotipo della super operatività dei reparti paracadutisti di leva, che se negli anni è andata costantemente diminuendo, ha raggiunto livelli minimi proprio negli anni (1998-1999) in cui l’inchiesta è stata condotta.
2) Secondariamente egli non distingue il nonnismo che si sviluppa nelle caserme non operative dei paracadutisti (e di cui il racconto personale dell’autore dà ampi ragguagli) da quello che si sviluppa, o meglio, si sviluppava, nelle caserme operative, dove effettivamente la disciplina e il controllo erano più rigorosi.
3) Infine Battistelli identifica erroneamente lo “spirito di corpo” come qualcosa che sorge spontaneamente in regimi ad elevata disciplina e in condizioni ambientali difficili (vedi qui il par. 4.6, p. 74).

7.7 Una questione di contesto.
Nei C. A. R. la recluta si trova in mezzo a centinaia di sconosciuti ma nel giro di poche ore stringe amicizia con alcuni commilitoni; i gruppi che si vanno così formando offrono una difesa agli assalti dei caporali inquadratori addetti alla “socializzazione” iniziale (reclutati, come i caporali nelle piantagioni di cotone o i Kapò nei campi di concentramento, tra gli stessi soldati di leva). Il gruppo che si viene così a formare è funzionale al benessere del singolo individuo.
Le compagnie operative monoscaglione rappresentano quella che dovrebbe essere la naturale e logica continuazione dell’addestramento reclute o perlomeno l’unica maniera di renderlo funzionale. In queste compagnie, che però accolgono un’esigua minoranza del personale di leva, il rigore disciplinare si mantiene elevato e non a caso, come nei C.A.R., si ricorre all’utilizzo di caporali istruttori di leva. In un contesto siffatto la formazione di un peer group coeso sembra essere garantita dalla condivisione di un lungo e impegnativo periodo formativo a contatto con i medesimi compagni.
L’esperienza comune a tutti i militari ma troppo breve del C.A.R. e quella più importante, ma affrontata da una percentuale esigua di soldati, delle compagnie monoscaglione, risultano le sole a garantire la formazione di un solido gruppo primario, potenzialmente plasmabile e utilizzabile a fini istituzionali:

Le amicizie vere – dicono tutti – si fanno al C.A.R., quando si è tutti accomunati dalla stessa condizione di recluta e si è lontani da casa: poi (…) si comincia a mercanteggiare il proprio lavoro in permessi e licenze. Si può essere “gratificati” dagli “sfoghi” che ogni tanto un altro ascolta, ma si resta sempre “spersonalizzati e individualisti.”

Al contrario, nelle compagnie pluriscaglione, tantopiù se non operative, la recluta proveniente dal C.A.R. percepisce un netto calo nella disciplina (il caporale o caporalmaggiore di leva nelle compagnie pluriscaglione ha potere in quanto anziano ma l’autorità che gli deriva dal grado è nulla). Questa situazione è dovuta al fatto che la gerarchia legata all’anzianità di servizio sarà considerata più o meno consciamente un sostituto altrettanto efficiente dei caporali inquadratori nel frammentare e controllare le tensioni interne alla compagnia. In questo contesto la formazione di un solido gruppo di pari, non escludibile a priori, risulta comunque problematico; la presenza di gerarchie basate sull’anzianità (che tendono a dividere piuttosto che a unire), il ricambio continuo di personale e la natura stessa delle mansioni (che riprendono più la specificità delle attività civili che di quelle militari), sembrano essere i fattori disgreganti principali. A riprova di quanto espresso, anche Savage e Gabriel hanno riscontrato come il turnover di personale durante la guerra del Vietnam, assieme alla perdita di professionalità degli ufficiali, espressa dal pervadente fenomeno del “carrierismo manageriale” siano state tra le cause principali della dissoluzione del gruppo primario.

7.7.1 Nonnismo, tra operatività e non operatività.
La classificazione del fenomeno nonnismo fatta qui di seguito delinea le forme sotto le quali il nonnismo tende a presentarsi a seconda del contesto operativo o logistico del reparto. Suddetta classificazione non pretende di essere esauriente, né esclude commistioni tipologiche tra ambiente operativo e non operativo; semplicemente si sono individuate le forme rilevatesi in ciascuno empiricamente prevalenti.

Compagnie operative.
Nelle compagnie operative il numero decisamente più ridotto di militari e la natura stessa dell’attività svolta, favoriscono e richiedono un controllo gerarchico molto più elevato. In queste condizioni si può con sicurezza affermare che il nonnismo inteso come gerarchia parallela non troverà ampi interstizi dove potersi sviluppare e quella che si verrà a creare apparirà piuttosto come una prosecuzione informale della catena di comando e sarà per questo non solo tollerata ma ufficiosamente accettata:

L’anzianità era data per scontata e devo dire che nelle compagnie operative la cosa funzionava bene, mentre ricordo che in CCS, Manutenzione, etc. il nonnismo diventava un modo per passare il tempo, in mancanza di altro da fare. (1984, n°20)
Da noi non c’era nonnismo ma rispetto della disciplina e l’anziano serviva a farla rispettare. L’anziano era l’anziano, ma quando puniva doveva spiegare il perché…”pompa perché hai gli stivali sporchi…o l’armadietto in disordine”. Le stesse punizioni le davano ufficiali e sottufficiali…meglio le pompate che la consegna, no? (M. S., 1987, intervista del 04-04-01)

La funzionalità di questo genere di nonnismo è però certamente limitata alla vita di caserma o al massimo a quella addestrativa ma non si è dimostrata in grado, salvo in rarissimi casi, di favorire stima e fiducia interpersonale tra commilitoni con livelli di anzianità differente; risulterebbe in definitiva inutile in situazioni di reale impiego. Raramente infatti, tra “giovani” e “anziani” si instaura un rapporto di amicizia, nemmeno nelle compagnie operative:

Al C.A.R. eravamo tutti amici ma al corpo ho fatto due sole amicizie molto forti con due miei pari scaglione, era con loro che andavo in libera uscita, mica coi più anziani che in caserma ti facevano sclerare. (M. S., 1987, int. del 04-04-01)
Quante volte si legge sulla borsa di un paracadutista ”amici per sempre!” ma costui sarebbe veramente disposto a rischiare la vita per salvare un commilitone? Girando per le caserme (“Lustrissimi” e “185°” di Livorno, “Huber” e “Vittorio Veneto” di Bolzano) notai che era diffuso un certo spirito di corpo formale di cui solo una parte veniva tradotta in realtà. (1996, n°65)

Le compagnie operative possono essere di due tipi: compagnie monoscaglione e compagnie miste.

Compagnie operative monoscaglione.
La composizione in base alla medesima data di reclutamento rende impossibile il sorgere di gerarchie legate all’anzianità all’interno della compagnia, ma il fenomeno è comunque presente nei luoghi di comune accesso (mensa, spaccio, palestra, cinema) e nello svolgimento dei servizi:

L’anziano passava avanti agli allievi della sua compagnia in refettorio, al cinema stava nella tribuna delle autorità. C’era poi lo sbrandamento di scaglione…che ci venivano a fare quelli della compagnia più anziana…ci avvisavano prima però: togliete le cose fragili dagli zaini ecc… (M.L., 1971, intervista del 13-12-00)
E’ vero, l’anziano non faceva più i turni di guardia (erano quasi tutti graduati e facevano il capoposto) o le corvè cucina, ma uscivano in addestramento come e quanto gli allievi. (1975, n°9)
In artiglieria esistono le batterie che sono composte tutte da soldati dello stesso scaglione, l’unico atto di nonnismo erano le visite notturne delle altre batterie e il sorpasso della coda in mensa. (1992, n°48)
Le compagnie erano monoscaglione perciò il contatto con gli anziani avveniva solo in mensa (tavoli riservati agli anziani, mangiare per ultimi, corvé frequenti ecc..). (1996, n°68)

Che il nonnismo sia inveterato nella truppa lo si evince dal fatto che esso è sempre pronto a sorgere laddove ci sia la compresenza, magari casuale, di militari con diversa anzianità di servizio:

Il problema del nonnismo non riguardava noi. C’è solo un particolare che ricordo. Quando dalla scuola di paracadutismo di Pisa siamo passati al Corpo abbiamo trovato nella 4a Cp quelli dell’anno precedente che a causa di qualche giorno di rigore erano stati costretti a prolungare la permanenza nella Folgore (i cosiddetti “inquadratori”). Ufficiali e sottufficiali sottolineavano il fatto che questi in nessun modo avrebbero potuto e dovuto rendersi protagonisti di atti di nonnismo nei nostri confronti. Nel caso si fossero verificati eravamo invitati a denunciarli. Qualche inquadratore si è reso protagonista di atti di nonnismo ma il tutto, ripeto, è durato pochissimi giorni. Tuttavia nessuno di noi ha denunciato niente. (1992, n°46)

Gli unici soldati di leva con un’anzianità di servizio maggiore presenti all’interno di queste compagnie erano i caporali/caporalmaggiori istruttori con compiti di inquadramento e comando sottoposto. Questi vengono reclutati tra il personale graduato delle compagnie più anziane per la competenza acquisita e la predisposizione al comando; la loro posizione di leader viene regolarizzata attraverso l’assegnazione del grado. La loro funzione è quella di coadiuvare lo staff professionale nell’istruzione e l’addestramento delle compagnie più “giovani” e, come accade nei C.A.R., essi possono utilizzare metodiche addestrative fuori dal regolamento:

I nostri caporali facevano a gara a chi ci spompasse di più (solo i primi periodi). (1985, n°24)
Solo una volta un inquadratore mi ha fatto pompare un po’ più del normale, forse per sclero; generalmente ci spingevano a denunciare comportamenti anomali. (F. M., 1991, intervista del 21-02-01)

Sono forse soltanto queste le compagnie in cui con maggiore probabilità si sviluppa un gruppo primario veramente solido, unito dall’esperienza di una crescita comune e guidato da una leadership che, pur se di leva, è legittimata ufficialmente nel suo ruolo. In Battles Studies (1958) il col Ardant Du Picq notava: “Un’organizzazione saggia si assicura che il personale dei gruppi combattenti cambi il meno possibile, in modo che i commilitoni delle manovre in tempo di pace diventino commilitoni in tempo di guerra”, il dovere dell’obbedienza, il diritto di imporre la disciplina, l’impossibilità di sottrarsi ad essa seguiranno naturalmente alla fratellanza, alla conoscenza personale, al sentimento di unità.

Compagnie operative miste.
Le compagnie pluriscaglione hanno molte più difficoltà, causa il turnover di personale e i rapporti viziati dall’anzianità, a realizzare al proprio interno una fratellanza che, se ideale in guerra, in tempo di pace richiede un controllo più puntuale e uno sforzo organizzativo maggiore.
In questi frangenti, non essendo possibile assegnare un grado a tutti gli anziani, si tende a far valere il principio secondo cui “l’anzianità fa grado”. La sostanziale accettazione di questa leadership informale è dovuta a tutta una serie di motivi legati al mantenimento della disciplina simili a quelle presenti nelle compagnie comando e servizi o logistiche ma con un controllo e una supervisione maggiori.

Oltre a far pompare, l’anziano non poteva influire granché sull’allievo poiché c’era molto controllo ufficiale. (M. S., 1987, 04-04-01)

Il principio del divide et impera funzionava tacitamente, favorendo la formazione di gerarchie informali, raramente di un gruppo primario coeso e con dei rapporti che vanno al di là di quelli di servizio.

Gli aspetti organizzativi che paiono caratterizzare entrambi i tipi di compagnia operativa sono i seguenti:
-Il rapporto numerico tra personale di leva ed effettivo (ufficiali e sottufficiali) è tale da garantire un efficace controllo del personale.
-L’addestramento duro ed uguale per tutti lascia poco spazio al senso di privazione relativa e alla noia, due costanti nel servizio militare tra gli “imboscati”.
-L’operatività permette che si acquisisca col passare dei mesi una competenza militare effettiva e non soltanto legata alla maggiore confidenza col sistema caserma. Questo legittima in qualche modo lo status di “anziano” come effettivamente superiore e non solo preteso tale, rispetto a quello di “novellino”:

L’anziano che io ho conosciuto ed a cui mi sono rifatto, era il fratello maggiore che dispensava consigli su cosa mettere nello zaino prima di una pattuglia o viceversa cosa non mettere in vista di un’esercitazione più lunga. Cosa mangiare di una “razione K” o dove potersi riposare senza farsi beccare; praticamente i trucchi del mestiere acquisiti con l’esperienza. (1975, n°9)
Tali gerarchie venivano sfruttate non per vessare, ma per trasferire l’esperienza ai novellini…la CEPAR era una compagnia dura, quindi l’esperienza degli anziani era assolutamente preziosa; se facevi cazzate allora era un altro discorso, ma niente di terribile. (1978,n°14)
L’esperienza dell’anziano dava maggior affidabilità allo staff che doveva assegnare qualche compito delicato nell’ambito delle esercitazioni. (1980, n°16)
Durante l’addestramento i nonni erano quelli che effettivamente ti addestravano sulle cose pratiche(come muoversi in pattuglia, cosa mettere nello zaino, come imbracciare le armi, ecc..). Il prezzo di tutto ciò erano le “pompate”, le brande e così via. (A. S.,1982, libro degli ospiti di “folgore.com”, 02-09-99)
L’anziano era, sotto il controllo dei grandi capi, il vero e proprio istruttore degli allievi: ciò li rendeva responsabili di parte dell’addestramento degli allievi. Dato il numero ristretto e gli incarichi di cui sopra, era naturale che la confidenza tra soldati anziani e capi aumentasse con il tempo. (1983,n°18)
Graduati ed anziani avevano il posto che teoricamente avrebbe dovuto essere dei sergenti, che invece erano quasi assenti e piuttosto scazzati. (1984,n°20)
Per gli ufficiali l’anzianità era soltanto una qualità che aumentava l’affidabilità del paracadutista per ovvia maggiore esperienza. (1984, n°22)
Le firme davano gli ordini in generale, ed erano gli anziani a farli eseguire a ogni singolo allievo, curando che non saltasse per aria lui e i suoi camerati o qualche assaltatore che stava facendo addestramento. (1985, n°25)

-La coscienza di esercitare un ruolo propriamente militare favorisce il cementarsi di un’identità di gruppo tra gli appartenenti a queste compagnie (ma non ancora assimilabile ad un vero e proprio spirito di corpo) e che si esprime spesso nel disprezzo per chi svolge incarichi militarmente meno significativi:

La competizione tra noi del “C.E.Par.” e il “5°” era continua. Il nostro capitano ci inquadrava a parte e ci faceva sentire superiori. (M. S., 1979, 19-12-00)
I fanti della comando aprivano il sopra delle tasche pettorali per infilarvi le posate (ignominia!). (1989, n°33)
L’ostentazione di certi comportamenti, come camminare con le mani in tasca e il bavero alzato era diffusa tra gli imboscati della CCS. (F. M., 1991, 21-02-01)

-La natura delle mansioni svolte, rendendo indispensabile un contatto prolungato e a volte in condizioni ostili tra la truppa e i quadri, può favorire l’identificazione carismatica dei primi nei secondi e le figure del ”lavativo” e dell’“eroe” , entrambe giudicate devianti da parte del gruppo, saranno in tale contesto facilmente identificabili:

Per un certo periodo un allievo venne preso di mira con gavettoni notturni, poi si scoprì che erano i suoi “fratelli di naia “ che lo bersagliavano perché a loro giudizio era un lavativo. Il lavativo fu trasferito e la Compagnia punita per la totalità dei componenti; unico atto di nonnismo. (1975, n°9)

-Gli ufficiali, conoscendo bene i propri militari e coscienti della propria influenza carismatica, ripongono una maggior fiducia nelle capacità autoregolative della truppa e quindi una maggiore accettazione della leadership informale degli “anziani”, ritenuta responsabile della socializzazione dei nuovi arrivati all’interno della compagnia:

L’anziano era da noi come un caporale…poteva proporre licenze e punizioni al capitano, gli riferiva i problemi della compagnia. (M. S., 1979, int. del 19-12-00)

Compagnie operative e nonnismo.
Vediamo quindi quali declinazioni caratterizzino il “nonnismo”, tipico esempio di “potere senza autorità”.

Nonnismo come residuo di un non completato processo di civilianisation.
In un breve saggio del 1998 Donna Winslow utilizza il termine civilianisation per indicare il processo che porta le organizzazioni militari in tempo di pace a richiedere personale con capacità tecnico-amministrative simili a quelle richieste nella società civile. In questo modo alcune aree dell’esercito tendono ad assumere valori propri della società civile mentre altre, spesso coinvolte in “reality-checks” rimangono più tradizionalmente militari: in quest’ottica, i paracadutisti, attraverso operazioni di peace-keeping e comunque con l’addestramento lancistico, si suppone abbiano mantenuto attivo una sorta di face to face con il pericolo reale.
Riprendendo la distinzione di Mintzberg tra “burocrazia meccanica” e “burocrazia professionale”, alcuni studiosi hanno ipotizzato un possibile processo di sviluppo della cultura organizzativa militare: questa sarebbe passata da Burocrazia meccanica con personale ad orientamento istituzionale a Burocrazia meccanica con personale ad orientamento occupazionale per terminare la propria evoluzione in Burocrazia professionale con personale ad orientamento occupazionale. Dove questo processo “snaturante” l’ideolgia militare non è avvenuto oppure è stato introdotto in maniera più graduale, o ancora ove vi sia un forte attaccamento alla propria atipicità, si può più facilmente assistere a comportamenti tanto informali quanto tipicamente militari.
In tempo di pace lo status e l’autoimmagine del militare operativo diventa problematica:

Soldati altamente coinvolti nel proprio ruolo possono iniziare a credere di essere circondati da scartoffie e burocrati in uniforme che non condividono il pensiero che la vera funzione del militare è combattere o al massimo prepararsi per la guerra (Cotton and Pinch).

Un orientamento simile può provocare un’autoemarginazione dei reparti operativi che si chiuderanno in se stessi, nostalgicamente legati al passato. Questo può facilmente portare a riconoscere nella pratica del nonnismo e dei suoi rituali una tradizione “maschia” e tipicamente militare, da mostrare con orgoglio proprio quando all’esterno si stanno facendo strada istanze più legate ad una visione manageriale delle forze armate, che tendono ad opporsi a tali reminiscenze:

Sono le ultime scintille di quella sana, autentica e maschia tradizione militare che va scomparendo”, dice deluso un ufficiale.

Nonnismo rituale come riduttore d’incertezza.
Con “nonnismo rituale-istituzionale”, intendiamo riferirci a tutte quelle cerimonie, oggi quasi del tutto scomparse, che hanno caratterizzato i reparti dell’esercito che per impiego e tradizioni sono dotati di un maggiore spirito di corpo. In questo campo hanno fatto scuola gli alpini, i cui cerimoniali di accoglienza delle reclute hanno in parte colonizzato i neo costituiti reparti paracadutisti.
Sotto questa forma il nonnismo si presenta nella sua accezione positiva per segnare l’ingresso e l’appartenenza ad una comunità nella quale ci si identifica e la cui sopravvivenza è basata proprio sulla lealtà dei membri che la compongono.
Rientrano in questa gamma tutti quei riti di iniziazione, canzoni e gergo che caratterizzano alcune comunità, non necessariamente militari.
Come hanno constatato rispettivamente Roger W. Little in Relazioni tra commilitoni e prestazioni in combattimento e A. W. Gouldner in Modelli di burocrazia aziendale , combattere o lavorare in condizioni di pericolo porta alla liquefazione dei rapporti formali e al prevalere della competenza sulla scala gerarchica ufficiale.
Gouldner (1954), in particolare, avanza un paragone tra minatori e militari al fronte:

Non è errato paragonare gli operai che lavorano al fronte della miniera ai soldati in prima linea. Ogni soldato che conosce le condizioni in cui si svolge una battaglia sa che gli ufficiali al fronte si comportano piuttosto diversamente che non al campo di addestramento. Quando i capi si trovano a vivere la stessa situazione pericolosa insieme ai subordinati, le relazioni rigide e formali diminuiscono in modo notevole.

In questi frangenti è possibile assistere al formarsi di consuetudini, riti e gerghi ad hoc all’ interno del gruppo che si sentirà così più coeso. Quale sia l’importanza di questa coesione di gruppo in battaglia è stato dimostrato dall’equipe di Stouffer (American Soldier), secondo la quale il sentimento di lealtà verso i compagni (14%) è secondo soltanto al desiderio di “farla finita” (39%) e di gran lunga più motivante rispetto all’interiorizzazione di valori tipicamente militari quali onore patria e bandiera (5%).

Nonnismo come forma di autocontrollo.
Il nonnismo può essere legittimato o quantomeno accettato dalla gerarchia istituzionale per ovviare ad un deficit di supervisione: sarebbe infatti costoso in termini di risorse umane e inopportuno, estendere oltre il CAR e il Corso palestra e comunque dopo l’orario addestrativo un rigido controllo della truppa. L’autocontrollo fra commilitoni è d’altra parte incoraggiato da precise quanto classiche strategie disciplinari come la “punizione collettiva”.
In questo modo il soldato impara a dipendere dai suoi compagni e a controllarne l’adeguatezza delle performance. Ecco cosa scrive Cotton, ripreso da Donna Winslow, sugli “effetti collaterali” di questa strategia:

Il gruppo è responsabile di ogni suo membro (Rampton, 1970:16,18), sebbene possa sembrare manifestamente sbagliato far soffrire il gruppo per le colpe di uno solo. In questa maniera i soldati imparano a dipendere dai loro compagni e dall’adeguatezza delle loro performance. Gli eccessi a cui ciò può portare sono dimostrati da un fatto accaduto al CFB di Gagetown, dove, in un corso per ufficiali di complemento, un militare è stato picchiato, tormentato e maltrattato dai suoi commilitoni perché disordinato e disorganizzato. “Il suo letto era fatto male e con questo metteva nei casini gli altri della sua camerata. Così lo picchiavano e l’insultavano.”

Questa incitazione all’autocontrollo, utilissima in situazioni di reale pericolo, può legittimare, specialmente ove vi sia la compresenza di militari di contingenti differenti, il potere dei più “anziani” sui più “giovani”. L’utilizzo a fini istituzionali dell’autocontrollo deve comunque tenere conto delle sopraffazioni a cui può dar adito; come ogni altro interstizio lasciato libero dal controllo ufficiale, esso verrà immediatamente occupato e gestito da un gruppo eterogeneo di persone tra le quali sentimenti di frustrazione e rivalsa possono sempre fare capolino. Generalmente quest’espressione del potere informale può dar adito ad un nonnismo più sensato rispetto a quello fine a sé stesso delle compagnie non operative, il pericolo nasce quando esso viene utilizzato come valvola di sfogo in un ambiente duro per tutti, “giovani” o “anziani”.
Ovviamente, nelle compagnie monoscaglione, il fatto che non ci sia di mezzo una gerarchia dell’anzianità a dividere il gruppo e che si sia condiviso un percorso di crescita all’interno dell’istituzione, fa sì che le sanzioni derivanti da quest’autocontrollo si riversino con maggior probabilità su chi, con il proprio comportamento “eroico” o “lavativo” costituisca un effettivo problema per il benessere del gruppo. In questo caso il problema per l’istituzione potrebbe essere causato dal formarsi di una eccessiva lealtà al gruppo che potrebbe minare il conseguimento degli obiettivi istituzionali. Questo è quanto sembra essere avvenuto nell’esercito canadese di stanza in Bosnia-Herzegovina tra l’Ottobre 1993 e il Maggio 1994, come documentato dall’antropologa Donna Winslow, incaricata di studiare come la coesione di gruppo possa portare alla legittimazione di atti di indisciplina e insubordinazione sul campo e all’omertà in occasione delle indagini per scoprirne i responsabili.

Compagnie logistiche.
La più tipica tra le compagnie non operative e quella imputata di avere il più alto tasso di “imboscati” è solitamente la Compagnia Comando e Servizi. La caratteristica principale di queste compagnie è di avere un personale di leva numeroso, a fronte dell’esiguità numerica del personale effettivo. Inoltre, le mansioni svolte (servizi mensa, uffici, trasporti, minuto mantenimento ecc) richiedono un turnover continuo di personale e di conseguenza la presenza simultanea di militari appartenenti a più scaglioni differenti. Anche all’interno di queste compagnie tende a nascere spontaneamente una gerarchia informale basata sull’anzianità, ma con origini e finalità molto differenti rispetto a quelle osservate nelle Cp. operative. Le cause sono molteplici:
-Ammesso e non concesso che il soldato avesse sentito, in un primo momento, il desiderio di fare il servizio militare in un reparto operativo, nel momento in cui razionalizza di essere destinato a mansioni d’appoggio, dopo un primo breve periodo di delusione, ridefinisce i propri obiettivi ed entra nell’ottica dell’imboscato: permessi e licenze diventeranno l’unico suo desiderata e sarà in base a questi che contratterà le sue prestazioni all’interno dell’istituzione.
-Le frustrazioni a cui si va incontro non sono legate soltanto alla mancata operatività ma anche alla natura del lavoro stesso che può essere, come nel caso degli addetti mensa, molto pesante, sia a livello di orario che di salubrità dell’ambiente lavorativo:

Sicuramente nella compagnia comando si verificano atti di nonnismo, specie in quelle camerate dove il lavoro quotidiano è più stressante (es. addetti alla mensa). (D. A., 1989, messaggio n° 1893 del 04-09-99 sul libro degli ospiti di Folgore.com)

-Il rigore disciplinare in queste compagnie cade verticalmente rispetto a quello preteso durante i corsi. Questo può causare un rapido adattamento alla nuova situazione, e quel poco di disciplina richiesta viene percepita come altamente frustrante; tanto più che questa viene esercitata da una gerarchia incapace di guadagnarsi la stima della truppa a causa del tempo ridotto trascorso in servizio e dell’orientamento prevalentemente occupazionale e poco impegnato sviluppato nei confronti del proprio ruolo.
-La “smilitarizzazione” di questi ambienti è evidente anche nell’inflazione subita dai graduati di truppa: l’assegnazione del grado segue criteri poco chiari, è spesso assegnato d’ufficio e non corrisponde a reali competenze e capacità.
-Il senso di inutilità e la noia nello svolgere il proprio incarico rendono assurde e inconcepibili le regole della vita militare agli occhi del soldato.
-Con il passare dei mesi, invece di aumentare la propria competenza in materia militare, aumenta la sicurezza con la quale si riesce ad ottenere il massimo dei vantaggi personali all’interno dell’istituzione e consiste unicamente in questa capacità, teoricamente avversa agli obiettivi istituzionali, la qualità che distingue un “anziano” da un “novellino”.

Compagnie logistiche e nonnismo.
Questa diversità fa sì che diverse siano anche le forme di devianza, e fra queste il nonnismo, che in esse si sviluppano. Si ipotizzano qui di seguito, nell’ordine decrescente in cui sembrano presentarsi, alcune interpretazioni:

Nonnismo come “annidamento”.
Risultato del riconoscimento, da parte dell’internato, delle zone scoperte o aggirabili del regolamento con la conseguente creazione di nuove norme per regolare diritti e doveri tendenti alla “riappropriazione del sé”. La capacità di “lavorarsi il sistema” è direttamente proporzionale al grado di conoscenza di esso ed aumenta quindi con l’anzianità di permanenza nell’istituzione. Un tipico esempio di “annidamento” e relativa capacità di sfruttare al massimo i vantaggi offerti dalla propria posizione ci viene offerta attraverso questa testimonianza:

Ero l’addetto all’ufficio motorizzazione più anziano e se n’è arrivato un capitano nuovo che era stato operativo e della vita d’ufficio non ne capiva niente. Io ho approfittato della situazione e, anche se non avevo fatto il corso patenti nemmeno da civile, sono riuscito a farmi le carte per la conversione militare. Ho risparmiato un bel po’, eh? (G. A., 1994, int. del 05-03-01)

Nonnismo come conseguente all’inadeguatezza dell’azione di comando.
La notevole differenza tra la rigida disciplina richiesta al soldato durante il C.A.R. e Corso palestra e la relativa licenziosità successiva, particolarmente evidente se si viene assegnati a battaglioni non operativi e comunque con mansioni di appoggio (come avviene oramai per i soldati di leva) porta con se delle conseguenze inevitabili sull’equilibrio psichico del neo incorporato. Questa caduta di tensione subito evidente (non è più richiesto il saluto formale dai caporali, non si fanno più lunghe code per ogni esigenza vitale) porta istintivamente il soldato ad assumere un atteggiamento di superiorità nei confronti di chi è ancora assoggettato ad una disciplina soffocante o ne è uscito da meno tempo, presentando ancora l’atteggiamento goffo della recluta.
Lo stesso utilizzo di personale di leva per gli incarichi di caporale istruttore, sfruttando palesemente il “complesso dello schiavo”, può provocare sentimenti di frustrazione che trovano poi risarcimento nei confronti degli ultimi arrivati; non a caso gli ordini impartiti dai nonni, in queste compagnie più che in quelle operative, scimmiottano spesso il regolamento militare (block, passo, cadenza, chiamata di controllo ).

Nonnismo come merce di scambio.
La gerarchia parallela del nonnismo può anche essere pensata come concessione, da parte dell’istituzione, alla formazione di microprivilegi (in cambio del consenso sulle norme fondamentali) che garantiscano comunque il mantenimento di un making-out corrispondente al livello minimo di produttività tipico dell’esercito in tempi di pace. Nonostante ad un primo sguardo la gerarchia parallela dell’anzianità, favorendo i tipici adattamenti secondari, possa risultare antagonista di quella ufficiale, essa può quindi svolgere un ruolo importante come valvola di sfogo a soddisfazioni vicarie, estremamente importanti in una condizione di perdurata frustrazione di alcuni bisogni primari. In effetti, pur con tutti i dovuti distinguo, il nonnismo, come i “giochi di produzione”, ha una profonda ambivalenza: può rappresentare il risarcimento che i militari trovano per le frustrazioni provocate dalla sottomissione gerarchica ma anche il meccanismo più efficace affinché i militari si impegnino nel lavoro, scordandosi in parte di essere in un regime coercitivo. Ad una conclusione simile pare essere arrivato Gouldner, quando, nell’analisi delle funzioni manifeste o latenti delle norme, individua le loro “funzioni di deriva”: le norme possono diventare moneta di scambio con i subordinati, “nel senso che la tolleranza su alcune norme meno importanti può essere utilizzata come mezzo per ottenere in contropartita l’osservanza rigorosa di altre norme ritenute importanti.”

7.8 Vietato generalizzare.
Quanto affermato nei paragrafi precedenti si pone come un complicato ma non artificioso tentativo di mettere ordine in un fenomeno complesso e multifattoriale, senza per questo trascurare le immancabili eccezioni. Alcuni tra gli stessi rispondenti al questionario affermano:

Occorre considerare che le cose, in termini di gerarchia e nonnismo, non sono uguali in tutte le compagnie e anche nelle stesse compagnie variano da cameretta a cameretta. (1989, n°31)
Notavo che il nonnismo è un fenomeno di tipo oscillatorio in relazione al tempo anche all’interno di un determinato gruppo (compagnia, caserma, ecc..) es: se capita di essere stati nella medesima caserma di un’altra persona con cui si confrontano le proprie esperienze capita che queste non coincidano (“Quando c’ero io si doveva fare…” “No, quando c’ero io non usava più, però si faceva un’altra cosa…” “Ma sai che due anni dopo invece si usava…” ecc..). (1996, n°65)
Giravano molte voci su Siena (riguardo il nonnismo, ndr.) ma ho poi riscontrato che dipendeva tutto dalle persone presenti con te nello stesso tempo. Tutte le voci si sono rivelate infondate. (1997, n°69)

Si rende perciò necessario, dopo aver discusso dei contesti spaziali e delle forme di nonnismo che questi sembrano favorire, prendere in considerazione anche altre variabili, sicuramente più fluttuanti ma comunque significative e soprattutto necessarie per evitare semplicistiche generalizzazioni.

7.9 Variabili personali contro variabili temporali.

“In passato il nonnismo è stato tollerato di fatto, sebbene non accettato in principio, per il ruolo che gli veniva attribuito di supporto alla socializzazione della vita militare e al controllo del personale di truppa.”

L’affermazione di Battistelli, corretta in linea di principio, si rivela però come ennesima e inopportuna generalizzazione. Dall’indagine condotta è emerso come la variabile temporale abbia una validità esplicativa limitata in quanto, a seconda degli ufficiali e con notevoli differenze all’interno di una stessa caserma, il nonnismo è stato trattato in maniera differente.
Un congedato (1966, n°2) racconta:

Il nonnismo becero era fortunatamente sconosciuto e osteggiato ferocemente nella mia compagnia, la 15a, comandata dall’allora capitano Franco Monticone.
Monticone non lo tollerava, arrivando a punire la parodia del saluto con cella di rigore e provocando alcuni contusi durante il tentativo dei nonni di invadere i locali della 15a.
Per quello che riguarda le altre compagnie posso purtroppo aggiungere che era sotto gli occhi di tutti e nessuno muoveva un dito.

Da notare che la testimonianza precedente riguarda una compagnia monoscaglione, all’interno della quale il nonnismo è solitamente meno diffuso e quindi anche meno legittimato e tollerato dalla truppa stessa; con un salto di quasi trent’anni, un “ex” del battaglione logistico (M. B.,1993, int. del 06-12-00) afferma:

L’anzianità non era un valore in assoluto e l’influenza che l’anziano aveva sui nuovi era scarsa…il capitano metteva il naso dappertutto e fare l’anziano era difficile…controllava persino l’assegnazione di servizi e licenze.

In genere pare comunque evidente come non si sia mai andati oltre l’accetazione degli atti goliardici e, quando pressioni esterne l’hanno richiesto, si siano combattuti anche questi ultimi:

Il nonnismo goliardico era accettato, il nonnismo violento era punito severamente senza guardare in faccia a nessuno. (1975, n°8)
Venivano puniti gli atti più gravi ed evidenti (tipo gavettoni). (1977, n°11)
Finché si trattava di pompare per la posta va bene, ma le angherie erano punite dall’intelligenza degli ufficiali. (1977, n°13)
Venivano puniti tutti quegli atti di nonnismo che erano diseducativi per gli altri allievi e contro la persona. (1980, n°16)
Gli ufficiali accettavano solo qualche gustosa e salutare pompata, anzi a volte la facevano con noi, del resto faceva parte dell’addestramento no? (1981, n°17)
La pompatina notturna o simili erano formalmente vietati, ma non c’era situazione che rendesse necessarie punizioni. Non ho mai visto un atto di nonnismo individuale tipo quelli che la televisione sbandiera e spesso attribuisce alla Brigata. (1984,n°20)
Erano accettate le usanze non violente, osteggiate quelle violente o stupide (far fare gli animali, dormire a 69), erano un pò troppo permissivi con certi atteggiamenti inutili con le reclute al C.A.R. (adunate alle tre di notte a dicembre in canottiera in cortile). (1986, n°26)
La pompata era d’obbligo e in qualunque caso doveva essere accettata, la tomba notturna invece non doveva eccedere (con schiuma ma non con altre diavolerie). (1988, n°27)
Gli atti di nonnismo eclatanti, se scoperti, venivano puniti in base alla gravità. L’atto violento fine a se stesso è sempre stato punito. (1989, n°28)
Qualche volta siamo stati convocati dai nostri comandanti per informarci che non avrebbero tollerato atti di nonnismo. (1989, n°31)
Ho assistito al conferimento di 15 giorni di CPR per uno scherzo con la schiuma da barba (tra l’altro era realmente uno scherzo!). (1989, n°33)
All’arrivo dei sottufficiali le pompate erano interrotte, ma di certo questi ultimi non si dannavano l’anima per reprimere questa tradizione, che ho ritenuto a volte irritante, ma fondamentalmente aggregante (mio personalissimo parere!). (1990, n°38)
Le pompate si potevano fare in camerata. Le tombe si facevano di notte di nascosto. (1990, n°39)
Il nonnismo era sempre punito perché ingiusto (ho partecipato a un paio di processini come testimone). (1991,n°44)
Alla S.Mi.Par. non ho mai assistito ad atti di nonnismo che andassero oltre le classiche tombe o pompate, per queste ho assistito, come giurato o difensore a innumerevoli processini che finivano con valanghe di giorni di consegna (e chi è stato in caserma sa quanto pesano). (Anonimo, 1992, messaggio 1007 del 24-08-99 su folgore.com)
Io sono stato punito (15 gg. di R.) per aver dato uno schiaffo ad un allievo, ma non c’era niente di nonnismo, era stato uno scatto d’ira, che, purtroppo era stato fatto in caserma e su una persona più “giovane” di me. Io ero l’anziano che aveva compiuto un atto di nonnismo su di un allievo. Non contava il perché l’avessi fatto, che giustificazioni avevo, l’avevo fatto e basta. Questo ha fatto si che io non prendessi i gradi da Caporal Maggiore, e che la cartolina fosse quella per poter essere richiamati. (1992, n°45)
Si è cominciato a punire sempre più severamente anche atti di per sé innocenti. Ho avuto la possibilità di osservare il fenomeno in qualità di responsabile dell’ufficio denunce. (1993, n°50)
Tutte le tradizioni venivano purtroppo sempre più osteggiate e punite. Es.: quando si pompava era necessario mettere qualcuno di sentinella!!! (1994, n°54)
Ultimamente alcuni ufficiali (in base a direttive emanate dal Ministero della Difesa verso Aprile 96) avevano capito che per fare carriera più velocemente dovevano reprimere tutti i fenomeni di nonnismo anche quelli più innocui e banali (…). (1995, n°60)
La classica flessione di gruppo era accettata solo se il gruppo era molto ampio e la situazione non lasciava spazio a congetture inquisitorie. (1996,n°66)
Le punizioni erano esemplari quando qualcuno denunciava anche piccole cose. (1996, n°69)

Non sono mancati tentativi di prevenzione, attraverso l’individuazione e l’allontanamento di quei soggetti che avrebbero presumibilmente creato problemi disciplinari interni o d’immagine:

A noi istruttori avevano chiesto di individuare i soggetti particolari e di segnalarli. Un ragazzo che aveva sulla spalla una cicatrice a forma di svastica è stato chiamato a colloquio su mia segnalazione e trasferito non so dove e anche un altro che aveva dimostrato di saperne troppo di armi, poi ho saputo che aveva dei precedenti per detenzione d’armamento. (C. M., 1990, int. del 09-01-01)

Dalla sua, la truppa stessa sembra ovviamente aver operato, attraverso l’autodisciplina, per autolimitare le prevaricazioni più evidenti e meschine perpetrate in nome dell’anzianità di servizio, intervenendo o isolando i soggetti più problematici:

Il nonnismo (nell’accezione deleteria del termine) da noi non era tollerato, gli unici che fra di loro facevano del nonnismo di bassa lega erano i soldati (i non brevettati, ndr.), ma onestamente spesso venivano stroncati dai Parà molto prima che dagli ufficiali. Il rispetto per l’anziano dipendeva dal suo grado di educazione e da come si proponeva agli allievi: in genere l’anziano maleducato veniva isolato dai suoi fratelli di naja. (1980, n°16)
Il problema vero erano e forse sono ancora i pochi anziani scoppiati, senza distinzione di grado. In alcuni di loro c’era il gusto perverso della vessazione che personalmente ho subito ma non ho mai condiviso né praticato. (1984, n°21)
La compagnia era monoscaglione e i 7-8 caporali anziani erano tipi a posto. Cosa questa che è la vera qualità indispensabile per debellare il nonnismo deleterio, frutto sempre di iniziative di soggetti devianti. (1984, n°22)
I più stupidi e aggressivi erano generalmente evitati, spesso dai loro stessi compagni d’anzianità. (1986, n°26)
I pochi atti di nonnismo veri e propri sono stati giustamente puniti, a volte direttamente dalla truppa. (1993,n°52)

A riprova di quanto la consuetudine dell’anzianità fosse “istituzionalizzata” tra la truppa pare essere presente un “codice d’onore” secondo il quale “l’anziano” può pretendere rispetto solo se ha a sua volta rispettato gli anziani quando era “allievo”:

L’anziano aveva la potenza da tutti quelli del suo scaglione, se quando era allievo non aveva condiviso quello che i suoi fratelli di naja avevano passato, lo scaglione non gli dava la potenza perciò non poteva assolutamente fare atti di nonnismo perché nessuno lo cagava. (1985, n°25)
Nella maggior parte dei casi lo scaglione anziano era autocritico: chi non ha rispettato non va rispettato. (1989, n°28)
L’anziano veniva rispettato solo se da allievo aveva rispettato i gradi dell’anzianità, altrimenti gli allievi che scaglione dopo scaglione entravano venivano istruiti a non rispettare questo anziano perché era un cane morto e se la doveva beccare fino alla fine!!! (1994, n°54)
Qualora qualcuno fosse stato indegno non sarebbe stato rispettato nemmeno dai propri “fra” (soldati incorporati nello stesso scaglione). (1996, n°65)
Nulla era obbligatorio, chi non stava al gioco veniva classificato “cane morto”, questi non veniva molestato in alcun modo (tranne derisioni verbali inevitabili nel contesto) ma una volta anziano non aveva nessun diritto di fare scherzi o nominarsi di tale titolo. Praticamente non venivano più considerati. (1997, n°69)

Salvo poi scoprire che, più realisticamente:

Il problema era la solidarietà all’interno dello stesso scaglione. Per cui l’anziano immeritevole alla fine veniva a prevalere in virtù delle alleanze. Solo pochi relitti umani venivano completamente emarginati e gli anziani peggiori venivano semplicemente snobbati. (1989, n°33)

Nonostante sia presente un certo accordo sulla funzionalità delle gerarchie non ufficiali ciò non va scambiato per un’integrale e indiscutibile accettazione delle sue logiche:

Io personalmente ho mandato a quel paese più di un anziano, senza subire conseguenze perché avevo ragione.(1978, n°14)
Il mio scaglione decise di non far rifare nemmeno le brande ai nuovi arrivati. A noi era toccato…proprio per questo… ci sembrava una cosa stupida. (M. C., 1980, int. del 19-02-01)
Io personalmente non ho mai voluto fare il nonno, non lo ritengo giusto. (D. A., 1989, messaggio n° 1893 del 04-09-99)
Rispettare l’anzianità non vuol dire rispettare la persona. Se per esempio un anziano era a terra, tu dovevi fare altrettanto, per rispetto dell’anzianità. Ma se era un anziano che non rispettavi, non saresti mai andato a parlare con lui o a chiedergli un consiglio o un favore. (1992, n°45)
Per quanto mi riguarda, ho solo rispettato chi a sua volta mi rispettava, e devo dire con orgoglio che ho anche fatto fare delle figuracce a qualche così detto “anziano”, che pensava di essere un Padr’Eterno, ma non lo ha mai dimostrato. (1993,n°49)

7.10 Tradizioni inventate e comportamento anti vuoto.
Capita spesso che svariate usanze scompaiano e quindi rientrino a volte in caserma attraverso racconti che parenti ed amici fanno come raccomandazione e viatico a colui che si accinge a partire.
Applicando il ragionamento a quelle che tra la truppa definisce “tradizioni” (gergo e usanze di vario tipo che vengono tramandate di scaglione in scaglione facendole risalire a tempi remoti), scopriamo come parecchie tra queste siano in realtà recentissime e che soltanto alcuni tra questi “abiti” abbiano un’esistenza pluridecennale; la maggior parte sembra nascere e scomparire o trasformarsi nell’arco di pochi mesi o anni per motivi fortuiti o contingenti.
Soltanto il più generico “rispetto per l’anzianità” pare essere una costante; ma si rivela anch’esso il frutto di una strumentale rielaborazione. Introducendo il concetto di pertinenza, utilizzato dal linguista Prieto per indicare che l’identità sotto la quale si conosce un oggetto dipende non dall’oggetto stesso ma dal punto di vista che si adotta per considerarlo , ci accorgiamo di come alcune espressioni e consuetudini all’interno dell’esercito abbiano subito un processo di traslazione. Il principio secondo cui “l’anzianità fa grado”, accettato e applicato validamente durante la guerra, ha poi trovato accoglienza tra i militari di truppa, che lo hanno utilizzato per legittimare la gerarchia dei “nonni”. Ecco come il signor Camozzi, reduce di El Alamein, con il quale si è intrattenuto corrispondenza, spiega il principio secondo cui, a parità di grado, comanda il più anziano (tra l’altro recepito a livello ufficiale, come confermano l’art.12 e l’art. 24 del vigente regolamento di disciplina militare ):

“L’anzianità di servizio fa grado”, era una delle regole principali di tutto l’esercito italiano, e valeva anche in battaglia. L’ufficiale anziano prendeva automaticamente il posto del superiore caduto. Se nella squadra o nel plotone cadevano tutti gli ufficiali o sottufficiali, il soldato più anziano prendeva il comando. Nei nostri reparti si aveva tutti la stessa anzianità di servizio avendo fatto il corso ed i lanci assieme. Valeva allora la superiorità reale che presupponeva una maggiore appartenenza al servizio militare. Gli scherzi nelle camerate erano all’ordine del giorno, o meglio della notte, ma non erano diretti a nessuna categoria in particolare. Avevano il solo scopo di farci un paio di risate assieme seguite per un certo periodo da una regolare presa per i fondelli. (e-mail del 21-02-01)

Medesima sorte sembra toccata alle “pompate” o piegamenti; esercizio adottato dai primi paracadutisti che, costretti ad atterrare in posizione semi orizzontale, avevano in un paio di braccia robuste l’unica speranza di superare indenni l’impatto con il suolo, le pompate hanno assunto in seguito l’accezione negativa di pratica ingrata e faticosa imposta come punizione informale al militare da parte di ufficiali o sottufficiali. Con la progressiva “civilizzazione” delle forze armate e con la scomparsa delle punizioni informali, la truppa è rimasta unica depositaria di questa usanza e tra i soli paracadutisti è stata elevata al rango di “tradizione” e segno distintivo. La testimonianza di Camozzi a riguardo delle “pompate” non lascia spazio a repliche:

Le pompate erano usate solo come esercizio fisico. Le nostre giornate erano talmente stressanti che non consentivano nessun prolungamento di tipo goliardico. (e-mail del 22-02-01)

Non difformemente la famosa “stecca”, originariamente indicante un asticciola di legno da inserire tra i bottoni delle divise degli ufficiali, allo scopo di lucidarli senza imbrattarne la divisa, è passata a indicare una mazza di legno, un cartello o qualsiasi altro oggetto su cui lo scaglione congedante lascia le proprie firme oppure tutti quei beni che l’”anziano” lascia in eredità al proprio “allievo”.
Le sopraccitate consuetudini, sopravvissute alla morte delle proprie reali funzioni, sembrano essere assurte allo status di quelle che Hobsbawm (1983) ha definito “tradizoni inventate”, utilizzate più per mantenere un fantomatico ordine costituito che per la loro effettiva efficacia. Il Camozzi, messo a conoscenza dei comportamenti giudicati oggi tradizionali tra la truppa, osserva:

Le tradizioni non bisogna crearsele a tavolino perché non c’è altro da cui attingere. Se ogni paracadutista si prendesse la briga di ricercare nella storia del nostro pur breve passato dei fatti o degli atteggiamenti che possano assurgere all’altare della tradizione, il materiale non manca. (E. C., e-mail del 21-02-01)

Anche giudicando realistica la visione di Edgar Schein , secondo il quale quando una cultura sopravvive e risulta difficile da estirpare è perché ha fornito per lungo tempo risposte concrete in un ambiente ostile, bisogna d’altra parte considerare che questa può aver subito un processo snaturante, derivato da profondi cambiamenti contestuali, che ne ha modificato le funzione degli esordi. Molti comportamenti possono quindi essere ricondotti al bisogno di dare significato a qualcosa che non si riesce a giustificare, ad un tempo vuoto che non si sa come occupare.

7.11 Parificazione alla rovescia.
E’ probabile che all’interno della Folgore, dato il volontarismo di chi vi presta servizio, il nonnismo sia stato maggiormente tollerato per ottemperare alla tradizione che ha voluto presente sin dagli esordi della specialità quella che Di Giovanni chiama acutamente una “parificazione alla rovescia” ; questa ha garantito agli ufficiali che superavano le prove di ardimento e partecipavano attivamente all’addestramento, rinunziando a privilegi tradizionali nell’esercito italiano, un rispetto e un carisma inconsueti, realizzando nella Folgore una saldatura ideale tra ufficiali e truppa piuttosto inusuale. La lealtà veniva ricambiata dai comandanti con la tolleranza verso fenomeni di gallismo esasperato ed esuberanza esterna che procuravano problemi con la popolazione civile e il diffondersi di insinuazioni malevole.
Si trattava, nel complesso, di esuberanze e di un regime disciplinare non formalista, che pare abbiano provocato la sostituzione di alcuni ufficiali, incapaci di adeguarsi a quel clima e di tenere a freno i reparti conquistandone la fiducia.
Quest’amichevole accettazione delle esuberanze esterne pare essere continuata negli anni (come dimostrano i numerosi episodi d’intolleranza reciproca tra pisani, livornesi e paracadutisti) e la medesima sorte è toccata alle naturali necessità goliardiche della truppa che, anche se non apertamente accettate, hanno continuato a fornire un consenso attivo verso gli scopi ufficiali e un orgoglio di appartenenza che in altri corpi dell’esercito sono sempre parsi come una chimera irraggiungibile.

7.12 Capro espiatorio.
Solo periodicamente, ma con una certa continuità negli ultimi vent’anni, il tema del nonnismo è stato affrontato nelle caserme. Si è trattato di campagne che, se da una parte sono servite allo staff per uscire indenne da situazioni poco chiare addossando alla subcultura di truppa la responsabilità di eventi incresciosi passati al vaglio dall’opinione pubblica, dall’altro hanno perso ogni volta l’occasione per spiegare il fenomeno nelle sue reali dimensioni, rendendolo così ancora più aberrante agli occhi della società civile. Questi provvedimenti a “razionalità limitata” rientrano tuttavia in metodiche diffuse all’interno delle organizzazioni; come ha rilevato Bonazzi nel suo studio sull’uso sociologico della colpa nelle organizzazioni complesse, la tendenza dei gruppi di potere è di favorire il massimo allontanamento periferico e il massimo abbassamento gerarchico dell’imputazione di colpevolezza. Nell’esercito la truppa ha da sempre costituito il capro espiatorio per eccellenza, il soggetto sul quale far ricadere agevolmente la responsabilità di eventi fortuiti e poco prevedibili. Normalmente tollerato in quanto esigenza naturale della truppa, il nonnismo viene così ad essere solo periodicamente osteggiato quando atti che con esso hanno poco a che vedere, provocano ferimenti, morti o suicidi che attirano l’attenzione esterna dei media e dell’opinione pubblica.
In questi frangenti i comandanti e gli alti ufficiali “decideranno di far rispettare, sia pure temporaneamente, le norme fino ad allora disattese in modo da sottolineare l’eccezionalità della situazione ed avere così uno strumento in più di pressione sui dipendenti.”
Come già osservato, queste correnti antinonnismo sono diventate sempre più frequenti nell’ultimo ventennio, da quando cioè sono iniziate le pressioni per una riforma dell’esercito, facendo leva proprio sul tema del nonnismo. Il raddoppio dei suicidi in caserma verificatosi nel 1986 (23 casi), alimentò “una campagna denigratoria e allarmistica contro il servizio di leva” (come la definì Spadolini), che attribuiva i suicidi alle angherie dei più anziani, tollerate dagli ufficiali, e alle condizioni di vita nelle caserme. Così il nonnismo fu per qualche tempo duramente avversato:

Fino alla primavera del 1986 non c’era niente da dire sul nonnismo, esisteva e basta; dopo invece, con la storia dell’altissimo tasso di suicidi nelle FF.AA. (e non nella Folgore) è cambiato tutto. L’ordine era di non effettuare più nonnismo ma come detto nel paragrafo precedente: che cosa volevano risolvere? Dire adesso basta nonnismo, siamo tutti bravi e buoni? L’unica cosa che avevano risolto è che il nonnismo non era più tollerato in pubblico, ma quando calava la notte oppure appena il sottufficiale voltava lo sguardo i conti venivano regolati lo stesso correndo anche il rischio di essere sbrevettati e allontanati dal corpo, se tutto questo non era possibile allora si passava a far pesare i gradi, e ti dico che era preferibile fare qualche pompatina (siamo parà, non cani morti) che essere sotto un caporale di giornata con le palle girate, comunque questa non era la norma ma succedeva solamente quando qualcuno faceva il furbo, lasciando nella merda i suoi camerati e non facendo il suo lavoro. Allora anche i fratelli dell’allievo non avevano nulla da obiettare, anzi, a volte se la ridevano di gusto vedendo il cosiddetto furbo pompare o lavare i cessi.
(…) Per tutto il tempo che sono rimasto anziano il nonnismo era osteggiato da tutti e se ti beccavano a far pompare qualcuno ti schiaffavano dentro, dopo non c’ero perciò non posso rispondere.” (1986, n°25)

Ex post la risposta: lo status quo si è ristabilito nel volgere di breve tempo, prova di come le colpevolizzazioni simboliche non siano altro che provvedimenti volutamente temporanei e limitati sul piano formale a soddisfare il bisogno di un colpevole a tutti i costi per spiegare eventi, quali il suicidio, la cui complessità supera spesso la capacità umana di comprenderli.
Ma il 1986 non rappresenta un caso isolato e testimonianze riguardo periodi successivi ci confermano che, di tanto in tanto, il nonnismo è stato nuovamente chiamato in causa:

Alla S.Mi.Par. un colpo partito accidentalmente aveva ucciso uno che era di guardia. Anche la stampa ne ha parlato e ha fatto le solite insinuazioni sul nonnismo. In caserma ci hanno subito minacciati di pesanti punizioni anche se quel fatto era un incidente e non c’entrava col nonnismo. (G. A., 1994, int. del 05-03-01)

Ancora una volta la situazione è andata “normalizzandosi” nell’arco di breve tempo. Soltanto la coincidenza tra lo scandalo Somalia dell’Estate ’97, alcuni episodi di violenza e incidenti nel 1998, e la misteriosa morte dell’allievo paracadutista nell’Agosto ’99 hanno instaurato un perdurante clima di tensione placatosi definitivamente con la decretazione che il “7°/2000” sarebbe stato l’ultimo scaglione di paracadutisti di leva.
Conclusioni.
Il nonnismo tra anomia e cultura.
Il nonnismo si presenta quindi come un fenomeno proprio degli eserciti di leva che nasce naturalmente come risposta alla disciplina militare e alla convivenza in gruppo. Esso si presenta come più o meno funzionale agli obiettivi dell’istituzione in tempo di pace ma perde sicuramente ogni significato in situazioni di effettiva emergenza, nel qual caso un gruppo affiatato e sotto un comando adeguato si rivela sicuramente più efficiente di uno frammentato in gerarchie non ufficialmente riconosciute.
Nonostante il nonnismo si configuri come un abuso di potere, è tuttavia entrato a far parte della routine organizzativa dell’esercito. Da parte dello staff, l’atteggiamento è stato come abbiamo visto duplice e gli interventi si sono sempre limitati a reprimere i casi compromettenti, sfruttando invece gli innegabili vantaggi che questa frammentazione del potere istituzionale inevitabilmente comporta nella routine quotidiana. Come scrive Bonazzi nella conclusione al suo articolo sul potere, non si tratta di cercare degli indicatori paragiuridici della liceità/illiceità degli atti del potere, ma la percezione sociale di questi tra i soggetti nei confronti dei quali il potere è variamente esercitato. E’ ovvio che quando questo potere è voluto dalla truppa e tacitamente accettato dallo staff, ci sono tutte le condizioni perché questo si riproduca.
Con l’opposizione cultura/anomia sembra ritornare la dicotomia tra funzionalità e disfunzionalità del potere informale nell’organizzazione militare. La soluzione paradossale potrebbe risultare quella secondo cui l’anomia può a lungo andare istituzionalizzarsi, sino a diventare una “subcultura organizzativa”. Se consideriamo anomico il comportamento del soldato di leva che non percepisce il suo impegno come servizio, e deviante il comportamento che ne risulta; e se si constata che questo comportamento, nonostante appaia in linea di principio contrapporsi al regolamento ufficiale, non turba e anzi agevola la normale routine organizzativa, occupando efficacemente gli spazi lasciati liberi dall’istituzione, possiamo concludere che il nonnismo sia, in tutte le sue manifestazioni, profondamente inveterato in un’organizzazione militare facente perno sulla leva.
Cambiando punto di osservazione e adottando un’ottica culturalista, è d’obbligo rifarsi all’approccio formulato da Edgar Schein. Secondo questo scienziato la conoscenza di una cultura organizzativa si sviluppa mediante uno studio a vari livelli di profondità. Al livello più superficiale troviamo gli artefatti, tanto facilmente osservabili quanto difficili da interpretare: l’architettura, il comportamento dei membri dell’organizzazione, il loro abbigliamento, il gergo e i simboli che caratterizzano l’organizzazione, sono tutti fattori la cui conoscenza costituisce il primo passo per chi intenda svolgere un’analisi organizzativa. Saranno i valori espliciti dell’organizzazione in questione (ideologie, obiettivi e discorsi che creano senso di appartenenza e solidarietà) e ancor di più i suoi assunti di base (convinzioni profonde riguardanti i campi universali dell’esperienza umana: rapporti con la natura, concezione del tempo e dei rapporti umani) a fornire le discriminanti principali attraverso le quali distinguere un’organizzazione di un tipo da un’altra.
Il nonnismo, a suo tempo inquadrabile tra gli assunti di base della vita militare, può oggi considerarsi assurto, almeno nell’opinione pubblica, e con una valenza negativa, allo status di artefatto. La conseguenze immediata ed evidente consiste in un abbassamento del livello d’integrazione esterna tra esercito e società civile, ma è nell’organizzazione che si crea lo sfaldamento più grave, capace di minarne la coesione interna. Nel momento in cui l’esercito ha intrapreso campagne contro il nonnismo, lo ha fatto andando a colpire non soltanto gli atti esecrabili ma anche le forme goliardiche, rituali, simboliche, facendo venir meno quella coerenza interna che Schein indica come requisito fondamentale che i sistemi organizzativi devono soddisfare. Incoerenze e contraddizioni, sia tra gli “assunti di base” che nel rapporto tra questi e i “valori espliciti” o gli “artefatti”, portano a sfiducia, tensioni, scetticismo e cinismo. Le reazioni alla lotta al nonnismo intraprese con grande vigore nella seconda metà degli anni ‘90 sono ben evidenti, oltre che nel racconto autobiografico dell’autore, in alcune delle testimonianze raccolte:

Ultimamente alcuni ufficiali* (in base a direttive emanate dal ministero della Difesa verso Aprile ‘96) avevano capito che per fare carriera più velocemente dovevano reprimere (tramite processi, spesso sbrigativi e molto sommari) tutti i fenomeni di nonnismo, anche quelli più innocui e banali, senza capire che così facendo avevano decretato la morte della Folgore. Gli allievi, che tanto stupidi non erano, avevano capito l’andazzo, col risultato che gli ordini non venivano più eseguiti oppure mal eseguiti e chi ci rimetteva alla fine erano gli anziani in quanto erano ritenuti i diretti responsabili da parte degli ufficiali e sottufficiali, andando così a minare quel rapporto di fiducia che si era stabilito tra queste categorie.
*Si trattava spesso di comandanti provenienti da reparti diversi da quelli della Folgore (e questo è stato il più grosso errore dell’Esercito e del Ministero della Difesa), perché questi Comandanti hanno ucciso una tradizione, infangato la memoria di quelle persone che sono cadute in guerra od in operazioni di guerriglia per tenere alto l’onore della Folgore. (1996, n°60)

Si sarà notata anche l’anomala identificazione della gerarchia legata all’anzianità come elemento tradizionale e vitale per la Brigata. Sulla stessa linea le parole di un altro congedato (1996) (n°61):

Se ne parlava anche troppo (del nonnismo, ndr) e soprattutto qualcuno vedeva nonnismo anche dove non ce n’era. Tutti gli ufficiali erano portati a dover punire ogni atto che poteva ricondursi ad atto di nonnismo in quanto soggetti a rischi non indifferenti, ma di fatto qualcuno che aveva ancora nelle vene sangue con le ali c’era.
E ancora, un caporale istruttore (1996) (n°66):

A dire il vero verso la fine del mio servizio cominciava a farsi avanti una nuova forma di prevaricazione, era “l’allievismo”. Mi spiego meglio, c’erano degli ufficiali talmente accecati dalla voglia di mettersi in luce mostrando la loro forza contro gli atti di nonnismo, termine questo che non condivido, ai quali bastava che l’allievo, o il militare più giovane di servizio, dicesse cose anche non rispondenti a verità e soprattutto non provabili, che facevano scattare immediatamente la consegna di rigore.
Come ho detto prima purtroppo, parecchi ufficiali, per fortuna non tutti, si rivelavano dei fanti, e se sei stato effettivamente un parà capisci il significato del termine, e quindi osteggiavano tutte le tradizioni, indistintamente.

Efficacia (la misura in cui l’organizzazione raggiunge i propri fini) ed efficienza (quest’ultima intesa nell’accezione insolita che C. Barnard dà al termine: la misura in cui si soddisfano le motivazioni individuali a far parte di un sistema cooperativo ) di un’organizzazione dipendono sicuramente dal grado di coerenza interna e non sarebbero minacciate, secondo Schein, dall’esistenza di subculture (nonnismo) e corporazioni (ufficiali, sottufficiali e truppa).
Per capire come si sia formata una cultura (o subcultura?) come quella del nonnismo in caserma bisogna tenere conto del fatto che “la cultura è sempre il risultato finale di un processo basato sulla ripetizione del successo” ; il successo non è dato soltanto dalla capacità di una cultura nel fornire la risoluzione di problemi pratici (trasmissione di conoscenze sul lavoro e sull’ambiente, ripartizione delle mansioni, appianamento di conflitti interpersonali) ma anche il grado in cui questa riduce l’ansia dei membri dell’organizzazione. L’ansia, favorita dall’impatto con ambienti sconosciuti e ostili, è un sentimento diffuso tra le reclute ed è per far fronte a questa che nella cultura militare (comprensiva della subcultura corporativa dei soldati di leva) gli aspetti ritualistici e simbolici sono ampiamente diffusi. Come ogni altro tipo di cultura, anche quella del nonnismo, per perpetuarsi ha bisogno di essere percepita, trasmessa, adattata.
Il ricambio continuo di membri, solitamente giovani e non ancora formati, vedendo in essa l’unica via efficace (anche se coercitiva) di organizzare ed eseguire quei compiti non regolati ufficialmente per via gerarchica, ha garantito la trasmissione di questo particolare tipo di devianza. Un caporale istruttore (1996) (n°61):

Il fatto che ci fosse un anziano da rispettare faceva si che tutti (o quasi) seguissero delle regole di comportamento vitali per la vita in comunità e un pò di sano timore reverenziale contribuiva a camerate pulite e ordinate, servizi rispettati, assenza di furti, ecc.

Il tentativo di giustificare ad ogni costo la presenza di questa consuetudine nelle caserme è presente in molte delle testimonianze raccolte:

C’erano delle suddivisioni e servivano a dare ordine ad una compagnia che sarebbe stata altrimenti in mano alla completa anarchia, ma non perché i sottuf. e gli uff. erano assenti ma perché delle regole servono sempre. (1980, n°16)
Penso che il nonnismo sia funzionale ad un’armonica coesistenza tra la truppa. E’ necessario per mantenere il corretto funzionamento dell’intero sistema e per perpetuarlo. Mi sto riferendo ad un nonnismo che non va a ledere la dignità dell’individuo!! (1994, n°55)

Non mancano opinioni più azzardate che fanno del nonnismo conosciuto una scuola di vita o un mezzo fondamentale per rendere efficace l’addestramento:

Secondo il mio punto di vista, il nonnismo faceva parte integrante del corpo, serviva a svegliare il soggetto, facendogli venir fuori gli attributi. (1968, n°4)
Molto spesso si capiva molto dopo che le cattiverie subite servivano comunque a temprare il carattere. (1997, n°69)

Notevole il tentativo di analisi fatto da un sottotenente che, in assoluta buona fede e dimostrando capacità di costruzione teorica tanto artificiose quanto affascinanti, scrive:

Il nonnismo è un fenomeno vecchio come gli eserciti, e nasce dalla necessità di condizionare “24ore su 24” il militare all’accettazione di ordini che a volte prescindono dalla logica comprensione dell’esecutore (pensiamo all’essere comandati al compimento di una missione in cui è evidente il rischio della vita…!!). Poi però è accaduto che , da una parte, sono spariti i presupposti che c’erano ai tempi di Napoleone o Cadorna in termini di fatica fisica quotidiana del soldato (i militari bivaccavano nelle caserme non operative cercando ritrovati contro la noia), e dall’altra, che la cresciuta considerazione dei diritti del singolo individuo insieme alla maggiore informazione hanno cominciato a porre l’accento, giustamente, sugli episodi estremi. Cosa questa che in passato nessuno si sarebbe sognato di fare, visto che sarebbe significato andare contro il potere regnante, gestore dell’esercito stesso. Certo, usare l’informazione e l’opinione pubblica per intimidire e tenere nei ranghi una struttura reazionaria e politicamente pericolosa come l’esercito, è una cosa che nasce da esigenze ben meno meritorie di quello che viene dichiarato negli intenti dei protettori dei nostri ragazzi dal nonnismo.

Sono pochissime (3 su 75) le testimonianze in cui si giudica intrinsecamente negativo il fenomeno:

Sono rimasto abbastanza deluso dal basso livello culturale ed intellettivo non solo della truppa (era prevedibile), ma anche dei quadri ufficiali (alcuni però si sono dimostrati superiori alla media e si sono rivelate persone splendide); inoltre mi aspettavo più disciplina “intelligente” e non solo dovuta all’anzianità, non ho accettato il metodo di colpire tutti per le colpe di uno. Inoltre ho dovuto subire, per un certo periodo, pesantissimi episodi di nonnismo (ci ho fatto i capelli bianchi) abbastanza combattuti dal comandante della compagnia. Devo dire che a distanza di anni il periodo passato a Pisa lo ricordo con piacere (probabilmente la vita di tutti i giorni è peggio, al militare la distinzione fra giusto o sbagliato, fra verità e menzogna è netta, nella vita non è netta).
Comunque, a parte il mio caso (che ritengo personale) il livello di nonnismo era accettabile e “utile”, all’epoca negli altri corpi era peggio.(1986, n°26)

A parte le incongruenze evidenti, dalla testimonianza precedente affiora una sostanziale incapacità di adattamento alla vita di gruppo e di accettazione dell’ambiente militare, piuttosto che un ragionamento frutto di una profonda riflessione. Più circostanziata ma pur sempre “solitaria” la motivazione al rifiuto del nonnismo proposta in quest’altra testimonianza:

Avevo uno Zio che era un Colonnello della Folgore e quando veniva in Sicilia mi raccontava tutte le avventure e disavventure trascorse. Conoscevo già la S.Mi.Par. meglio delle mie tasche. La conoscenza delle vere tradizioni del corpo e non quelle sfalsate dall’ignoranza di qualche ragazzetto caporale maggiore che deluso dalla vita si sfoga con tutti i giovani inesperti che arrivano lì dentro, ha fatto si, per loro sfortuna, che io non abbia obbedito agli anziani se non c’era una tradizione che giustificasse quanto mi chiedevano di fare. (1993, n°49)

Ancora più significativa l’opinione di chi, certe consuetudini, afferma di averle metabolizzate solo con il tempo:

Certo, ti confesso, che se all’inizio è stata dura accettare tale situazione, con il passare del tempo mi sono reso conto che era una cosa utile per la buona formazione del paracadutista. (1995, n°57)

E’ evidente come, indipendentemente dalle nostre interpretazioni teoriche (il nonnismo considerato un fatto anomico e deviante, oppure come forma culturale radicata nell’istituzione esercito), la percezione di esso che prevale tra chi, nella Folgore, lo ha conosciuto in prima persona, ne esalta la funzionalità implicita a livello pratico, morale e addirittura culturale.
Verrebbe in conclusione da chiedersi se quello che si è venuto configurando come un grave problema all’interno delle Forze Armate (e in particolare nella Folgore) sia da ritenersi realmente tale, visto che l’immagine di esso emersa dalla nostra analisi empirica non risulta coincidere con quella di fenomeno socialmente preoccupante che i media e il mondo politico hanno propinato.

Note a margine.

Le percezioni del campione di intervistati nell’arco temporale della ricerca (1964-1998).
Alcune delle domande aperte del questionario sono state trattate quantitativamente per evidenziare gli elementi di differenziazione interna del campione per quanto concerne gli orientamenti di valore e gli atteggiamenti nei confronti della vita militare.
Le risposte alla prima domanda (Quali sono i motivi che ti hanno spinto ad arruolarti nella Folgore?), pur risultando difficilmente codificabili per la molteplicità dei motivi addotti da ognuno, lasciano trasparire, con buona approssimazione, una classifica di questo genere:
1) Sfida, avventura, ambizione.
2) Il desiderio di fare bene il militare in un corpo scelto (quasi a pari merito con la motivazione precedente)
3) Influenza di parenti o amici.
4) Amore per lo sport e il volo.
5) Filomilitarismo e ideologie politiche destrorse.
6) Influenza dei caporali in propaganda al distretto militare.
Le prime tre motivazioni sono addotte da oltre 2/3 del campione.

Nella domanda numero due si chiedeva: “A conti fatti c’è qualcosa che ti ha deluso di quest’esperienza, oppure è stata proprio come te l’aspettavi?”
In 46 si sono dichiarati completamente soddisfatti mentre in 28 sono rimasti delusi da qualcosa (una mancata risposta). Da notare che nei primi 26 questionari, che coprono il periodo tra il 1964 e il 1985, vi sono due soli casi di parziale insoddisfazione, così motivati:

Speravo di più. (1964, n°1)
Si, l’addestramento è stato largamente inferiore alle aspettative, specialmente in senso qualitativo (tipo la farsa del combattimento a Villafranca: una recita da copione, ma bene attenti che nessuno imparasse a combattere veramente, per carità!). (1984, n°20)

Negli altri 49 questionari sono invece concentrate le restanti 26 espressioni di delusione. Se al primo posto campeggia la delusione per il mancato impiego operativo e per il basso livello addestrativo, si nota una crescente presenza di osservazioni sulla scarsa motivazione riscontrata nei commilitoni, elemento assente nelle testimonianze precedenti:

Ci sono molti ignoranti nei Paracadutisti, gente che lo fa solo per i soldi. (1992,n°47)
Io ero convinto ed orgoglioso…ma non tutti provavano le stesse emozioni, specialmente i toscani (vicino a casa). (1993, n°53)
Mi ha deluso la mancanza di carica ed entusiasmo delle persone che come me erano venute per fare un’esperienza, eri volontario ma molti lo facevano solo per i soldi che si prendevano, quindi non erano convinti di quello che facevano. (1996, n°63)
Quando svolsi il servizio militare stavamo insieme perché dovevamo farlo. Semplicemente per tutta una serie di motivi. Questo, converrai, è ben lontano dal voler stare insieme, dal vedersi anche dopo il congedo, dal darsi una mano significativa al momento opportuno. (1996, n°65)
E’ stato motivo di delusione trovare gente poco motivata ed è questa una delle cause che non mi hanno fatto mettere firma. (1996, n°68)

Egualmente interessante la curiosa concentrazione di osservazioni negative nei confronti del personale effettivo e della professione militare:

Oggi non c’è più differenza tra un parà, un ferroviere ed un comunale, tutti aspettano il “27”. (1993, n°49)
L’unica cosa che mi ha deluso sono stati molti V.F.B. volontari in ferma breve non motivati da nulla che appartiene alle aviotruppe se non dallo stipendio. (1997, n°69)
Forse un tempo (avrei messo firma, ndr) , ma ormai la carriera militare è vista più come un lavoro che come una passione. (1997, n°70)
Vedevamo i volontari indifferenti alle tradizioni e mercenari, che aspettavano la fine del mese per lo stipendio e basta come semplici impiegati comunali. (1997, n°72)

Alla domanda tre (“Hai mai pensato di “mettere firma” e perché?), in 30 hanno risposto affermativamente e i restanti 44 negativamente(una mancata risposta). La corrispondenza tra risposta negativa e motivi di insoddisfazione non è diretta come si potrebbe pensare; capita che spesso il servizio sia visto come una parentesi positiva ma si riconosca che la propria realizzazione debba avvenire altrove.

Con la domanda numero quattro (“Un po’ pazzo e un po’ poeta”, secondo te questo motto descrive bene l’animo del paracadutista militare?) si è tentato di cogliere le sfumature psicologiche e morali attribuite al paracadutismo militare misurando il grado di accordo su di un detto tipico del corpo.
In 51 hanno risposto affermativamente e in 18 negativamente, in 4 hanno precisato “solo pazzo”, uno solo ha optato per “solo poeta” (una mancata risposta).

La non rappresentatività del campione ha finito tuttavia per giocare a favore della ricerca, rendendo evidente come variabili quali livello scolare mediamente alto, così come la provenienza geografica prevalentemente settentrionale, non siano in grado di influenzare, se non marginalmente, la percezione che i soggetti hanno avuto del servizio militare nella Folgore e del nonnismo.
A fronte delle variazioni interne al campione riscontrate attraverso la codificazione delle risposte precedenti, si riscontra un’omogeneità pressoché totale per quanto riguarda le dichiarazioni sull’esistenza e la funzionalità del nonnismo: soltanto 3 soggetti negano la presenza di gerarchie non ufficiali, uno è un tenente di complemento (non se la sente di legittimare il fenomeno, anche se dimostra di averlo conosciuto e di averci riflettuto) e gli altri due, che, assaltatori in compagnie monoscaglione, hanno evidentemente fatto esclusivo riferimento alla propria esperienza in compagnia.
Traspare inoltre una certa confusione su ciò che si debba intendere per nonnismo, parola variamente interpretata in senso positivo e quindi accettato o negativo, e perciò negato o attribuito ad altre compagnie o corpi. Ecco le concezioni prevalenti:
Gerarchia legittimata dalla maggiore esperienza; mezzo per mantenere l’ordine; caporalismo nei C.A.R. o nelle compagnie monoscaglione; usanza funzionale a forgiare lo spirito di gruppo o a temprare il carattere; integrazione informale dell’addestramento; atteggiamento stupido o goliardico in mancanza di meglio da fare; forma di violenza e prevaricazione gratuita.
Proprio per far fronte a questa polisemia intrinseca, il termine nonnismo è stato utilizzato nel questionario solo in quelle domande destinate a far emergere le concezioni personali, preferendogli i termini gerarchia non ufficiale e anzianità laddove si volevano ottenere informazioni più oggettive.

8.
La ricerca.

8.1 Strumenti d’indagine.
Il materiale su cui lo studio si è sviluppato è la risultante della ricerca condotta attraverso la raccolta di testimonianze tra ex paracadutisti di leva in congedo.
Gli strumenti d’indagine sono stati due: intervista semidirettiva in profondità e questionario semi strutturato . Un pò per le difficoltà che avrebbe presentato il reperimento di un elevato numero di “ex”, ma anche per evitare il rischio di fondare l’analisi su false e svogliate risposte a questionari chiusi o interviste con domande dirette, si è preferito relegare l’utilizzo dell’analisi quantitativa al solo scopo di definire le categorie demografiche e socioeconomiche del campione dei rispondenti al questionario. La scelta di uno strumento d’indagine qualitativo è correlato alla convinzione che per cogliere il punto di vista dell’interlocutore con tutta la ricchezza di sfumature, sia necessario rispettare alcune condizioni: l’adozione di uno strumento che consenta risposte aperte, una conduzione del colloquio non troppo rigida, un rapporto di fiducia tra intervistatore e intervistato.

8.1.1 Interviste in profondità.
Non si è partiti con un’idea precisa di quante testimonianze si sarebbero dovute raccogliere ma si è deciso di procedere per saturazione fermandosi soltanto quando il discorso avrebbe assunto una sua coerenza interna e il valore aggiunto di ulteriori interviste fosse sceso al di sotto della soglia di utilità.
Per la ricerca di persone disponibili, la procedura è stata la seguente: si è contattato il distaccamento A.N.P.d’I. (Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia) di Pinerolo e qui si è trovato un primo ex paracadutista su di un totale di quattro frequentanti abituali. Autoinvitatosi, all’inizio di Dicembre, ad una cena dell’Associazione alla quale avrebbero partecipato svariati membri del torinese e delle valli di Lanzo, chi scrive è stato presentato ufficialmente ad alcuni “ex”. In quell’occasione si sono raccolti i primi nominativi dei soggetti disponibili all’intervista e per evitare che questi fossero prevenuti nei confronti del ricercatore, si è preferito non rivelare chiaramente qual’era l’oggetto primario di studio. Nel corso delle settimane successive, frequentando la sede di Torino, si sono condotte parte delle 10 interviste ai membri dell’associazione. Le uniche pressioni subite sono state quelle iniziali del Presidente della sezione torinese che, non riuscendo a comprendere quale fosse l’obiettivo della ricerca, continuava a proporre nominativi e indirizzi di reduci e ufficiali in pensione; dopo alcuni tentativi a vuoto egli ha comunque desistito.
In seguito si è posta l’esigenza di completare la ricerca attraverso testimonianze raccolte tra soggetti non appartenenti ad alcuna realtà aggregativa che avesse a che fare con il paracadutismo. Da quel momento la ricerca ha subito un rallentamento per la difficoltà di reperire soggetti da intervistare, ma, una volta trovato il filone corretto, il campione si è ampliato a catena sino a raggiungere i ventuno soggetti, contattati telefonicamente e poi incontrati di persona, il più delle volte presso il loro domicilio. Secondo le definizioni correnti nella metodologia di ricerca sociale questo campione di intervistati sarebbe definibile come “campione secondo disponibilità” e comunque composto di “esperti” (nell’accezione di “testimoni privilegiati”), avendo vissuto dall’interno l’esperienza militare nella Folgore, e quindi plausibilmente in grado, se opportunamente stimolati, di fornire informazioni utili.
La preparazione del questionario, o della traccia, come sarebbe più corretto chiamarla, non è stata particolarmente laboriosa poiché la conoscenza diretta dell’ambiente militare ha fatto si che si avessero già in mente quali erano le domande da porre. Non altrettanto chiaro era l’uso che si sarebbe fatto delle testimonianze così ottenute Si è cercato, in linea con quanto ci si era proposti (valutare il più ampio numero di variabili possibili), di raccogliere ricordi ed opinioni personali riguardo l’intero arco dell’esperienza militare: dalla decisione di entrare volontario nella Folgore, alle sensazioni in occasione del congedo passando per organizzazione interna, amicizie, addestramento, rapporti con gli ufficiali, eventuali incidenti, posizione della stampa e dell’opinione pubblica intorno alla Folgore, nonché, ovviamente, domande riguardanti specificatamente il tema del nonnismo.
Soltanto nel corso dell’indagine o addirittura al termine di essa alcune domande poste nel questionario sono finite per rivelarsi secondarie o superficiali (ma mai del tutto inutili).
Gli oltre settanta punti in cui l’intervista si articola seguono il filo cronologico dell’esperienza militare e, per precauzione, le domande sul versante politico-ideologico, sono sempre state poste ad intervista conclusa. Le interviste hanno avuto una durata media di due ore ciascuna (ma non sono mancata le “chiacchierate notturne” di oltre 4 ore) e il fatto di aver conosciuto la Folgore in prima persona è stato d’aiuto a chi scrive, sia nel favorire un rapporto confidenziale con i propri interlocutori, sia nel porsi ai loro occhi come un esperto, al quale grosse menzogne non si potevano raccontare. L’uso del registratore non si è rivelato sempre opportuno in quanto, specialmente con alcuni soggetti, sembrava condizionare l’andamento del discorso; in questi casi si è ricorso al sotterfugio di dire che forse le pile si erano scaricate e che si sarebbe comunque proseguito trascrivendo a mano. Più di una volta, sbobinando o riscrivendo i testi delle interviste ci si è accorti di incongruenze o di domande dimenticate, in questi casi non si è esitato a contattare telefonicamente l’interessato per rimediare.

8.1.2 Questionari via e-mail.
L’idea iniziale era di limitarsi alle interviste, ma l’opportunità offerta dalla scoperta di alcuni siti web non ufficiali dedicati alla Folgore, con tanto di libro degli ospiti e migliaia di messaggi, tra i quali alcuni con recapito e-mail accluso, ha stimolato la fantasia dell’autore.
Dopo aver stampato e letto tutti i messaggi pervenuti dall’Agosto del 99 all’Ottobre 2000 (più di mille pagine) si sono selezionati quelli che presentavano, oltre ovviamente al recapito e-mail, riferimenti che dessero la certezza di poter interloquire con ex paracadutisti di leva (scaglione di arruolamento, caserma, incarico) e non con simpatizzanti o ufficiali e sottufficiali di carriera, sia in carica che congedati. Si è così ottenuto un primo campione di 361 indirizzi e-mail pazientemente inseriti in rubrica. Il problema era ora quello di approntare un questionario adatto a raccogliere informazioni utili alla ricerca ma che presentasse anche quelle caratteristiche (brevità, scarsa intrusività, garanzie di anonimato) che avrebbero presumibilmente favorito un tasso elevato di risposte. L’obiettivo era tutt’altro che semplice: indagare sul nonnismo tra un pubblico ancora “caldo” per gli attacchi della stampa alla Folgore in seguito alla vicenda Scieri dell’Agosto 99. Date queste premesse, riuscire a dimostrare di essere stato un “parà” è risultato della massima importanza per ottenere la loro fiducia così come riuscire a convincerli del fatto che il presente fosse uno studio scientifico e non un’inchiesta giornalistica. Per dare una prima impressione di ufficialità, previa autorizzazione del relatore, si è utilizzato il logo dell’Università nell’intestazione del questionario. Per precauzione, il tema del nonnismo non è stato esplicitamente indicato come obiettivo centrale del lavoro, intitolato più genericamente: Tradizioni e consuetudini del militare di truppa nelle caserme della Folgore.
Si è prestata grande cura alla lettera di presentazione nella quale, dando del tu ai propri interlocutori, si sono rese disponibili tutte quelle informazioni che permettessero di risalire, oltre che all’identità dell’autore, alla bontà dei suoi intenti. Non sono mancati moderati ammiccamenti, quali l’esplicita posizione critica nei confronti dei media e il saluto con il motto tipico della Brigata.
Il problema principale che si è dovuto affrontare è stato quello di approntare un questionario che non fosse eccessivamente lungo, così da invogliare un maggior numero di persone a rispondere, ma che fornisse comunque la possibilità di ottenere, su di un numero più elevato di soggetti, grossomodo le medesime informazioni ottenute attraverso le interviste face to face. Naturalmente il fatto di non poter conoscere di persona il potenziale rispondente ha reso necessaria la raccolta di un maggior numero di variabili socioeconomiche e demografiche.

8.2 Il campione di “ex”

8.2.1 Caratteristiche del gruppo di intervistati “face to face”.
Si elencano qui di seguito le caratteristiche (provincia di nascita, contingente, mansione militare) del campione dei 21 intervistati:
P. M., nato a Vercelli nel 1932, 1°/53, aiutante istruttore di paracadutismo.
G. M., Lecce 1944, 1°/65, mortaista e autista.
P. C., Cagliari 1945, 2°/65, ripiegatore.
M. L., Torino 1951, 2°/71, mitragliere e armiere.
P. C., Torino 1953, 1°/72, puntatore agli obici.
R. C., Torino 1953, 3°/75, reparto comandi e trasmissioni.
L. V., Torino 1959, 2°/79, pioniere assaltatore.
M. S., Torino 1960, 8°/79, capo arma e armiere.
M. C., Torino 1961, 1°/80, radiofonista e furiere.
C. P., Torino 1960, 7°/81, sottotenente di compagnia.
R. G., Torino 1960, 9°/81, inquadratore.
D. F., Padova 1965, 1°/86, radiofonista e ufficio addestramento e lanci.
M. S., Siracusa 1967, 6°/87, motociclista.
C. M., Reggio Calabria 1970, 5°/90, inquadratore.
G. V., Torino 1971, 8°/90, autista.
F. M., Torino 1972, 1°/91, fuciliere assaltatore e comandante di squadra.
A. A., Torino 1972, 4°/93, addetto mensa ufficiali.
M. B., Torino 1971, 10°/93, addetto officina automezzi.
G. A., Reggio Calabria 1974, 5°/94, addetto ufficio motorizzazione.
R. A., Torino 1978, 4°/97, addetto al minuto mantenimento.
C. S., Torino 1976, 12°/97, inquadratore.

Il campione presenta un’eterogeneità interna per quanto riguarda le categorie socioeconomiche (ci sono operai, impiegati, imprenditori, artigiani, due pensionati). Nella scelta delle coorti di appartenenza, è evidente come si sia prestata maggior attenzione al reperimento di congedati negli ultimi 15 anni.
Le interviste hanno rivelato una sostanziale uniformità di atteggiamento nei confronti del servizio militare. Nonostante nell’arco di oltre quarant’anni parecchie cose siano cambiate nella Folgore, si ritengono tutti soddisfatti dell’esperienza vissuta. Soltanto in un caso si è rilevato un orientamento di tipo strumentale: ”Volevo fare l’elicotterista ed era più facile entrare con il brevetto di parà”, accompagnato da una certa disaffezione: “Non so se lo rifarei, mi sono fatto il culo anche troppo per poi non riuscire a fare quello che volevo”. Per quanto riguarda il nonnismo tutti concordano sul fatto che fosse presente e, pur sotto forme, modalità ed intensità differenti a seconda dei periodi e dei reparti, non sembra aver lasciato ricordi particolarmente negativi.

8.2.2 Caratteristiche del campione di coloro che hanno compilato il questionario.
Dei 361 questionari spediti, 276 sono giunti a destinazione e i restanti 85 non recapitati per indirizzo errato o inesistente Dal 9 Febbraio al 22 Marzo 2000 si sono così ricevuti 75 questionari compilati, 4 telefonate di solidarietà (o di verifica?) e una decina di e-mail nelle quali venivano messi in dubbio i reali intenti dello studio. E’ stato inviato un solo ma efficace sollecito che ha fruttato all’incirca una ventina di questionari compilati ma anche le risposte di chi riaffermava la propria convinta non collaborazione.
La qualità dei questionari compilati copre una gradazione che va dalle risposte troppo sintetiche (sì, no, non ricordo) alle più prolisse elucubrazioni personali sui temi proposti.
La raccolta dei dati demografici e socio economici dei rispondenti non ha fatto che confermare la non eterogeneità del campione, viziato innanzitutto dal fatto di essere composto da una popolazione di utenti di internet.

L’età anagrafica varia dai 60 ai 23 anni con una copertura non uniforme degli anni in cui si è prestato servizio:

Si è ritenuto opportuno classificare i soggetti in base all’età che avevano al momento dell’arruolamento:

La distribuzione geografica per luogo di nascita è la seguente:

Quella per luogo di residenza attuale:

Il titolo di studio posseduto al momento dell’arruolamento:

L’occupazione al momento dell’arruolamento è risultata la seguente:

L’occupazione attuale:

Tutte le variabili precedenti sono state scarsamente in grado di far emergere differenze evidenti all’interno del campione. I tre soggetti dimostratisi particolarmente critici nei confronti del tema nonnismo, presentano le seguenti caratteristiche:
SOGGETTO 1: nato al Nord nel 1960 e qui residente; arruolato all’età di 26 anni nel 1986, laureato e già impiegato; mansione logistica; congedatosi caporale con 13 lanci all’attivo; oggi è un lavoratore autonomo.
SOGGETTO 2: nato al Nord e qui residente; arruolato all’età di 21 anni nel 1990, diploma di scuola superiore e professione artigiano; mansione logistica; congedatosi caporale con 7 lanci all’attivo; oggi è artigiano.
SOGGETTO 3: nato al Sud nel 1971 e qui residente; arruolato all’età di 22 anni nel 1993, diplomato e con frequenza universitaria; mansione logistica; congedatosi soldato semplice; oggi è impiegato.
Come si noterà l’età matura e il titolo di studio medio alto sembrano essere le discriminanti potenziali, necessarie forse, ma non risolutive, nel permettere una visione critica della realtà in cui si è immersi durante il servizio di leva

Per quanto riguarda la distribuzione delle mansioni durante il servizio militare:

In un contesto di omogeneità sconcertante, la mansione svolta e il reparto (logistico, operativo, addestrativo) in cui i soggetti hanno prestato servizio, sono state la discriminante più significativa per la definizione del fenomeno nonnismo.

Il grado al momento del congedo:

Il grado sembra non influire, eccetto che nel caso dei due tenenti di complemento, sulla percezione della vita di caserma e del nonnismo; lievemente, se associato alla mansione di istruttore, della quale abbiamo evidenziato la specificità.

Il numero di lanci effettuati:

Il numero dei lanci effettuati, variabile che si pensava correlata positivamente all’operatività delle mansioni svolte, si è invece rilevata semplicemente decrescere negli anni, presumibilmente per i tagli finanziari e la riduzione del servizio militare da 18 a 10 mesi tra il 1964 e il 1997.

9.
Osservazioni conclusive.

E’ giunto il momento di riannodare i fili del discorso. Pare che il nonnismo, come pochi altri argomenti, abbia messo la sociologia di fronte ai propri limiti. Scienza a vocazione nomotetica, per impiegare un termine “piagetiano”, essa si è trovata ad affrontare un fenomeno per lo studio del quale, solo dando il giusto spazio al caso e alla soggettività, può sperare di trovare, se non una teoria generale, almeno delle risposte congetturali, incerte ma comunque utili e plausibili.
Chi da questa lettura si aspettava risposte certe a riguardo di un problema ben definito rimarrà certamente deluso. La ricerca del primum mobile è rimasta senza risultati ma l’aver affrontato il tema da punti di vista differenti si spera possa aver favorito la nascita di una coscienza critica attorno ad un argomento che si è prestato per lungo tempo a dilettantismi di ogni genere.
Il nonnismo, fenomeno isomorfo a processi ecologici osservabili nel regno animale (si ricorderà “l’ordine di beccata” ), risulta profondamente legato al bisogno umano di gerarchizzare e “mettere ordine” e trova nelle variabili endogene e strutturali del mondo militare un ambiente particolarmente favorevole al proprio sviluppo. La convivenza coatta di molti giovani in luoghi ristretti e con libertà limitata ha sempre prodotto la nascita di fenomeni ad esso simili anche laddove (accademie, college, luoghi di lavoro) l’aspetto coercitivo era meno esplicitamente presente. Che questo potere informale sia esercitato in base all’anzianità di servizio rappresenta una caratteristica secondaria poiché, laddove questa forma di legittimazione non si è resa possibile, altre gerarchie, basate sul merito, il grado o la prepotenza, sono sorte altrettanto spontaneamente.
In questo senso il nonnismo pare configurarsi come fenomeno lineare e ciclico allo stesso tempo, da sempre fisiologicamente presente nelle comunità militari. Una consuetudine occasionalmente colpita da “bombardamenti esogeni”, ma ritornata sempre, nel volgere di breve tempo, ad occupare la propria posizione all’interno degli equilibri istituzionali.
Tra i fattori esogeni che sembrano aver occupato un ruolo importante nel radicarsi del fenomeno vi è l’età media della popolazione chiamata a prestare il servizio militare: tra i ventenni che negli anni hanno popolato le caserme italiane determinati atteggiamenti di tipo goliardico hanno ovviamente trovato terreno fertile, tantopiù in un contesto che può mettere a dura prova l’equilibrio psichico in un periodo, come quello postadolescenziale, già di per sé gravido di problematiche personali. Esogene sono da considerarsi anche tutte le variabili legate a ciò che i media e il mondo politico hanno veicolato, sotto forma di informazione, riguardo gli eventi al nonnismo correlati e che possono alla lunga avere inciso non solo sulla percezione di essi, ma anche sulla loro effettiva esistenza (“la profezia che si autoadempie”). Non si esclude quindi, che il troppo parlare che si è fatto in questi anni a proposito del nonnismo, abbia in qualche modo favorito la sua ascesa da fenomeno naturale e secondario a tema morboso e per questo carico di una subdola e deleteria attrattiva. Il rischio maggiore è che il nonnismo lasci spazio ad atteggiamenti che, al di fuori di una “tradizione” ben consolidata, possono assumere forme ben più deleterie, slegate dalla logica di gruppo e per questo non facilmente prevedibili, più pericolose e ingovernabili
Nell’unico studio a livello scientifico sino ad ora dedicato all’argomento , Battistelli sembra distinguere un’anzianità informale “buona” da un nonnismo “cattivo”, a seconda che si sviluppi in regime di servizio militare obbligatorio oppure volontario:

Mentre nel caso degli allievi professionisti l’aspirazione prevalente è all’inclusione nell’istituzione di cui si apprestano a diventare l’asse portante, nel caso dei coscritti l’aspirazione prevalente è all’esclusione (nella forma “liberatoria” del congedo) da un’istituzione di cui costituiscono il gradino non soltanto gerarchicamente più umile ma anche meno identificato.
Quanto alle funzioni esercitate, per gli aspiranti professionisti l’anzianità informale assume le forme di un insieme di riti di iniziazione che istruiscono e selezionano l’individuo, contemporaneamente costruendo il gruppo. In ciò l’anzianità informale conferma la coerente funzionalità agli obiettivi istituzionali. Diverso e più complesso, da questo punto di vista, il caso del nonnismo, cioè della forma assunta dall’anzianità informale tra i militari di leva. L’analisi ravvicinata di questo fenomeno ne mostra l’intrinseca ambiguità, né pienamente funzionale né pienamente alternativa alla gerarchia ufficiale, bensì subalterna per alcuni aspetti e ribellistica per altri.

Un’analisi acuta e a nostro avviso corretta ma che proprio per questo non fa che confermare la voluta ignoranza circa lo status di coscritto nella Folgore.
Attraverso l’esperienza personale e la ricerca condotta sembra essere emerso con chiarezza che ai volontari che negli anni hanno prestato servizio nei “parà” non siano mancate aspirazioni ed aspettative (quasi sempre slegate da motivi utilitaristici) pari o superiori a quelle che animano il personale professionistico. Questo, in simbiosi con un’organizzazione che prevede una selezione sul piano fisico e motivazionale, ha fatto sì che per modalità di sviluppo e percezione da parte dei diretti interessati, il nonnismo presente in Brigata abbia assunto forme più simili a quelle funzionali proprie delle accademie e dei corsi per sottufficiali che a quelle ribellistiche e disfunzionali diffuse tra i comuni soldati di leva.
Si prende atto, ancora una volta, di come le differenze vengano colte soltanto quando lo si ritiene opportuno. La Folgore è stata trattata come “reparto speciale” nel momento in cui le si volevano imputare carichi di lavoro eccessivi per i propri soldati (trascurando l’enorme apparato logistico che ha da sempre reso non operativo gran parte del personale di leva); al contrario, quando si è parlato di nonnismo essa è stata equiparata a tutti gli altri corpi e anzi indicata, con la scusante delle “aspre condizioni ambientali” e dello “spirito di corpo” ad esse fantomaticamente correlato, come habitat particolarmente fertile per la gerarchia informale dei nonni.
Dando per scontato che per indole la Folgore si è sempre attirata attenzioni morbose (logica conseguenza del cumulo sempre crescente di leggende e revanscismi che con una punta di orgoglio essa porta in grembo) bisogna ammettere che per parecchi anni, in seno alla Brigata, migliaia di soldati di leva hanno ricevuto un addestramento qualitativamente e quantitativamente superiore alla media degli altri corpi e che in un simile contesto il nonnismo, se pur presente, non ha rappresentato che un aspetto secondario e come tale è stato trattato dagli organi superiori. Esso può avere plausibilmente rappresentato un do ut des, un tacito scambio tra i bisogni naturali della truppa e un corpo ufficiale che ben conosceva il ritorno in fiducia personale che quella concessione avrebbe garantito. Non per questo va trascurato che l’addestramento ricevuto e le competenze acquisite hanno potuto legittimare, tra i paracadutisti più che altrove, il riconoscimento di una gerarchia legata all’anzianità di servizio anche tra soldati di leva.
Sarebbe tuttavia ipocrita voler generalizzare questa affermazione ignorando che le cose non sono sempre state positive come descritto. Già nel 1975 poteva capitare che, anche nella Folgore, un militare avesse un’esperienza di questo tipo:

Giunto a destinazione come impiegato al reparto comandi e trasmissioni del quartier generale mi hanno dato un’arma in consegna da tenere agganciata alla branda e li è rimasta sino al congedo. (R. C., 1975, int. del 22-02-01)

Soprattutto le variabili temporali hanno costituito la discriminante principale nell’evoluzione del fenomeno nonnismo, avvicinatosi sempre di più a quello che Battistelli definisce come intrinsecamente ambiguo e comune ai regimi di servizio militare obbligatorio. Gli addestramenti sono diventati una chimera e al loro posto è subentrato uno spirito masochistico che, nel tentativo di rendere duro ciò che duro ci si aspettava dovesse essere, ha trasformato il nonnismo in rito di passaggio; un rito di passaggio tristemente fine a se stesso ma pur sempre percepito come positivo e funzionale, qualcosa da conservare e di cui essere tanto più orgogliosi quanto più questo viene osteggiato. E’ stato “l’inizio della fine”.

Elogio di un “nonnismo moderato”.
Riappropriarsi del significato del termine nonnismo è già un primo passo per imparare a sfruttarne le potenzialità positive, per insegnare ai giovani soldati cos’è, e fino a che punto ha un senso chiedere o avere rispetto per i più anziani; comprendere bene ed a fondo il significato di una cultura è la maniera migliore per poter distinguere tutto ciò che invece non le appartiene.
Le ragioni del rigetto di un atteggiamento demonizzante nei confronti del nonnismo riflettono sia l’opinione di chi scrive (ugualmente distante dalle posizioni di chi lo legittima come pienamente funzionale all’addestramento e per questo incoraggiato in ambito militare), sia il giudizio che i protagonisti di questa ricerca hanno espresso a larga maggioranza.
Del resto sarebbe stato sufficiente ascoltare l’opinione di chi il militare lo aveva già fatto, per accorgersi che solo in sparuti casi il nonnismo viene avvertito come problematica grave. Lo stesso rapporto di ricerca CEMISS sulla condizione dei militari di leva datato 1991 mostrava come, tra le “impressioni sfavorevoli” lasciate dal servizio militare, il nonnismo si classificasse al penultimo posto (6,1%), davanti alle prepotenze dei superiori (1,8%) e dietro la noia (37%), il difetto di incentivi (26,2%), la lontananza da casa (24,6%), l’assegnazione non equa dei servizi (18,1%), l’inefficienza (16%), lo scarso ordine (10,7%), le scortesie dei superiori (10,4%), l’eccesso di disciplina (8,8%), la solitudine (6,4%). Gli elementi su cui intervenire per migliorare la percezione del servizio militare erano chiari ed evidenti ma, per qualche arcano motivo, sembra che questa classifica sia stata letta al contrario.
La colpa dell’esercito è stata quella di fare quadrato di fronte agli attacchi indiscriminati ed interessati dei media e ancora prima nei confronti della curiosità delle scienze sociali, pensando forse che sarebbero stati sufficienti “buoni” e controllati rapporti di committenza per superare indenne il naturale corso degli eventi.
Ad oggi, con la decretata fine del servizio militare obbligatorio (nella Folgore ampiamente anticipato), pare che i “guai” siano finiti e l’obiettivo sia semmai, dopo le tempeste di questi anni, di reimparare il nonnismo, facendo sì che tra i futuri volontari si sviluppino “equivalenti funzionali della gerarchia informale capaci di offrire identità senza alimentare contrapposizione e aggressività.”
E dire che, da quanto emerso dalla ricerca, nella Folgore questo obiettivo sembrava essere stato raggiunto.

10.
Narrare la conoscenza organizzativa.

Quello che segue, lungi dal voler rappresentare un resoconto oggettivo ed esaustivo della mia esperienza militare, focalizza soprattutto quegli aspetti che mi sono parsi utili nella trattazione delle problematiche in questione.
Si tratta di una breve narrazione autobiografica, lo specchio di un’esperienza che ho vissuto in prima persona come nativo e durante la quale non posso negare di essermi “sporcato le mani” (anche se la curiosità e il voyerismo critico nei confronti di quel nuovo mondo in cui mi sono immerso per dieci mesi mi hanno accompagnato sin dall’inizio).
Attraverso questa narrazione, tento una ricostruzione assieme diacronica e sincronica dell’esperienza vissuta, dando occasionalmente rilievo ad alcuni specifici accadimenti che rendono bene l’idea degli aspetti informali dell’organizzazione della vita in caserma come l’ho potuta osservare. Non mancano, specialmente nella parte dedicata ai cambiamenti in atto e all’ultimo periodo precedente il congedo, alcune riflessioni ed ipotesi più spiccatamente soggettive.
La decisione di strutturare in questo modo il lavoro è stata presa deliberatamente per favorire il coinvolgimento graduale del lettore nella vicenda (il quale si avvicinerà così alla vita di caserma con uno sguardo attento e curioso, esattamente come ho fatto io), badando all’efficacia narrativa e alle qualità idiografiche del racconto e cercando tuttavia di non ridurre un discorso di tipo antropologico-organizzativo ad una vicenda personale (diventando io, come ha notato Marzano nel caso di Kunda in Engineering Culture, il personaggio principale del mio testo ).
Lungi dal voler prendere le distanze dall’oggetto, dal volermene allontanare emotivamente, questa parte narrativa dello studio non pretende assolutamente di porsi come “ricerca distale”, volendo al contrario coinvolgere il lettore attraverso una “visione prossimale” di una realtà in fieri.
E’ mia intenzione rendere comprensibile il modificarsi del setting ma anche la costruzione del “sé organizzativo” all’interno di un’”istituzione totale” molto particolare come quella di una caserma della Folgore nel 1998, nella quale i “detenuti” sono paradossalmente tutti dei volontari, che, entrando, portano con sé aspirazioni e aspettative (hanno un alto “coinvolgimento nel ruolo”, per dirla alla Goffman), quindi le vedono sfumare (in una sorta di precocissimo burn-out e relativo “distanziamento dal ruolo”) ed infine le ridefiniscono.
E’ proprio in questo processo di ridefinizione che il “codice del nonnismo”, relativamente a come io l’ho conosciuto e non in senso assoluto, trovava il suo senso di esistere.
La coercizione da parte dello staff era paradossalmente molto elevata all’inizio della naia, quando alta era anche la motivazione ed è quasi scomparsa dopo i primi due mesi, momento in cui anche la motivazione personale andava scemando; è forse per coprire questo vuoto che certe “tradizioni”, in quei frangenti ormai fini a se stesse, trovavano terreno fertile?

Modus operandi.
Il materiale di ricerca è costituito in primo luogo dai ricordi personali e dalla “reidratazione” delle sintetiche note appuntate su di un diario nel corso del servizio militare.
Questo processo di emotional recall, favorito dalla rilettura integrale del mio diario, mi ha consentito di far tornare a galla avvenimenti e pensieri così come in quel momento si erano presentati e non come li ho con l’avanzare della ricerca rielaborati.
In questo senso si può dire che i quasi tre anni trascorsi dal congedo abbiano rappresentato un lasso di tempo ottimale: sufficiente per prendere le giuste distanze dall’esperienza ma non abbastanza lungo per dimenticarne gli aspetti emozionali.
Per la parte riguardante la formazione dei caporali istruttori mi sono avvalso della gentile e puntuale testimonianza di un mio commilitone e nel capitolo intitolato “Cambiamento” ho riportato le opinioni espresse sul libro degli ospiti di un sito non ufficiale dedicato alla Folgore da parte di due ragazzi anche loro in servizio nel corso del 1998.
Sono state volutamente tralasciate le descrizioni troppo minuziose di luoghi e persone, per rispetto nei loro confronti e per non contravvenire al segreto militare.
L’intertestualità sociologica nel racconto è minima, limitata ad alcuni termini utilizzati per la loro notevole capacità esplicativa.
Soltanto se sarò stato in grado di socializzare il lettore ai codici e all’ambiente in cui erano utilizzati potrò aspirare ad una sua piena comprensione della ricerca.

Giorni di naia.

I “tre giorni”.
I cosiddetti “tre giorni” della visita militare di leva sono soltanto un “assaggio” di quella che sarà l’intero periodo della naia, ma ad un osservatore attento possono dare molti spunti per farsene un’idea, seppur approssimativa.
Io fui subito colpito dalla formalità e il distacco con il quale si è trattati: per molti era una novità sentirsi dare del lei a soli diciassette anni; anche il linguaggio utilizzato dallo staff mi sembrò singolare, un “burocratese” infarcito da espressioni colorite
A farla da padrone erano però le minacce di punizione e il particolare modo in cui erano comminate: “Se soltanto uno di voi fa il furbo, io ne prendo un altro a caso e gli schiaffo tre giorni di rigore!”.
Un altro atteggiamento che m’incuriosì fu quello espresso nei confronti di chi, come me, aveva indicato, sugli appositi moduli, il desiderio di prestare servizio nei paracadutisti; a me un sottufficiale chiese testualmente e dandomi stranamente del tu: “Ne sei proprio sicuro?” mentre ad un altro, a lui particolarmente inviso per il comportamento poco marziale disse: “Nei paracadutisti? Bene! Può stare sicuro che farò di tutto per poterla accontentare!”.

Viaggio.
Durante il viaggio in treno ebbi modo di conoscere alcuni ragazzi che, come me, erano destinati al Terzo Battaglione “Poggio Rusco” di Scandicci (FI); si creò subito un bell’affiatamento che fece scordare quella malinconia strana che solo lo sguardo di una madre preoccupata e di un padre triste possono lasciare.
Ci accomunava il fatto di aver richiesto, all’atto della visita di leva, di prestare servizio nella Brigata Paracadutisti Folgore. Alcuni di loro sembravano già pentiti di quella scelta e si giustificavano dicendo ch’erano stati influenzati dall’esaltazione dei diciassette anni e dai troppi film di guerra americani visti alla TV; altri, al contrario, parevano pienamente convinti di voler affrontare quel mondo di cui tanto avevano sentito parlare da parenti ed amici; altri ancora affermavano di essere stati ammaliati dalle parole del caporale paracadutista che faceva “propaganda” per la Folgore presso il Distretto militare di Torino al momento della visita di leva.
In quel momento mi accorsi che nulla mi accomunava a loro: i film di guerra americani non mi erano mai piaciuti, nessuno, tra i miei parenti ed amici, era stato nella Folgore e soprattutto non avevo trovato nessun “parà” in propaganda durante i “tre giorni”; semplicemente ero stato attratto dall’idea romantica del distacco dalla famiglia e dalla curiosità mista a timore che mi sembrava scaturire da quella parola: “paracadutisti”.

Arrivo in caserma.
Sceso dal treno mi accorsi di essere considerato già un soldato.
Alla stazione alcuni autisti e due caporali istruttori fecero salire me e altri miei compagni di viaggio su di un camion militare incalzando in maniera poco ortodossa chi di noi, gravato da un bagaglio particolarmente pesante, non si mostrava abbastanza celere. La prima sensazione che ebbi, e non fui l’unico, era che quei graduati fossero anagraficamente più anziani di noi (impressione razionalmente infondata, tantopiù che io avevo già allora ventitré anni, e quindi ascrivibile ad uno stato emozionale particolare e al loro comportamento nei nostri confronti).
Giunti in caserma ci radunarono in uno stanzone e, per rompere la monotonia dell’attesa (nuovi gruppi stavano arrivando alla spicciolata) erano trasmesse su di un grosso schermo immagini di addestramenti e pattuglie.
Solo nel tardo pomeriggio iniziarono le lunghe pratiche per l’incorporazione, l’assegnazione alla compagnia, la consegna di materassi e coperte; il tutto in un susseguirsi di code ed attese estenuanti che avrebbero segnato i primi giorni di addestramento.
La concitazione dell’arrivo aveva momentaneamente congelato ogni mio pensiero e soltanto quando mi trovai incolonnato lungo il muro di cinta, in attesa del mio turno per ritirare cuscino e coperta, mi feci per un attimo suggestionare dal filo spinato che correva sulla mia testa: qual’era la sua funzione principale? Era lì per non permettere ad altri di entrare o, più probabilmente, per evitare che fossimo noi ad uscire?
Ma l’avventura che in mille modi avrei potuto evitare era cominciata. Impossibile tornare indietro.

Caporali istruttori.
Preso posto nelle camerate capimmo la vera funzione di quei graduati col cordoncino azzurro sulla spalla destra: erano i caporali istruttori, coloro che si sarebbero occupati del nostro addestramento sino al giuramento.
Uno di loro entrò nella camerata, era basso di statura ma aveva grinta da vendere e intimandoci di non guardarlo negli occhi mentre parlava, ci diede tutta una serie di istruzioni sul comportamento da tenere in presenza dei graduati: il modo di salutare, di presentarsi e rivolgere loro parola; un altro, fisicamente imponente ma con fare meno ardimentoso, ci spiegò il modo corretto di fare la “branda e cubo” e di disporre il bagaglio negli armadi in lamiera.
Ricordo che l’abitudine contro la quale i caporali dovettero lottare nei primi giorni era quella inveterata in molte reclute di rispondere agli ordini con il “Si, signore!” o “Signor si, signore!”, tipico dei film americani, invece di utilizzare l’italiano “Signor si!”.
Ogni minuto della nostra vita era cadenzato in modo preciso ma altrettanto sembrava esserlo quello dei caporali istruttori addetti al nostro addestramento; in particolare i più “giovani” tra loro (che avevano alle spalle quattro mesi di caserma) erano costretti ad un’estenuante giornata lavorativa di ben diciotto ore: dalle sei del mattino, quando si alzavano per darci la sveglia sino alle ventiquattro, quando, dopo aver fatto il contrappello e dato le consegne ai piantoni notturni, potevano finalmente andare in branda, sperando che i loro “anziani” non avessero qualche particolare compito da fargli espletare.
Questi caporali “giovani” erano alloggiati nelle nostre stesse camerate, mentre quelli anziani avevano una loro camerata, più di un armadietto ciascuno e branda singola; inoltre notai che sul muro alle spalle di ogni branda erano appese a mò di arazzo delle bandiere con il logo della compagnia e ad ogni angolo del letto erano presenti dei mozziconi di candela che venivano accesi la sera, dopo il contrappello (contravvenendo al tanto predicato divieto d’utilizzo di fiamme libere).
Il tour de force del giovane caporale durava generalmente due tre mesi, quando sarebbe stato abilitato un nuovo gruppo di allievi graduati istruttori. Alcuni di loro erano così stressati da presentare degli evidenti stati d’alterazione psicosomatica: notai che un caporale bresciano socchiudeva gli occhi quando parlava e quasi tutti presentavano un notevole abbassamento della voce, particolarmente evidente in quelle rare volte in cui non urlavano.
Queste gerarchie latenti fra caporali non mi furono ovviamente subito chiare e le dovetti intuire da piccoli gesti e stralci di conversazione che ero riuscito a captare. Un giorno, per esempio, sentii un nostro caporale “giovane” che, dovendo partire in licenza diceva divertito ad un caporale anziano: “Fammela pompare adesso (la licenza, ndr) ché poi mi metto in drop e non voglio arrivare a casa sudato, c’è la morosa che mi aspetta!”. Un’altra volta notai una piccola scritta a biro sulla mimetica di un caporale giovane: “Mostro sono e morire devo”; in genere, poi, i caporali giovani erano sempre all’affannosa ricerca di sigarette (erano diventate quasi una gabella al momento di entrare in mensa) e questo anche se alcuni avevano dichiarato di non fumare; evidentemente le mendicavano per i loro “anziani”.
Ovviamente allora non mi era dato sapere di questi retroscena e ci misi un bel pò soltanto per capire che quei ragazzi determinati ed ardimentosi sino alla maleducazione erano lì, come me, a svolgere i loro dieci mesi di militare; se qualcuno mi avesse quindi chiesto di esprimere un giudizio su di loro non ne avrei fatto certamente un ritratto così caritatevole.
Un pomeriggio fummo chiamati a raccolta dal cappellano militare, il quale ci esortò, in assenza di caporali ed altri graduati, ad esporre liberamente eventuali problemi: la questione del linguaggio scurrile utilizzato nei nostri confronti da parte di alcuni caporali venne subito a galla. Questa “riunione di popolo” mi parve dissonante all’interno di quell’ambiente; era un segno premonitore dei futuri cambiamenti ma sarebbero ancora dovuti passare alcuni mesi per constatarne gli effetti.
In ogni compagnia erano presenti, almeno durante il giorno e a turno, due sottotenenti di complemento; questi intervenivano raramente durante le fasi addestrative e lo stesso dicasi per il Comandante della caserma, gli ufficiali e sottufficiali in genere, che avevamo raramente l’occasione di incontrare, fuorché all’alzabandiera.
I caporali istruttori s’improvvisavano anche docenti di storia ( narrandoci le gesta della divisione Folgore ad El-Alamein) e di canto, insegnandoci le numerose canzoni (oltre venti) proprie della Brigata Folgore; queste canzoni entrarono così a fondo dentro di noi che non era raro sorprendersi a canticchiarle anche durante le ore di libertà.
Il pieno possesso che i caporali istruttori mostravano di avere della caserma si manifestava anche nella non chalance con la quale alcuni di loro facevano marciare il proprio plotone facendogli cantare a squarciagola canzoni con espliciti e pesanti riferimenti sessuali, noncuranti né del comandante, né degli abitanti dei condomini limitrofi. In poche parole, una delle fasi più importanti del servizio militare era gestita completamente da graduati di truppa.

Come si diventa graduati istruttori.
Un discorso a parte merita di essere dedicato alla selezione e formazione dei caporali istruttori che tanta importanza rivestono nell’addestramento dell’aspirante paracadutista. Questa ricostruzione mi è stata possibile grazie alla testimonianza di un mio pari scaglione che ha svolto il servizio in qualità di caporale istruttore (C. S., 1997).
La selezione: Già durante il Corso addestramento reclute i caporali domandano se ci sono dei volontari per il corso caporali; un numero solitamente cospicuo di reclute desiderose di “scavalcare il muro” si fa avanti mentre altri, che possono aver fatto buona impressione ai caporali o al sottotenente di compagnia vengono invitati a proporsi come candidati.
Di notevole importanza sono giudicati fattori quali la prestanza fisica (almeno apparente), la destrezza nel marciare e la scaltrezza nel rapporto con i caporali, tutte qualità che fanno presagire una buona predisposizione al comando.
Dopo una prima scrematura degli elementi esplicitamente meno idonei, i restanti vengono sottoposti ad una serie di colloqui con capitani e alti ufficiali che li mettono a conoscenza delle fatiche a cui andranno incontro durante il mese di corso e quindi alle grosse responsabilità che si dovranno accollare durante il resto del loro servizio militare.
I nominativi dei candidati più interessanti si riducono così ulteriormente ma sarà soltanto dopo il Corso palestra, il giorno della partenza verso il corpo, che si avrà la certezza di essere stati accettati.
Il corso A.G.I. (allievi graduati istruttori): Ritornati così nella caserma C.A.R. di Firenze, gli aspiranti caporali affrontano un corso formativo della durata di quattro settimane. Essi vengono alloggiati in una camerata interna ad una delle quattro compagnie dove le reclute di due scaglioni più giovani stanno svolgendo l’addestramento reclute e con loro c’è un caporale istruttore anziano che si occuperà dell’addestramento formale. Questo “istruttore degli istruttori” viene scelto tra i caporali in possesso di diploma che abbiano a loro volta ottenuto un alto punteggio durante il corso.
La disciplina cui gli aspiranti caporali (identificabili per via di una mostrina con un “1” dorato su sfondo blu elettrico) devono sottostare è ancora più rigorosa rispetto a quella dell’addestramento reclute e la parola d’ordine in camerata è “uniformarsi”:
“non importa come disponete i bagagli nel vostro armadietto, l’importante è che aprendoli , non si distinguano l’uno dall’altro”
Ci sono poi delle regole informali alle quali devono sottostare durante i trenta giorni di corso: non parlare con nessuno al di fuori dei compagni di corso e non usufruire della libera uscita. Se la prima di queste regole viene solitamente poco rispettata, per quanto riguarda la libera uscita la precisazione solitamente fatta dal capitano: ”non è interdetta ma nessuno ci è mai andato” sembra sortire i suoi effetti, forse non tanto come minaccia ma come stimolatore dell’orgoglio e autocontrollo di gruppo.
Il tipo di istruzione che viene impartita ai neo caporali è a metà tra quella dei fucilieri assaltatori e quella dei sottotenenti di complemento, ma dato l’esiguo tempo a disposizione ( 4 settimane), essa si risolve in un groviglio di nozioni che vanno dalla conoscenza del regolamento militare a quella delle armi, passando per nozioni d’igiene personale.
In realtà il mestiere lo si impara sul campo durante il primo mese come caporali istruttori, affiancando, in teoria, ma sostituendo, in pratica, un caporale più anziano.
Nonostante il caporale istruttore anziano abbia una grossa importanza nella formazione dei neo caporali, la tendenza per quel che riguarda le varie materie del corso, è di affidare il loro insegnamento a personale effettivo.
Al termine del corso è prevista una prova scritta il cui valore sembra essere prettamente simbolico in quanto il numero dei candidati è solitamente appena sufficiente a coprire le esigenze della caserma.
L’ignoranza che ne deriva è forse voluta poiché, in caso contrario, il caporale si accorgerebbe delle incongruenze della sua mansione e del sovraccarico di lavoro e responsabilità a cui è sottoposto.
L’organico di una compagnia C.A.R. dovrebbe infatti essere così composto: 1 capitano, 1 tenente, 2 sottotenenti, 2 sergenti, un caporale istruttore ogni 24 reclute. Data la già citata latitanza del personale effettivo – ricordo di aver visto di rado il tenente, mai il capitano o i sergenti (quest’ultimo, un tempo figura tipica nell’esercito, oggi in via di sparizione, da quando, tramite concorso e corso di formazione biennale, si può accedere al grado di maresciallo), qualche volta i sottotenenti – ai caporali istruttori, loro sì sempre presenti per motivi contingenti, non resta che seguire la logica, per quanto opinabile, dello “scaglionamento”. Questa permette loro, dopo tre mesi di “inferno” (e quindi al sesto mese di naia), di potersi a loro volta “imboscare”.
Per i neo caporali arriva così il giorno dell’investitura ufficiale: durante l’alzabandiera il comandante della caserma si congratula con loro e gli consegna gradi, mostrine e cordoncini azzurri.
L’arrivo in Compagnia: I nuovi caporali vengono distribuiti fra le quattro compagnie cercando di incorporare ciascuno in una compagnia diversa rispetto a quella in cui ha svolto l’addestramento reclute; pratica nuova quest’ultima, adottata (così si diceva) per rompere o comunque ridurre rapporti “clientelari” fra caporali anziani e nuovi arrivati e la cui efficacia resta tutta da provare. Spetterà al meno anziano fra i caporali già presenti il compito di spiegare ai nuovi arrivati tradizioni e usanze all’interno della compagnia. Suddette “tradizioni” coincidono quasi perfettamente con quelle diffuse in tutta la Brigata (e di cui parlerò ampiamente più avanti) ma con dei distinguo dovuti alla situazione particolare in cui gli istruttori si trovano: gli anziani hanno solitamente a disposizione una camerata tutta loro nella quale possono permettersi letti singoli e doppio armadietto, mentre gli altri dormono nelle camerate assieme alle reclute, in brande singole e con un solo armadietto.
Un “rito di passaggio” importante per i nuovi caporali è il cosiddetto “benvenuto” : essi vengono portati nella saletta riservata ai caporali istruttori e qui “pompano” fino allo sfinimento ricevendo anche dei pugni ben assestati sulle scapole (i famosi “MG”, che, se dati “con criterio” fanno un rumore inversamente proporzionale al dolore provocato). I neo caporali sono spesso impazienti di essere battezzati e soltanto allora si sentiranno degni di indossare il cordoncino azzurro.
Una regola basilare fra i caporali è di evitare che le reclute si accorgano di queste usanze e pertanto i neo caporali non vengono mai richiamati o puniti davanti a loro.
Per i primi tre mesi i neo caporali si devono sobbarcare carichi di lavoro abominevoli e sono soggetti, da parte degli anziani, a sfide del tipo: ” la mattina io facevo uscire i mostri (le reclute) dalla compagnia in dieci minuti! Mi raccomando! Stasera son pompate!”.
Ecco spiegato il miracolo di efficienza organizzativa che faceva sì che, a suon di urla e calci sugli armadietti, alle 6.40, dieci minuti dopo la sveglia, centinaia di reclute avessero fatto “cubo e barba” e fossero schierate sul piazzale di compagnia.

Giornate al C.A.R.
Il primo vero stress test coincise con la prima sveglia e questo provocò in molti di noi lo sviluppo di un orologio biologico che permetteva di svegliarsi un pò prima del dovuto evitando il trauma di passare dal sonno alla veglia in maniera così brusca; una sorta di snervante stato d’allerta che sarebbe proseguito durante tutto l’arco della giornata. Data la sveglia, i caporali continuavano quindi ad incalzarci perché rifacessimo in fretta e bene il cubo e le loro urla ci seguivano sino ai bagni con il risultato che la maggior parte di noi si presentava all’adunata di compagnia con in viso i segni evidenti di una rasatura fatta troppo alla svelta.
Iniziava così la giornata tipo dell’aspirante allievo paracadutista e dopo la colazione, consumata velocemente a causa delle lunghe code, proseguiva con l’alzabandiera, l’addestramento formale alla marcia, il rancio, ancora marce, l’ora di reazione fisica, l’indottrinamento teorico all’uso delle armi, la libera uscita e il contrappello. Le ore di reazione fisica settimanali erano in realtà soltanto tre e al poligono ci siamo stati una volta soltanto, o meglio ci sono stati, poiché io quel giorno ero di corvée in mensa ufficiali.
Sino alle 16.30 l’accesso in compagnia era vietato e anche per andare ai servizi era necessaria l’autorizzazione. Durante il CAR, inoltre, non si poteva usufruire di licenza alcuna se non in coincidenza delle feste ministeriali di Natale o Capodanno e comunque in coincidenza del Giuramento.
Le uniche varianti a questo programma erano rappresentate dalla visita medica, il poligono, oppure dalle volte in cui si era impegnati in servizi come corvée cucina, pulizia delle latrine, piantone di compagnia e notturno che spettavano esclusivamente alle reclute.
Il rancio era veramente pessimo, servito solitamente freddo e in quantità non sufficiente per ragazzi che passavano la giornata all’aperto; e questo avveniva forse più per espressa volontà che per scarsità di materia prima e personale addetto; lo prova che, in occasione del Capodanno, fummo serviti di tutto punto, dagli antipasti fino al dessert.
Bagni e docce erano in cattivo stato e i caporali se n’erano riservati alcuni (un foglio sulla porta lo stava ad indicare), non perché fossero migliori ma per preservarne lo stato igienico; anche l’acqua calda non era sempre disponibile.
Notai con rammarico che, nonostante l’ingrata esperienza di piantone alle latrine che ognuno di noi prima o poi avrebbe fatto, il livello igienico non migliorò affatto durante quel mese e qualcuno continuava a sporcare, di proposito e più del dovuto.
Per quel che riguarda la pulizia delle camerate era previsto che i piantoni in servizio si occupassero soltanto di scopare e vuotare i cestini della spazzatura e i caporali ci consigliarono di organizzarci autonomamente per pulizie più accurate; era un consiglio, non un ordine e non se ne fece nulla.
La caserma era, oltre che fatiscente, totalmente priva d’aree per la ricreazione e lo sport, e questo, in aggiunta alla mensa di pessima qualità, faceva sì che si svuotasse negli orari di libera uscita.
Unica consolazione era la stupenda città di Firenze a pochi minuti d’autobus da Scandicci.
Il controllo su di noi era totale e se durante la notte si aveva la necessità di andare al bagno, lo si poteva fare soltanto accompagnati dal piantone in servizio e facendo i propri bisogni a porta aperta. Quel regime di vita era pesante per tutti e mi chiedevo come avrei fatto a passare dieci mesi in quella maniera; fortunatamente chi ne sapeva più di me mi rassicurò dicendomi che la naia non sarebbe proseguita tutta a quel modo.
Già durante il C.A.R. si acquisiva una sorta di “anzianità”; con l’avvicinarsi del giuramento e soprattutto dopo le prove fisiche di ammissione al Corso Palestra il rapporto con i caporali si fece meno formale: capitava che la sera essi girassero per le camerate senza più esigere il “camerata attenti” e si intrattenessero a discutere (dando e pretendendo sempre il “lei”) di ciò che ci sarebbe spettato una volta giunti alla Scuola addestrativa di Pisa.
Fu in questi frangenti che alcuni di noi, già a conoscenza delle “tradizioni” paracadutiste e desiderosi di sperimentarle, domandarono ai caporali di farci fare qualche piegamento fuori programma e il caporale di turno, sia pur guardingo e titubante (era già passata una circolare che definiva i piegamenti come atto di nonnismo ), cercava di accontentarci.
Ricordo che la sera del 31 Dicembre i caporali “giovani” (quelli “anziani” erano ovviamente in licenza) ci radunarono, non inquadrati, nel piazzale di compagnia ed eseguirono con noi una sorta di conto alla rovescia scandito da piegamenti sulle braccia. Potrà sembrare stupido ma per la prima volta ci sentimmo tutti uniti, caporali compresi, in una sorta di rito di comunità, segno che, nonostante il grado e i mesi di caserma che ci separavano, stavamo condividendo gioie e dolori di un anno “diverso”.
A poco a poco l’odio nei confronti dei caporali si trasformava in rispetto per coloro che avevano già avuto il “battesimo dell’aria” e si prendeva coscienza di aver superato il primo gradino verso ciò che quasi tutti noi desideravamo: diventare paracadutisti militari.
Per il resto i militari di truppa più anziani (un’esigua minoranza, in quella caserma) con i quali si aveva occasionalmente a che fare in mensa o allo spaccio, pur facendo valere la propria anzianità durante le code in mensa, sembravano ritenerci non ancora pronti a ricevere i loro “insegnamenti” e si raccomandavano di una cosa soltanto: era assolutamente vietato indossare le coloratissime e sgargianti tute ginniche che loro ostentavano con fierezza dopo l’orario addestrativo (reperibili nel negozio di articoli militari che la caserma di Scandicci aveva ubicato al suo interno).

Vestizione.
La vestizione riveste un’importanza particolare nel passaggio da civile a militare. Essa avvenne tre giorni dopo il nostro arrivo in caserma e soltanto dopo la rasatura dei capelli. Essa consiste nella consegna di tutti gli indumenti (invernali ed estivi) di cui il militare avrà bisogno durante il servizio.
A differenza di quanto mi aspettavo le misure ci furono prese con particolare perizia e furono pochi quelli che si lamentarono per aver ricevuto indumenti o calzature di taglia sbagliata.
L’unica cosa che deluse davvero tutti fu il basco amaranto (che non avremmo potuto indossare fino al giuramento) poiché non appariva affatto come quello che vedevamo indossato da ufficiali e sottufficiali, bensì molto più grosso, così grosso da meritarsi l’appellativo di ”pizza”.
I caporali si affrettarono a dirci che ci saremmo dovuti procurare a nostre spese un basco più consono (modello canadese o spagnolo) per il giorno del giuramento; accettammo tutti di buon grado quel consiglio, anche se urtava un pò con il discorso fattoci dal Comandante qualche giorno prima. Egli aveva posto l’accento su come alla Brigata fossero stati tolti progressivamente alcuni di quei segni di distinzione che rendevano un paracadutista immediatamente distinguibile dagli altri militari dell’esercito (la mimetica prima di tutto, e poi gli stivaletti da lancio di foggia particolare e ora in dotazione all’intero esercito) e che quindi bisognava andare fieri di ciò che ci rimaneva: il basco rosso amaranto.
La mimetica che ci fu consegnata presentava sul petto due mostrine: su quella di destra si sarebbe dovuto apporre, due mesi dopo, a corsi terminati, il proprio cognome (gli appellativi preferiti nei nostri confronti sarebbero stati sino ad allora il “lei”, “omo” e “signori”, per citare soltanto quelli più ortodossi); quella di sinistra serviva invece per l’eventuale grado conseguito in futuro. Non era previsto alcuno spazio specifico per lo stemma del brevetto di paracadutista né per quello della compagnia di appartenenza che pure vedevamo sulle mimetiche di quasi tutti gli “anziani” (entrambi non più forniti dal casermaggio e quindi non obbligatori).
Sul collo non dovevano essere visibili catenine o ciondoli e al polso si poteva portare l’orologio purché avesse il quadrante nero.

Prove fisiche di ammissione al Corso palestra.
Due giorni prima del giuramento arrivarono da Pisa alcuni caporali A.I.P. (aiutanti istruttori di paracadutismo) con il compito di selezionare, attraverso una serie di prove fisiche non particolarmente impegnative, il personale da ammettere all’addestramento prelancistico. Nella fattispecie bisognava eseguire 5 trazioni alla sbarra, 5 estensioni alle parallele, saltare un metro e mezzo in altezza, 10 addominali a gambe tese, 10 flessioni con “schiaffo”, 1500 metri di corsa in un tempo massimo di 6 minuti e mezzo.
Ciò che mi colpì di questi caporali fu l’abbigliamento (tuta azzurra e giaccone blu sportivo) che li rendeva più simili a degli atleti che a dei militari. Seppi in seguito che erano anche loro militari di leva.
Nonostante la non eccessiva difficoltà delle prove, alcuni non riuscirono a superarle e furono da quel momento chiamati “S. per T.” (in sosta per trasferimento). Alcuni tra loro erano effettivamente contenti di tornarsene vicino casa ma per altri lo sconforto fu davvero grande e fu proprio giocando sul sentimento di questi ultimi che il comandante li convinse ad accettare egualmente il trasferimento a Pisa in quanto là avrebbero potuto ripetere le prove. Ciononostante le indiscrezioni secondo le quali gli “S. per T.” sarebbero stati utilizzati solamente per la copertura di servizi fino al trasferimento si rivelarono veritiere.

Giuramento.
Segnò la fine del primo periodo addestrativo ed ebbe per noi aspiranti paracadutisti un significato particolare poiché era la prima occasione in cui si calzava il basco amaranto al posto della ”stupida” utilizzata durante il C.A.R..
La cerimonia si svolse nello stadio Turri di Scandicci alla presenza delle autorità e soprattutto di una folla festante di parenti ed amici, molti dei quali risaltavano tra la folla per il basco rosso che anch’essi portavano, segno che erano stati, a loro volta, paracadutisti.
La cerimonia, il discorso del comandante, la sfilata di labari e reduci, l’inno nazionale, ci coinvolsero emozionalmente più di quanto ci si sarebbe aspettati e sono convinto che molti abbandonarono il proposito di pronunciare, in risposta al “Lo giurate voi?” del Comandante, il blasonato “L’ho duro!”.
Una particolarità nel giuramento dei paracadutisti è rappresentata dalla cerimonia del “passaggio del paracadute” dai paracadutisti anziani agli allievi paracadutisti: essa venne inscenata da alcuni militari disposti su due file, una di “anziani” e l’altra di allievi, che pronunciarono queste parole: “Paracadutista del dodicesimo scaglione 1997, te lo affido!” e dall’altra gli allievi, indossando il paracadute: “Ne sarò degno!”
Tornati in caserma e riconsegnate le armi, il cinturone e la sciarpa, fummo sottoposti (era facoltativo) ad un “rituale di saluto” da parte dei caporali istruttori; funzionava in questa maniera: ci si recava dal proprio caporale “preferito” e questi doveva toglierti la mostrina a velcro, passartela su viso e collo, quindi strapparti il primo bottone del bavero, darti una botta in testa in corrispondenza del fregio ed infine un pugno sul petto.
Mi sottoposi di buon grado anch’io a questo “rito di passaggio” se non altro perché mostrava, nel modo in cui era eseguito, una caduta di tensione nel rapporto con i caporali e il superamento di un primo gradino verso l’agognato lancio.
La notte successiva la caserma rimase semideserta; molti approfittarono della licenza di 36 ore per tornare a casa mentre a chi come me aveva deciso di rimanere, fu caldamente consigliato dai caporali di “andare a ballare da qualche parte”, poiché, data la scarsità di personale, sarebbero toccati, a chi fosse rimasto, dei turni di piantone notturno più lunghi del solito.
Rientrati la mattina seguente dopo una notte di bagordi e freddo, molti, io compreso, furono messi di servizio.
L’indomani sarebbe avvenuto il trasferimento a Pisa e mi accorsi che i caporali erano tornati ad essere molto rigidi, come se fosse nuovamente il primo giorno. Ed in effetti, di primo giorno si trattava: il primo giorno di un nuovo mese di corso, di fronte al quale non dovevamo assolutamente presentarci in maniera rilassata.
Preparati i bagagli e salutato chi rimaneva passammo la mattina inquadrati ad aspettare i pullman e i camion militari che ci avrebbero portato a Pisa. Data la rigida temperatura invernale mi ritenni fortunato a trovare posto sul pullman piuttosto che sui camion telonati e gli A.I.P. presenti non ci obbligarono nemmeno a tenere la famigerata “posizione della Sfinge” (busto eretto e mani poggiate sulle cosce, adottata, a dire dei caporali e forse non a torto, per evitare che i civili vedessero su di un pullman della Folgore dei militari “sbragati e sonnecchianti”), cosicché ci potemmo tutti rilassare un pò dopo una mattinata trascorsa in piedi e al freddo.

Trasferimento alla S.Mi.Par.
Giunti alla caserma Gamerra di Pisa, sede della Scuola Militare di Paracadutismo (S.Mi.Par.) la prima impressione fu effettivamente quella di aver ricominciato tutto daccapo: le urla dei caporali, le code e le lunghe attese al casermaggio, lo sguardo compiaciuto degli “anziani” che vedevano nell’arrivo di un nuovo scaglione il segno dell’avvicinarsi del congedo.
Solo dopo parecchi mesi avrei preso piena coscienza di quale fosse lo stato d’animo di un allievo in arrivo a Pisa dopo il CAR: una sera avvicinandomi ad un ragazzo in coda per le coperte gli chiesi di quale scaglione fosse, egli trangugiò la saliva e senza guardarmi negli occhi mi disse: “Terzo novantotto signore!”
Fummo però confortati dalle qualità strutturali di quella caserma, dotata di ogni servizio: cinema, spaccio con sala TV, videogiochi e sala di lettura, ristorante-pizzeria, campo da tennis, palestra super attrezzata e una miriade di cabine telefoniche; quello che apprezzammo maggiormente fu però il vitto, fuor di ogni retorica, veramente “ottimo e abbondante”.
Le precedenti quattro compagnie di reclute furono fuse in due grosse compagnie (prima e seconda) facenti capo al Reparto Corsi; questo provocò un rimescolamento dei posti branda e ognuno perse di vista alcuni compagni e se ne fece di nuovi. Un’altra compagnia, distaccata dalle nostre, era occupata da volontari in ferma breve (V.F.B.) anche loro in corso per l’acquisizione del brevetto.

Mondi diversi e contigui.
Dopo il primo impatto, il rigore dei nuovi caporali A.I.P. (aiutanti istruttori di paracadutismo) si rivelò meno pressante e di questo avemmo la prova l’indomani mattina, quando la sveglia fu data in modo decisamente più umano da chi di noi era in quel momento di piantone e non dai caporali in persona come avveniva invece al C.A.R..
Essi si rivelarono tuttavia molto più esigenti per quel che riguardava la pulizia delle camerate, i cui pavimenti, la sera, dovevano essere addirittura incerati, pena la mancata licenza per il “capo camerata” di turno. Il ruolo di capo camerata (sorta di capro espiatorio) era svolto a rotazione dagli appartenenti ad ogni camerata ed egli era considerato, per quella sera, responsabile della gestione delle pulizie
Per queste pulizie “straordinarie” dovevamo personalmente procurarci il materiale in quanto i piantoni potevano utilizzare i prodotti forniti dal magazzino soltanto per la pulizia dei servizi igienici e nelle camerate erano tenuti a passare soltanto la scopa.
Spesso la sera, poco prima del contrappello, i caporali, dopo aver controllato che le pulizie fossero state fatte “a modo”, ci mettevano alla prova dandoci trenta secondi per andare a letto e se anche uno solo non ce la faceva, si ricominciava daccapo.
Il contrappello era effettuato con particolare perizia e, per evitare che qualcuno non fosse in branda al passaggio dell’ufficiale incaricato, l’accesso ai servizi igienici era interdetto sino alle ventiquattro.
Anche durante il mese di Corso Palestra, come al C.A.R., ebbi l’occasione di constatare come la naia si sarebbe col tempo fatta più sopportabile: una volta mi capitò di fare il piantone all’ultimo piano, una sorta di mansarda dove alloggiavano caporali anziani e congedanti (quelli giovani erano, come al C.A.R., distribuiti nelle camerate dei corsisti), ogni camerata era occupata al massimo da otto brande, contro le sedici/diciotto dei piani inferiori, e ognuno aveva a propria disposizione svariati armadietti; una grossa tavola di compensato era utilizzata per allestire banchetti fuori orario. Un’altra volta, mentre ero di piantone all’androne, un caporale si avvicinò con un foglietto su cui erano appuntati tutta una sfilza di panini e bibite, mi dovetti cambiare e andarli a comperare e quando tornai per consegnarglieli trovai il caporale stravaccato assieme ad altri in una stanzetta con tanto di divano e TV.
Sembravano convivere due mondi differenti a distanza di pochi metri.

Giornate al Corso palestra.
Sveglia alle 6.30, rifatto “cubo e barba” e indossata la tuta ginnica (non la mimetica) si andava, ognuno per conto proprio, a fare colazione, in quanto la prima adunata era fissata per le 7.30.
Fui colpito dal primo alzabandiera alla S.Mi.Par.: esso veniva effettuato su piazzale El Alamein ed oltre alle comunicazioni di servizio del Comandante della scuola era trasmesso il sommario del notiziario radio della Rai (abitudine quest’ultima che si perse, e penso di averne intuito il motivo, nel corso del 1998).
Subito dopo l’alzabandiera seguiva un’ora di reazione fisica, quindi l’addestramento teorico e pratico al lancio, che proseguiva fino a sera. Esso era diretto da un caporalmaggiore istruttore di paracadutismo (effettivo) con l’aiuto di un paio di caporali A.I.P. (di leva) e aveva la funzione di indottrinare e selezionare gli allievi paracadutisti.
Questo periodo non si rivelò particolarmente duro sul piano fisico quanto sul piano psicologico poiché bisognava fornire prova di destrezza e decisione nell’esecuzione degli esercizi e soprattutto di grinta e determinazione nel voler essere abilitati al lancio.
Notai, infatti, che gli istruttori attivavano una sorta di pressione psicologica all’abbandono nei confronti di quei soggetti che si dimostravano eccessivamente spacconi (quelli che, per intenderci, pensavano che per fare il paracadutista il cervello si dovesse lasciare a terra) e di quelli che, al contrario, si dimostravano, oltre che impauriti, scarsamente motivati a superare e controllare questo loro comprensibile timore.
La prove da superare per essere ammessi al lancio erano molteplici (il salto del plinto con la pedana, il salto sul telo dall’altezza di 5 metri con le gambe “a squadra”, la simulazione della capriola d’atterraggio, la simulazione – imbracati al “pollaio” – dei comportamenti da tenere in volo, scavalcamento di un muro di 2 metri e venti con la tecnica indicata, arrampicata e discesa alla fune di 11 metri, 5 chilometri di corsa da percorrere in un tempo massimo di 25 minuti), ma quella decisiva era rappresentata dalle “torrette d’ardimento” (alte 18 metri) dalle quali ci si doveva lanciare imbracati ad una funicolare eseguendo correttamente tutti quei movimenti fondamentali al momento del lancio vero e proprio.
Quest’esercizio fu fatto ripetere più e più volte affinché sparisse ogni tentennamento e chi continuava ad avere delle difficoltà, invece di essere incoraggiato, era apertamente minacciato di “bocciatura” di modo che, se incapace di reagire a questo stress, giungesse autonomamente a concludere di non essere all’altezza della situazione.
Ed in effetti i due ragazzi della mia sezione che furono esclusi, a differenza di quelli eliminati durante le prove fisiche di Scandicci, non si mostrarono particolarmente dispiaciuti, segno che forse l’istruttore aveva colto un loro intimo desiderio.
Soltanto a lancio effettuato capii che in caso di mancata apertura del paracadute principale (“fiamma” o “pacco chiuso”), peraltro rarissima, sarebbe stato davvero difficile, ad una quota così bassa (400 metri s.v.m.), anche per chi il corso lo aveva superato, avere la freddezza di tirare la maniglia d’emergenza; conclusi quindi che forse quel comportamento apparentemente irrispettoso degli istruttori era pienamente giustificabile.
I non ammessi furono comunque davvero pochi e per questo ricevemmo i complimenti del Comandante della scuola, che riservò invece toni pesanti nei confronti dei corsisti V.F.B. (volontari a ferma breve) tra i quali vi erano stati il settanta per cento di esclusi.
Visite mediche, tra mito e realtà.
Un primo screening sulla nostra efficienza fisica ci era già stato fatto a Firenze: urine, elettrocardiogramma, controllo della spina dorsale e dei testicoli. Già in quell’occasione mi era parsa evidente la superficialità della visita, in contrasto con ciò che avevo sino ad allora sentito riguardo il rigore nella selezione fisica degli aspiranti paracadutisti. Mi spiego meglio: l’elettrocardiogramma veniva effettuato soltanto a riposo, per la misura del torace era ritenuto valido ciò che ognuno dichiarava; a chi era affetto da lievi forme scoliotiche o da varicocele di primo grado veniva domandato semplicemente se desiderava comunque fare il paracadutista, tenendo conto della diagnosi. Ma la cosa che mi colpì maggiormente fu un modulo da compilare sul quale si domandava se si erano avute fratture agli arti inferiori e alla riconsegna del quale non seguivano ulteriori accertamenti di verifica. Ricordo che grazie a questa superficialità furono in molti a tirare un sospiro di sollievo.
In concomitanza con la prima visita ci venne anche somministrato il vaccino: la temibile puntura sulla spalla che ai nostri padri aveva provocato gonfiori abnormi ma anche un’immunità ad ogni tipo di influenza che era andata ben oltre il servizio di leva (magari di 15 mesi) si risolse, nel nostro caso, in una mezza giornata di riposo branda obbligatorio, non causando alcun gonfiore fastidioso o reazione anafilattica di altro genere ma nemmeno l’auspicabile protezione contro le influenze (tant’è che molti di noi si sarebbero comunque ammalati nel corso dei dieci mesi successivi).
Una seconda visita medica a Pisa non si rivelò più selettiva: controlli veloci della vista eseguiti da personale di leva, osservazione delle cavità nasali e auricolari, qualche altro modulo da compilare e massima fiducia nella bontà delle nostre risposte.
Risultato, almeno nella mia sezione: tutti “idonei quali paracadutisti”.

Raggiro “caporalesco” o politica in caserma?
Tra i ricordi che fanno riflettere ne serbo uno, particolare, riguardante gli ultimi giorni del Corso palestra. Gli A.I.P. ci avevano radunato in un’aula didattica e in attesa degli Istruttori, due di loro presero a turno la parola per esprimerci la loro personale opinione sul servizio di leva nella Folgore.
Per primo parlò un caporale toscano: secondo lui, nel caso ci fosse stata la necessità di personale di leva per eventuali missioni all’estero, avremmo fatto meglio a rifiutare in quanto la nostra mansione in quei frangenti si sarebbe risolta in “giornate intere passate a girare con un fucile in mano e con il rischio di beccarsi una pallottola in fronte senza nemmeno capire da che parte fosse stata sparata”; il secondo caporale, un torinese (lo riconobbi subito dall’accento), in netto contrasto con quanto prima consigliato dal collega, ci disse invece che andare in missione era l’unico modo di fare seriamente il servizio militare.
Non posso affermarlo con sicurezza, ma in tutto ciò c’era il sapore della farsa; non si respirava il clima del dibattito vero, piuttosto quello del teatrino. In effetti dopo lo scandalo Somalia del 1997 la partecipazione ad eventuali missioni di pace di soldati di leva della Folgore era stata ufficiosamente esclusa, avendo il Ministero della Difesa già da tempo ripiegato sugli alpini e comunque sui volontari in ferma breve. Proprio per questo quel discorso mi suonò strano e non so ancora oggi se fosse da intendere come una dimostrazione di autorità da parte dei caporali, una presa per i fondelli, o un modo per tenere alte le nostre aspettative.

Leggende da caserma o miti interessati?
A proposito del capitano del Reparto Corsi, che per la sua fisicità erculea da subito rappresentò per noi lo stereotipo del “parà”, ricordo che sul suo conto circolavano strane voci che lo volevano autore di ardimentose performance e gesta crudeli: si sarebbe dilettato più volte a disarmare il corpo di guardia, di notte e a mani nude, inoltre si diceva conservasse gelosamente una foto che lo ritraeva con in mano la testa mozzata di un somalo durante la missione IBIS del 1992-93. Morì suicida nel Luglio del 1998 confermando così l’alone mitico che lo circondava. Soltanto in fase avanzata della mia ricerca avrei scoperto che lo stesso si raccontava del maresciallo K., ex legionario in Indocina, ufficiale degradato a causa di una sfida che ingaggiò con un ufficiale straniero a chi avesse aperto più tardi il paracadute e che si risolse con lo schianto al suolo di quest’ultimo; per oltre un ventennio è stato visto aggirarsi con mansioni non ben definite e senza gradi sulla mimetica all’interno della S.Mi.Par., salutato e rispettato da tutti gli alti ufficiali. Si racconta anche che avesse l’abitudine di orinare su Lucca (dove risiedeva la moglie da cui era divorziato) ogni volta che si trovava su di un “Hercules” per il lancio.
Altra storia che si tramandava di scaglione in scaglione con non sottaciuto e morboso compiacimento riguardava le “marce dei paracadutisti su Pisa”, consistite nell’invasione tutt’altro che pacifica, da parte dei paracadutisti, delle strade in cui soldati della caserma Gamerra erano stati malmenati .
Ho in seguito avuto conferma del fatto che episodi del genere sono realmente accaduti: una prima volta negli anni sessanta, su ordine dell’allora comandante della scuola col. P.; una seconda volta nel 1981, più per iniziativa di qualche ufficiale e della truppa che con l’avallo dell’allora comandante C..
E’ interessante notare come non vi sia paracadutista, anche in congedo, che, avendo prestato servizio tra gli anni ‘70 e i giorni nostri, non sia venuto a conoscenza di questi episodi.

Primo lancio.
Dopo venti giorni di corso il dodicesimo scaglione 1997 era comandato al lancio. Con evidente trepidazione attendemmo che fosse esposta in bacheca la composizione dei vari decolli.
C’era grande fermento, un misto di esaltazione e timore. Quel giorno il capitano del Reparto Corsi ci dette gli ultimi consigli accompagnati da un foglietto che fungeva da memorandum, dopodiché visionammo alcuni filmati riguardanti l’attività aviolancistica.
Sull’aereo l’emozione e, diciamolo per inciso, la paura, furono davvero forti ma gli automatismi acquisiti durante il corso furono più forti di tutto il resto e nessuno, giunto alla porta, si tirò indietro (cosa che sarebbe avvenuta, per qualcuno, parecchi mesi dopo, quando la determinazione e l’assuefazione al pericolo erano notevolmente diminuiti).
Dopo l’ebbrezza del primo lancio non si faceva altro che confrontarsi tra noi sull’esperienza, sulla sua riuscita tecnica e sulle emozioni che ci aveva regalato; qualcuno azzardò addirittura che fosse meglio del sesso.
Tuttavia le discussioni sul versante emozionale lasciarono presto spazio alle preoccupazioni di tipo utilitaristico: per iniziare a percepire l’indennità di areonavigazione, una sorta di soprassoldo costituito da un indennizzo mensile di 200 mila lire circa, era necessario eseguire, in quell’ultima settimana di corso, almeno i tre lanci necessari per ottenere la qualifica di paracadutista (ne necessitano cinque per ottenere quella di paracadutista militare ).
La preoccupazione principale era quindi rivolta al tempo atmosferico, in quanto, essendo aumentati enormemente negli anni i provvedimenti cautelativi (a seguito delle polemiche seguite ad alcuni incidenti mortali), per effettuare il lancio si richiedevano condizioni meteorologiche ottimali.
Due giorni dopo fummo nuovamente comandati al lancio e dopo essere stati per ore in “zic3” (attesa) all’aeroporto, ci giunse la comunicazione definitiva di “spianto” (essendoci un vento di poco superiore agli otto nodi); fummo quindi riportati in caserma.
Eravamo molto delusi poiché sapevamo che, alla meglio, avremmo potuto fare soltanto un altro lancio in quella settimana; e così avvenne effettivamente.
Per molti di noi sarebbero passati parecchi mesi prima di ottenere il brevetto e provocò sconcerto e rabbia generale scoprire che ad un ragazzo del nostro scaglione era stato concesso il ruolo di “prima riserva autorizzata” (che ha diritto a saltare in caso di defezione) in un decollo riservato agli effettivi; questo in ricompensa, così si diceva, per la riparazione di un computer negli uffici del comando. L’interessato riuscì ad effettuare il terzo lancio e si fregiò subito del brevetto, suscitando l’odio e l’invidia di tutti noi.
Questa fu solo la prima avvisaglia di una sorta di “mafia” che girava attorno all’attività lancistica e della quale parlerò più avanti.

“Al corpo”.
Trasferimento in C. C. S.
Terminata la settimana dei lanci fummo implotonati nel piazzale di Compagnia; uno ad uno ci fu comunicata la destinazione definitiva e appresi che sarei rimasto alla S.Mi.Par., presso la Compagnia Comando e Servizi (C.C.S.). Non era esattamente quella la destinazione che solo un paio di mesi prima mi sarei augurato ma i ritmi del C.A.R. e del Corso palestra avevano ridimensionato le aspirazioni “rambistiche” della maggior parte di noi, tanto più che giravano voci secondo le quali nelle caserme operative i soldati di leva erano ormai addetti soltanto ai servizi.
Salutati i compagni di corso per i quali era previsto il trasferimento nelle altre sedi della Brigata, un caporale ci accompagnò all’edificio dove alloggiavano i militari della C.C.S che si trovava sul versante opposto della caserma, accanto alle torrette d’ardimento.
Ricordo che nel breve tragitto a piedi il caporale disse a conforto di chi si lamentava per le prospettive poco operative del futuro incarico: “Va che per voi la naia è finita! Qui alla compagnia comando e sbrago tra quindici giorni vi trovo tutti con l’orecchino e i capelli ossigenati!”.
Era un sabato e la compagnia, un edificio di recentissima costruzione, era semideserta; ebbi il mio da fare per trovare il caporale di giornata che mi indicasse dov’era la camera 46 a cui ero stato assegnato e quando lo trovai mi misi sull’attenti e lo salutai, di tutta risposta egli mi disse beffardo: ”Mostro! Qui non si salutano più i caporali!”; la cosa mi lasciò allibito ma la giudicai presto una vera fortuna poiché di caporali, in quel luogo, sembravano sbucarne ad ogni angolo.
Le camerate erano disposte ai lati del corridoio ed ognuna era dotata di porta con serratura tanto che pareva d’essere in un ospedale o in un albergo e non in caserma.
Quando bussai alla camera che mi era stata assegnata, la numero 46 dell’ultimo piano, mi aprì un ragazzo sonnecchiante e con un mezzo sorriso mi fece entrare.
Non potevo credere ai miei occhi! Mi sembrava di essere tornato a casa: le tapparelle socchiuse non mi impedirono di notare la pulizia di quella camera, dotata di servizi igienici interni, mobiletti in lamiera e a muro, ripostiglio, finestre con doppi vetri. Non era questo che mi aspettavo dal servizio militare ma razionalizzai subito che non mi era andata così male. Dopo essermi presentato ai tre ragazzi che riposavano sulle proprie brande, domandai loro quale sarebbe stato il mio incarico ed essi mi dissero che sarei probabilmente stato assegnato all’ufficio addestramento e lanci.
Parlai con loro del più e del meno e solo verso sera mi fecero presente, in modo educato, che, dal lunedì mattina successivo, sarebbero toccate a me le pulizie della camerata.
Non ebbi purtroppo il tempo per conoscere gli altri occupanti la camerata che erano in licenza poiché mi fu comunicato che il mio vero incarico era quello di addetto al deposito carburanti e dovevo perciò rifare i bagagli per trasferirmi nella camera numero 12 che si trovava al pianterreno del medesimo edificio.
Pensavo che sarebbe cambiato ben poco ma in realtà vi trovai un’atmosfera molto differente, meno compassata e più vitale, ma soprattutto un gran trambusto di ragazzi che andavano e venivano.
Quella stanza mostrava i segni evidenti della vita che si svolgeva al suo interno: entrando dovetti prestare attenzione a non inciampare nei fili elettrici che correvano lungo il pavimento sino ad alimentare una TV ed un fornellino elettrico con il quale qualcuno stava preparando il caffè.
Furono tutti molto cordiali nei miei confronti e una volta deciso dove mi sarei dovuto sistemare e quale armadietto utilizzare due ragazzi mi chiamarono in disparte; erano di uno scaglione più anziani di me e mi dissero che era loro compito istruirmi su quelle che, se pure potevano sembrare strambe ed insensate, erano le usanze da conoscere per vivere tranquillo lì dentro.
Mi spiegarono parecchie cose che avrei interiorizzato soltanto con la pratica quotidiana; essi mi introdussero in un mondo nuovo, fatto di regole, gergo e rituali che non trovavano alcun riscontro empirico nella vita civile e alle quali mi sarei in parte abbandonato, attraverso un processo di socializzazione prima e di osmosi poi, restando pur sempre presente a me stesso e ai miei principi.

La foresta dei simboli: gerarchia parallela e organizzazione informale della vita in caserma.
Classi d’età.
Erano considerate importanti anche da chi non si dimostrava particolarmente ligio alle “tradizioni” poiché segnavano lo scorrere del tempo e l’avvicinarsi del congedo. Indicavano l’accrescersi della confidenza con la vita di caserma e possono, in fondo, considerarsi metafora della vita.
Mostro: dal primo al terzo mese di permanenza (anche sino al quarto nel caso di corso caporali ). Frase tipica: “Mostro sono e morire devo”
Capo mostro: dal quarto al quinto mese.
Anziano pompante: dal quinto al sesto mese.
Anziano potente: dal sesto al settimo mese.
Vecchia: dal settimo all’ottavo mese. “La vecchia è stanca”.
Vice conge: dall’ottavo al nono mese. “La vice ti benedice e se pompi è più felice”.
Conge: dal nono mese all’atto del tine-test.
Fantasma: dopo il tine-test e sino al giorno del congedo. Perde tutti i poteri ma va comunque rispettato.
Turista: chi rimane in caserma per scontare giorni di rigore.
Fratellino: così ci si identifica tra pari scaglione.
Allievo: il novellino secondo l’anziano

Flessioni sulle braccia o “pompate”.
Si pompa quando la “conge” o il tuo “anziano diretto” danno l’ordine: “Vai a terra!”, la Vice mette un dito a terra o la Vecchia mette tre dita a terra.
La “pompata” viene comminata come punizione, segno di rispetto, ma in alcuni casi è un gesto volontario nel segno della “tradizione”, un modo per sentirsi paracadutisti.
Prima di eseguire si battono le mani tante volte quanti sono i lanci all’attivo.
Nell’atto di pompare “l’anziano” può porre alcune domande per le quali ci sono risposte predefinite:
“Quante ne hai fatte?”
“Mille più del fante, cento più del diavolo, una meno dell’anziano che riposa”.

“Come ti chiami?”
“Il mio nome è Flasch, veloce come un razzo per l’anziano che non fa un cazzo”.

“Come stai?”
“Agile e scattante al servizio del potente, fresco come una rosa per l’anziano che riposa”.

In tema di pompata ci sono alcune variazioni che rendono l’esercizio più’ faticoso:
“Bloccati in posizione uno/due/mezzo!”
1-Braccia flesse e naso a pochi cm dal pavimento.
2-Braccia distese (“a ponte”).
½-Braccia semi-flesse.

“Passo!”
Si battono le mani tra una flessione e la successiva.
“Cadenza!”
Battuta delle mani avanti e dietro la schiena.
“Somalo!”
Tra una flessione e l’altra si portano le braccia lungo i fianchi.
“Fanne 10 a scalare da un miliardo!”
“999milioni999mila999, 999milioni999mila998…..”. Il tutto ad alta voce e senza sbagliare altrimenti si ricomincia daccapo.

“Fanne 20 a scalare!”
“20-19-18-…/ 19-18-17../ 18-17-16..”. Totale 207 piegamenti.

Vi sono anche delle simulazioni:
“Cerchiolini” (si muove tutto il corpo in maniera circolare ), “barchetta” (si oscilla) , “barchetta a vela” ( si solleva un piede ), “barchetta a vela e motore” ( si simula il rombo del motore ).

Ha il diritto di “mandare a terra” chi è più anziano di almeno due scaglioni.
Se la differenza è di uno scaglione soltanto è necessario che il più anziano esegua almeno 3 flessioni prima di dare l’ordine.
Se capita di vedere a terra un “anziano” o un pari scaglione è bene che si faccia lo stesso.

Se il basco cade accidentalmente a terra o qualcuno lo fa cascare di proposito ad un commilitone, il proprietario deve immediatamente raccoglierlo con i denti e “pomparlo” quanto basta.

Nessuno ha il diritto di mandare a terra un allievo in presenza di un congedante a meno che questi non sia d’accordo.

Non si può mandare a terra un “allievo” in presenza del suo “anziano diretto” (+4 scaglioni ).

Mentre si sta pompando “la Vecchia”, “la Vice” o “la Conge” ti possono chiedere di fargli il “Ritti,ritti!”.
Per “la Vecchia” si dirà: “1 per te che è quasi-quasi finita, 3 per me che manca una vita!”.
Per “la Vice” si dirà: “1 per te che è quasi finita, 3 per me che manca una vita!”.
Per “la Conge” :” 1 per te che è finita, 3 per me che manca una vita!”.

Quando molti soldati, anche “anziani”, sono “a terra”, il più anziano dei presenti può dare il “Ritti col saluto in ordine di scaglione!”.
Ci si rialzerà in ordine di scaglione andando a salutare (pugni sulle scapole) i più “giovani” e così via sino all’ultimo arrivato che si prenderà il saluto di tutti prima di potersi alzare a sua volta.

A poche notti dal congedo i “nipotini” danno la “buonanotte” al loro “nonno”* (+8 scaglioni):
due “nipotini” coordinandosi nei piegamenti, recitano: ”Buonanotte nonnino-cu-cu tric e trac, il congedo è vicino cu-cu tric e trac, 1 per te che è finita cu-cu-tric e trac, 3 per me che manca una vita cu-cu tric e trac”.
L’indomani si farà la branda al “nonno” e gli si regaleranno il tubo porta congedo, la t- shirt “Pisa addio”(sulla quale verranno scritte delle dediche da parte di “fratellini” e commilitoni amici) e un fantasmino di plastica da apporre sulla mimetica. Il tutto reperibile per una trentina di mila lire nei negozi vicini alla caserma.

Raggiunti i 100 giorni di caserma si possono acquistare la tuta e il borsone colorati della Folgore in vendita nei negozi prospicienti la caserma ed utilizzabili anche al suo interno.
Per esserne “degni” è pero’ necessario “pomparsi” il materiale almeno quanto ha a sua volta fatto il proprio “anziano diretto”(+4 sca. ).
Esempio: “ a terra un’ora e poi 15 minuti di “riposo del guerriero” (distesi a terra poggiando soltanto i gomiti e le punte degli anfibi ).

Altri ordini e scherzi.
Il “Muto!” può essere intimato a coloro di uno scaglione più giovani.
Sono necessari almeno due scaglioni per ordinare il “Bloccati!”.
Tra pari scaglione vale il block “per amicizia”.
“La Conge” puo bloccare più persone dicendo “Fatemi il Presepe!”.
“Sbloccati/Azione!” al termine del gioco.
Chi non rispetta “il block” “paga la mossa” con il “7 ½” : il militare si mette con le braccia conserte proteggendo con la mano sx la spalla dx, l’anziano dà sette colpi sulla mano sx ed una gomitata che rappresenta il mezzo colpo.
La “Chiamata di controllo” viene fatta dall’anziano al suo “allievo diretto” (-4 sca.); quest’ultimo è tenuto a tenere il conto dei giorni di caserma rimasti al proprio anziano e a comunicarglieli senza sgarrare urlando: ”x giorni all’alba e non per tutti!” .
Fare “il cu-cu” :l’”allievo” viene fatto appollaiare sull’armadietto e alla richiesta dell’ora imiterà l’orologio a cu-cu.
Lo “Sbrandamento”: uno o più “anziani” sollevano il materasso dell’allievo facendolo cadere dalla branda.
La “Schiumata o Tomba” consiste nel rovesciare sul viso di chi dorme un miscuglio di schiuma da barba e lucido da scarpe.
“L’incollata” prevede che la serratura dei lucchetti per armadietto venga bloccata con della colla.
“Le barzellette”: la sera, dopo il contrappello, viene chiesto agli “allievi” di raccontare a turno delle barzellette e nel caso non siano abbastanza divertenti l’allievo viene fatto pompare in branda.
Le reclute della Compagnia trasporti vengono mandate a prendere “le chiavi del CH”, ma, giunti dall’anziano in questione, ricevono una serie di schiaffi sincronizzati su nuca-fronte.
“Sacco pieno-sacco vuoto”: una serie di fastidiosi esercizi inerpicati sulla branda.

“La sporca”.
Merita particolare attenzione poiché rappresenta il rituale più violento al quale io abbia assistito in caserma.
Esso viene perpetrato “ai danni” del congedante: a poche notti dal congedo “il nonno” passa da tutti quelli che ritiene lo abbiano rispettato e si sottomette ai loro ordini.
Usualmente viene “mandato a terra” e dopo aver eseguito uno svariato numero di “pompate”, bloccato in “posizione due”, riceve tutti quei colpi che l’allievo ritiene di aver patito per mano sua . Suddetti colpi, anche molto violenti, vengono sferrati in zone poco sensibili (scapole, dorsali) ma, una “sporca” dopo l’altra, portano alla formazione di grossi ematomi da esporre come trofeo nei giorni successivi. Molto gettonati e dolorosi sono anche gli schiaffi sull’avambraccio e sul retro delle ginocchia.
La Sporca si conclude con un abbraccio.
Generalmente chi se ne “becca” tante se le è anche meritate ma non sono rari i casi di chi se ne prende più del dovuto. Non ho mai visto “allievi” conciati alla stessa maniera.
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Gergo e modi di dire.
“Cane morto o cagnaccio”: chi si sottrae alle norme della tradizione. Non implica necessariamente la segregazione sociale dell’individuo né provvedimenti violenti vengono presi nei suoi confronti, tuttavia, non godendo della fiducia e della stima degli anziani, ma anche dei “fratellini” che non si erano sottratti al “sistema”, si ritrova spesso a ricoprire gli incarichi più gravosi o comunque a prestare servizio nei fine settimana.
“Potenza”: riferita ad uno scaglione o ad un “anziano”, sta ad indicare il livello di “rispetto” e “massiccità” che si sono meritati nell’arco del servizio, assoggettandosi prima e applicando poi, tutti i dettami della “tradizione”. Solitamente “la potenza” di un “anziano” è sancita dai suoi pari scaglione che, testimoni del suo comportamento da “allievo”, legittimano o meno le sue pretese di “rispetto” di fronte ai nuovi arrivati.
“Vurria mai” per dire: “Mi auguro che tu non abbia fatto o pensi di fare la tal cosa”.
“Te la becchi/Fai la muffa/Non ti passa un cazzo/Ma quando ti passa/Devi morire gonfio” sono frasi di “conforto” destinate agli allievi.
“In 5-4/tempo Folgore” per incalzare l’allievo ad eseguire velocemente l’ordine. Il “5-4”riprende il conteggio alla rovescia che si fa durante gli assalti a postazione: al termine di ogni count-down la pattuglia dovrà essere “avanzata e coperta”.
“Già sai!”: per ostentare sicurezza, certezza.
“Scazzare” significa non obbedire o fare le cose in malo modo.
“Fare a modo”: fare le cose come si deve.
“Fare la botta”: significa non avere un attimo di tregua tra servizi di compagnia, incarico e “anziani” fastidiosi.
“Massiccio”: attributo di chi obbedisce senza fiatare.
“Naione”: si dice di chi segue maniacalmente le tradizioni del militare di truppa.
“Gonfio”: chi è al limite della sopportazione.
“Dormire a 69”: a 69 giorni dal congedo “l’anziano” chiede al proprio “allievo”, alloggiato nella branda sopra la sua, di invertire per una notte la posizione del cuscino.
“Addebito!”: viene urlato all’unisono in mensa quando si ode il rumore di un piatto infranto rendendo così inevitabile la segnalazione di addebito (il costo della posata infranta verrà scalato dalla paga mensile).
“Stecca”: sta ad indicare un oggetto lasciato “in eredità” dal congedante ad un commilitone di suo gradimento per motivi di amicizia, provenienza geografica comune o per meriti di “massiccità”. Se la “stecca” è rappresentata da cianfrusaglie di nessun valore come per esempio scatole di medicinali o vecchi giornali (non pornografici, essendo questi ultimi molto ricercati), può essere interpretata come segno di disistima.
La “stecca” indica anche un grosso oggetto (solitamente una grossa mazza di legno o un foglio di compensato dove tutti quelli che hanno ricoperto un determinato incarico possono apporre la propria firma accompagnata dall’immancabile scaglione di appartenenza).
“Imboscato”: colui che sfugge agli incarichi più gravosi grazie all’astuzia e ai poteri dell’anzianità.
Gli “anziani” della mensa si erano ricavati dei giacigli posticci sui carrelli porta vivande in alluminio e tra gli scaffali del magazzino furono scovati addirittura dei materassi.
Nel plotone trasporti c’era l’usanza di andare a dormire sul “Cacciamali”, un autobus con cuccette.
Vi erano poi “luoghi liberi” , come il Deposito Carburanti, che, per la loro ubicazione e i comfort di cui erano provvisti (TV e macchina del caffè) si prestavano bene come rifugio per gli “anziani” i quali ci passavano intere giornate giocando a carte e costringendo magari l’ addetto più “giovane” a stare fuori.
“Attacchini”: maniera illecita di prolungare le licenze attraverso le “alchimie” del furiere amico.
“Azzurrine”: fogli di trasporto militare che danno diritto a sconti sui viaggi ferroviari.
Anche se non ne fui personalmente testimone, girava voce che in passato alcuni militari avessero fatto commercio illecito dei suddetti fogli.
“L’alba”: la fine della naia.
“La marcetta”: marcia che lo scaglione è autorizzato a fare sul piazzale della caserma la sera prima del congedo e alla quale presenziano Comandante e Vice Comandante.
“Il 48 conge”: corrisponde all’ultimo fine settimana in caserma e, allorché si disponga di un permesso di 48 ore, si organizza un ultimo “fuori porta” con i fratellini anziché andare a casa.
Di tutti i termini e le pratiche su elencate potevano ovviamente fare uso soltanto i soldati “anziani”.

Segni di riconoscimento e vita di camerata.
-Occorrono 100 giorni di caserma per poter indossare in caserma la tuta fuori ordinanza reperibile nei negozi di articoli militari e utilizzare il relativo borsone con banda tricolore.
Gli unici a ricevere ufficialmente in dotazione delle tute ginniche differenti da quelle verdi dell’Esercito erano i caporali A.I.P.. Nessuno si è mai opposto all’utilizzo di queste tute in caserma.
Il borsone veniva poi ornato con appositi scudetti, uno per ogni lancio, anch’essi reperibili esternamente. Era necessario essere almeno “la Vecchia” per poter personalizzare il borsone con scritte riportanti grado e nome, scaglione, numero di brevetto nonché qualche inno della Brigata.
-100 giorni per “sfumare” il taglio dei capelli e fumare in camerata.
-150 giorni per il doppio taglio e il pizzetto (quest’ultimo non era tuttavia tollerato da molti comandanti di compagnia). Queste ultime due “regole” erano particolarmente efficaci nel dare, almeno a livello estetico, l’illusione di essere, anche anagraficamente, più anziani.
-150 giorni per poter roteare la collana portachiavi ed eventuale “pallina”.
Suddetta pallina, nata come opera di paziente artigianato da parte dell’ oberato militare “anziano”, consiste in una biglia di vetro pazientemente avvolta da una cordicella di nylon colorata (altrimenti acquistabile preconfezionata).
-150 giorni per stringere i pantaloni e la giacca della mimetica.
-200 giorni per portare i pantaloni fuori dagli anfibi e accorciare la giacca della mimetica.

-A seconda della classe di età il basco va riposto in tasca in maniera differente:
Mostro: fregio all’ingiù e rivolto verso la coscia.
Anziano potente: fregio all’ingiù e rivolto verso l’esterno.
Vecchia e Vice: fregio all’insù rivolto all’interno.
Conge: fregio all’insù rivolto all’esterno.
-“La Conge” può incurvare il fregio e limarlo per renderlo dorato ma anche per questo i negozianti provvedevano a fornire il prodotto preconfezionato.
-“La Vecchia” può “sborchiare” gli anfibi (togliere la vernice dalle borchie degli anfibi rendendole dorate).
-“La Vice” sostituisce ai normali lacci le funicelle verdi del paracadute (acquistandole o facendosele fornire dai fratellini della Compagnia Ripiegatori).
Si diceva che un tempo il “fantasma” potesse addirittura utilizzare le ben più vistose funicelle bianche.
-“La Conge” può utilizzare, al posto della normale cinghia dei pantaloni, una fibbia ottenuta riciclando le funi di vincolo, quelle che permettono l’apertura del paracadute nel lancio militare e che restano penzolanti dalla carlinga.
-Solo “gli anziani” possono camminare con le mani in tasca e il bavero della mimetica alzato.
-“L’anziano” può rendere più funzionale il proprio posto branda arricchendo l’armadietto di ripiani, scaffali, anche finemente lavorati, che prendono il nome di ”castello”(spesso lasciato “di stecca”) nonché di specchi e portacenere. Non erano rari i casi di chi escogitava veri e propri marchingegni, quali l’armadietto che si illuminava all’apertura.
Vari erano invece i metodi adottati per rendere più rigida la rete della branda stringendola con delle tenaglie oppure apponendovi delle tavole di legno.
-“Mostri” e “capomostri” alloggiano nella branda soprastante dei letti a castello e devono salirvi dal davanti con una capriola.
-E’ necessario il permesso dell’”anziano” sia per andare in branda che per fare la doccia (in C.C.S.).
-Gli sgabelli ,sempre in numero esiguo, spettano agli “anziani” che li lasceranno poi “di stecca”.
-La mattina gli “allievi” si svegliano prima per iniziare eventuali pulizie e per fare da piantone all’”anziano” che desideri restare in branda anche dopo la sveglia (in C.C.S.).
-“Gli allievi” devono provvedere al cambio delle lenzuola portando in lavanderia quelle sporche e assegnando in ordine di qualità quelle pulite tenendo per sé le più malandate e pagando di tasca propria, all’atto della restituzione, eventuali strappi .
-“Gli allievi” sono tenuti a fare le commissioni allo spaccio o fuori della caserma per gli anziani che non desiderino uscire.
-Le pulizie ordinarie (di tutti i giorni) e generali (più accurate e settimanali) delle camerate toccano per due mesi al nuovo arrivato, durante il primo mese affiancato da chi in camerata è di uno scaglione più anziano e per il mese successivo affiancando a sua volta il nuovo arrivato (in C.C.S.).
Solitamente ci si accollavano anche le spese per scope e detergenti, scarsamente presenti in caserma. Le camerate erano ispezionate quotidianamente e al momento dell’adunata delle 13.30 il caporale di giornata esponeva gli esiti del controllo, camera per camera, esprimendo un giudizio: pulita, pulita e profumata, sporca, sporca e maleodorante. Questo modo di gestire le pulizie era dettato e favorito dal fatto che i piantoni si limitavano alla pulizia dei corridoi e l’accesso alle camere, chiuse a chiave dopo l’ispezione, non era consentito ai non appartenenti alla camera.

Canti.
Lo scorrere del tempo in caserma era segnato anche da canti e ritornelli che ogni mese rimbombavano per le campate urlati a squarciagola dai congedanti.
Due su tutti:

Cara burbetta dimmi una cosa: cosa facevi tre mesi fa?
Andavi a spasso con la morosa e non pensavi a fare il parà.
Fare il paraca qui alla S.Mi.Par. oh! Mamma mia male si sta!
Male si sta per tanti motivi: nonni cattivi da sopportar!
Nonni cattivi, zaini pesanti, sempre più avanti bisogna andar!
Sempre più avanti, sempre in colonna,
porca _adonna, la finirà!,
La finirà questa naia schifosa dalla morosa voglio tornar,
dalla morosa e dall’ amante sotto le piante a fare l’amor!
Sotto le piante, sopra il trifoglio, scopar ti voglio sposarti no!
E dieci mesi li ho fatti io e porco _io falli anche tu!

Allarme, allarme! Allarme siam borghesi!
Son giorni e non son mesi
E non si sente più la ritirata
Nemmeno il contrappello e l’adunata
E non si mangia più nella gavetta
Perché l’abbiam lasciata alla burbetta
Burbetta sparati! Se c’hai tre mesi
per noi son giorni e non son mesi
e non c’è firma, né firmamento
questo è il momento che a casa si va!
A casa si va e non si torna più!
Evviva la borghesia, evviva la gioventù!

Canzoni di questo tipo sono diffuse, con appositi arrangiamenti, in ogni caserma italiana e risultano forse per questo un pò paradossali, specialmente se si tiene presente che il reclutamento nella Folgore avviene su base volontaria.

Servizi, incarichi, favori e licenze.
I servizi di piantone notturno, nonché C.D.G. (caporale di giornata) e piantone diurno erano svolti prevalentemente dai nuovi arrivati e comunque quasi mai dai più anziani.
Le licenze straordinarie di 36 o 48 ore, mentre erano settimanali, scanso impegni in servizi di Compagnia, per chi era impiegato negli uffici del Comando; erano, per gli incarichi che richiedevano una copertura “24 ore su 24”, regolate da ferree leggi di anzianità.
Per esempio, presso il Deposito Carburanti e Lubrificanti, dove io fui destinato, erano impiegati 3 militari, e le licenze erano così organizzate: il più anziano era in permesso ogni fine settimana, il mediano due settimane si e una no, l’ultimo arrivato due no e una si.
Essendo richiesta una copertura serale si procedeva allo stesso modo: il più anziano non montava mai, il mediano due sere la settimana, l’ultimo arrivato tutte le restanti.
E’ facile intuire che, in questo tipo di incarichi (Depo.C.eL., armeria, ecc.) il novellino poteva “mettere il naso” fuori della caserma 6 volte in 21 giorni; quasi la galera.
“L’agonia” finiva quando fosse subentrata una nuova recluta ma poteva capitare che, se “per errore” fossero stati chiamati due scaglioni consecutivi a coprire l’incarico, il terzo arrivato (e fu il mio caso) doveva attendere dai cinque ai sei mesi prima di avere un “allievo” e si trovava perciò nell’ambiguo status di “anziano in camerata e allievo sul lavoro”.
Non compresi mai appieno il criterio di assegnazione degli incarichi ma le linee di fondo che mi parevano più seguite erano le seguenti: chi era in possesso di diploma o laurea era candidato principale per incarichi d’ufficio, fureria o scritturale; chi possedeva patenti di guida speciali era più facilmente destinato a plotoni o compagnie trasporti; solitamente la mensa truppe era la destinazione certa per chi aveva i titoli di studio più bassi mentre gli artigiani erano quasi sempre destinati al minuto mantenimento. Questo è quanto avveniva in linea di massima ma conoscenze “giuste” tra ufficiali o anche soltanto tra soldati “anziani” potevano cambiare le cose, specie per quegli incarichi che avevano un’utilità effettiva anche a servizio concluso: le patenti militari, infatti, potevano essere convertite in civili e ciò rendeva particolarmente ghiotto l’incarico di conduttore. Si assisteva inoltre ad un curioso fenomeno per cui, specialmente per determinati incarichi, sembrava ci fosse un reclutamento a base regionale: per esempio i napoletani addetti ai servizi mensa, passi il pizzaiolo, erano veramente troppi per pensare che fosse una casualità. Capii in seguito che, lungi dall’essere una costante, poteva tuttavia capitare che, per ragioni campanilistiche o di simpatia personale, i militari “anziani” o addirittura il maresciallo responsabile, cercassero personalmente tra le reclute del Corso palestra i futuri addetti alla mensa truppe. Questo meccanismo era ovviamente estensibile a molti altri incarichi dove, al contrario, era raro trovare un ragazzo meridionale come addetto.
Per quanto riguardava le licenze, le Brevi o l’Ordinaria non potevano essere richieste fintantoché il proprio anziano si fosse congedato, per evitare che questi dovesse ricoprire servizi che non gli spettavano più.
Ovviamente l’ultimo arrivato, dopo un breve periodo di affiancamento, si accollava la quasi totalità del lavoro da svolgere.
I sottufficiali addetti alle singole sezioni non si immischiavano nella regolazione delle licenze né dei turni di lavoro ma chi lavorava al Comando poteva stringere rapporti particolari con qualche ufficiale e questo gli consentiva a volte di sfuggire ai servizi di compagnia.
Con l’andare del tempo potei constatare come in caserma si sviluppassero tutta una rete di amicizie che potevano favorire scambi di favori di vario genere e questo dalla mensa allo spaccio, dal casermaggio agli uffici.
Lo scambio di materiali fra gli appartenenti ai vari magazzini alimentari o del casermaggio erano di ordinaria amministrazione ma in alcuni casi si arrivava addirittura alla manipolazione di documenti personali quali l’attestazione del conseguimento del grado di caporale, da far valere in futuri ed eventuali concorsi pubblici.
Di gran lunga più richiesti erano però i favori che solo i furieri potevano soddisfare: coprire “mancati rientri”, prolungare “artificialmente” le licenze o ottenere fogli di trasporto militari che dessero diritto a grosse riduzioni sui viaggi in treno (“azzurrine”).
I sermoni del comandante della C.C.S. contro l’uso di droghe leggere erano quotidiani e dato che le minacce non bastavano si provvedeva periodicamente ad effettuare il “controllo urine” su di un certo numero di militari estratti a sorteggio (almeno così si diceva); i controlli erano per ovvi motivi più frequenti fra gli appartenenti al plotone trasporti. Questi provvedimenti erano tuttavia scarsamente efficaci in quanto i tentacoli della “piovra” erano estesi anche all’infermeria del C.S.A. (Centro Sanitario Aviotruppe): i campioni di urine venivano sistematicamente manomessi. E’ interessante notare come questo meccanismo di copertura funzionasse non solo per il soldato anziano che aveva qualche conoscenza in infermeria ma anche per i neo incorporati, in quanto l’essere “fumatori” implicava l’appartenenza ad un gruppo che travalicava le distinzioni d’anzianità ed era facile che l’anziano facesse coprire il novellino per poter continuare a condividere con lui i “piaceri del fumo”.
Un’altra nota dolente era rappresentata dall’argomento lanci: mentre io e come me molti altri del mio scaglione, dovemmo attendere parecchi mesi (da Febbraio a Luglio) per poter effettuare il terzo lancio che ci desse diritto all’indennizzo, altri nostri “fratellini” appartenenti a Compagnie, come il Reparto Corsi, più a contatto con l’attività lancistica, oppure “immanicati” con qualche addetto all’ufficio addestramento e lanci, erano riusciti a fare addirittura otto lanci (ognuno di questi, così facendo, aveva fatto saltare parecchi mesi di indennità a molti propri commilitoni).
Per accedere a questi favori esulavano fattori quali la capacità dimostrata nell’adempimento degli incarichi e persino il fatto di avere o meno conseguito il brevetto di paracadutista (lanci esclusi, ovviamente): erano non pochi i soldati che, pur non avendo superato il Corso palestra, svolgevano servizio in Brigata, pienamente inseriti nel complesso di norme e “tradizioni” dianzi descritto.
Queste consuetudini erano probabilmente favorite dalla mortificazione delle aspettative di chi si attendeva dal servizio in Brigata una vita un pò più movimentata; ciò portava, col tempo, ad una ridefinizione dei propri obiettivi: approfittare al massimo di ogni piccola gioia e beneficio che la vita in caserma poteva a quel punto riservare, ma soprattutto organizzare al meglio le proprie licenze.
Nonnismo. Perché?
Le suddette “performance” non erano tutte egualmente osteggiate dagli ufficiali; mentre quelle relative alle “pompate” e al linguaggio da caserma sopravvivevano a stento e comunque con il consenso degli “allievi”, quotidianamente invitati a denunciare qualsiasi tipo di sopruso (capitava a volte che la sera, prima del contrappello passasse addirittura l’ufficiale medico per effettuare il cosiddetto “controllo lividi”), tutto ciò che riguardava invece spartizioni di favori, licenze, incarichi e servizi continuava ad essere saldamente in mano agli “anziani”. A posteriori posso ricollegare questa lotta agli aspetti visibili del “nonnismo” come conseguenza del diffondersi tra gli ufficiali (e non solo), nel corso del mese di Marzo del 1998, dello “Zibaldone” del generale Celentano, due pagine del quale erano dedicate a “Comportamenti, segni ed atti che individuano il nonnismo”. La trattazione (per altro sommaria) dell’argomento “nonnismo”, limitandosi agli elementi immediatamente percepibili del fenomeno, denota una scarsa conoscenza, da parte degli ufficiali, del fenomeno in questione.
Quello che generalmente pesava di più ai neo arrivati era il sovraccarico di lavoro e servizi a cui andavano ad aggiungersi il rispetto di tutta questa miriade di regole, che pur non particolarmente violente o lesive della dignità umana (parere personale) potevano alla lunga diventare fastidiose se applicate da un “anziano” particolarmente “solerte” e “ligio alle tradizioni” (soggetti di questo tipo erano fortunatamente pochi e tra loro erano sovrarappresentati coloro che da “allievi” si diceva avessero mal digerito il rispetto per i più anziani e che comunque si rivelavano incapaci di intrattenere rapporti di amicizia anche con i “fratelli” del medesimo scaglione).
E i paracadutisti veri, “quelli di una volta”? Si diceva che anch’essi un tempo seguissero lo strano codice dell’anzianità, fatto di rituali, segni di distinzione e privilegi; mi rattristava il fatto che fossero rimasti solo quelli, come una cornice senza quadro.
Pochi si lamentavano dell’inoperatività militare e il “sentirsi paracadutisti” ruotava oramai attorno alla sopra descritta microritualità quotidiana che rendeva duri psicologicamente e fisicamente i primi due mesi dopo l’incorporazione.
La convinzione prevalente era che queste “tradizioni” servissero a cementare lo “spirito di corpo” e la solidarietà fra pari scaglione e che fossero tanto più dure e seguite quanto più operativa era la caserma (si diceva infatti che a Siena e Pistoia la vita per gli allievi fosse un inferno). In realtà a me pareva che se da un lato il “nonnismo” poteva stringere i legami tra chi lo stava subendo insieme, dall’altro creava una sorta di “evitazione” nei confronti degli anziani (ma in alcuni casi vera e propria antipatia) che non mi pareva del tutto funzionale ad un eventuale impiego bellico.
Io, per ovviare alla scarsità di emozioni che il servizio militare mi stava riservando, mi iscrissi ad un corso civile di paracadutismo sportivo T.C.L. (tecnica di caduta libera) che si teneva in parte all’interno della caserma dopo l’orario addestrativo.
E’ necessario puntualizzare che queste “mode”, oltre a non essere seguite pedestremente da tutti i militari, non erano nemmeno egualmente diffuse in ogni compagnia. Le variabili principali da cui sembravano dipendere erano le seguenti:
-Il numero di soldati di cui la Compagnia era composta
Mi sembrò evidente che maggiore era il numero di appartenenti ad una compagnia, maggiori erano i comportamenti e le dinamiche che sfuggivano al controllo del comandante e del suo ristretto staff (un tenente, due sottotenenti di complemento e tanti marescialli quanti erano i settori specifici). Era questa la situazione che caratterizzava la C.C.S. (alias “compagnia comando e sbrago”) nei primi mesi del 1998.
-La composizione del personale nelle camerate e la qualità della vita al loro interno
Riscontrai personalmente come “rispetto delle tradizioni” e “nonnismo” fossero più diffusi in Compagnia Comando e Servizi quando ogni mese i nuovi arrivati venivano distribuiti fra le camerate in cui erano già presenti militari più anziani e la recluta veniva accolta ed educata alle nuove “regole di sopravvivenza” dai soldati sino a quel momento più’ “giovani”.
Dopo un breve periodo di rodaggio (gli “anziani” erano cauti e prima di “andarci pesante” tastavano il polso della recluta), iniziavano due mesi fisicamente e psicologicamente molto duri così riassumibili: molti servizi diurni e notturni, molte pompate, poche libere uscite e quasi nessuna licenza. Ciò sino all’arrivo di un nuovo ed a quel punto agognato scaglione.
Controintuitiva la constatazione che le “tradizioni” erano ben più radicate ove i soldati alloggiavano nella palazzina di nuova costruzione con camerate dotate di porta chiudibile dall’interno, servizi in camera (2 docce, 1 tazza wc, 2 turche, 3 rubinetti) nonché ripostiglio, armadietti a muro e in lamiera per un totale di soldati che andava da 12 a 15, il tutto corredato, all’insaputa dello staff, dai già menzionati televisore e fornellino elettrico.
Suddette comodità avevano un loro prezzo, anche economico: nella mia camerata vigeva la regola secondo la quale ciascun nuovo arrivato doveva lasciare una caparra di trentacinque mila lire al meno anziano fra gli occupanti la camera (che le aveva a suo tempo sborsate) per poi farsele restituire dai futuri nuovi arrivati.
Ovviamente prima di usufruire liberamente di tutto questo “ben di Dio” (guardare la TV e cucinare in camera) era necessario diventare “anziani”.
-Il tempo materialmente trascorso in caserma.
Ai piani alti della CCS, dove erano alloggiati i militari che ricoprivano incarichi d’ufficio presso il Comando e i cui turni di lavoro avevano orari del tutto simili a quelli di qualsiasi ufficio, erano diffusi privilegi d’anzianità ad orientamento prevalentemente occupazionale mentre le altre usanze, pur conosciute, venivano snobbate e ritenute più adatte ai “naioni” dei piani inferiori.
Certo la variabile culturale (il livello medio di istruzione era più elevato) poteva sicuramente spiegare in parte questa differenza ma ancor di più contavano, a mio avviso, il ridotto arco di tempo trascorso a contatto con i commilitoni, l’orientamento occupazionale al servizio militare, nonché quel sentimento di “borghese superiorità” che derivava loro dal lavorare a stretto contatto con gli alti ufficiali, già attivi sostenitori della campagna contro i privilegi legati all’anzianità di servizio.
-La presenza di volontari in ferma breve.
Ricordo che ci fu, nell’arco del 98, un massiccio arrivo di soldati V.F.B. e questo contribuì a rompere la continuità che la gerarchia dell’anzianità richiedeva per perpetuare le proprie usanze.
Molti di questi soldati pretendevano rispetto (riuscendo raramente ad ottenerlo ) in quanto più anziani e graduati. La maggior parte di loro non proveniva da caserme della Folgore o comunque non aveva più né la voglia né le motivazioni per portare avanti usanze proprie di un periodo liminale ben definito come quello rappresentato dal servizio di leva. Ricordo però con disgusto come i loro rapporti reciproci fossero segnati da frequenti alterchi e minacce di passare alle vie di fatto, nonché da odio e diffidenza reciproca. Diffidenza che anche noi provavamo nei loro confronti in quanto il loro orientamento utilitaristico non permetteva di collocarli né dalla nostra parte (spesso si lamentavano dei nostri canti e scorribande che proseguivano anche dopo il contrappello), né da quella degli ufficiali, dai quali ricevevano evidenti segni di disistima. Per identificarli nacque il maligno appellativo di “W.W.F.”.

Cambiamento.
Questo è il quadro di come mi pareva “funzionare” la vita in caserma durante i primi mesi del 1998. Ma le cose iniziarono inspiegabilmente a cambiare.
Fu perpetrata una lotta spietata contro quelle consuetudini, quali la “pompata”, che erano alla base del folklore paracadutista e delle quali anche molti ufficiali erano stati fino ad allora prosecutori (ricordo che alcuni, in modo particolare quelli più affabili e che davano maggior confidenza, quando ci si presentava nel loro ufficio per la firma di documenti, “mandavano benevolmente a terra”).
Questa lotta si attuava innanzi tutto con il pressante invito, rivolto ogni giorno dal Comandante della scuola durante l’alzabandiera e dai Comandanti di compagnia durante le adunate, di denunciare chiunque fosse autore di atti di pseudosuperiorità o comunque facesse scherzi quali la “tomba” o imponesse il “block”.
Il risultato di questa campagna fu quello di diffondere un clima di paura che costringeva gli “anziani” ad essere più cauti con i nuovi arrivati, tastando magari loro il polso, conoscendoli, come avevano già fatto con me, prima di scherzare con loro.
Uno dei provvedimenti presi in CCS per colpire quelli che dallo staff erano stati identificati come “privilegi” dei “nonni”, consistette nel portare via da ogni camerata quei due o tre materassi rigidi o le pedane di legno che contrassegnavano le loro brande. Non si andò oltre.
Come già accennato, la svolta netta avvenne soltanto quando, nel mese di Marzo del 1998, a causa di un incidente avvenuto in una camera accanto alla mia (e trasformato dalle cronache in grave atto di violenza da parte di alcuni nonni nei confronti di un giovane), il Comandante della Scuola fu destituito e il plotone trasporti fu trasferito nei vecchi edifici per costituire una compagnia a se stante sotto il comando di un giovane capitano. Non so se per intuizione personale o su suggerimento, i provvedimenti da questi adottati per debellare le radicate tradizioni di truppa ebbero una certa efficacia e non si ridussero ad una lotta alla goliardia: la composizione delle camerate fu rivista facendo in modo che fossero occupate da militari con al massimo uno scaglione di differenza e che al loro interno non ci fosse un armadietto in più del necessario; non mancò ovviamente la lotta ai segni più visibili dell’anzianità (pizzo, doppio taglio, foggia degli anfibi) e agli “imboscati”, attraverso continue adunate ed appelli; solo con un certo ritardo l’intraprendente capitano iniziò a “mettere il naso” nell’assegnazione di servizi e licenze.
I risultati non furono certo tutti positivi: la pulizie delle camerate fu riservata (come al C.A.R.) ai piantoni e questo, in aggiunta alla formazione di camerate di pari scaglione, causò una drastica caduta del livello igienico e, parallelamente, una vita molto più tranquilla per i nuovi arrivati. La lotta al nonnismo e la sporcizia parevano aumentare di pari passo: all’interno delle camerate si era tornati ad essere, come da civili, tutti diversi, ognuno con le proprie abitudini e fu impossibile (io nemmeno ci provai) organizzare dei turni di lavoro; chi proprio non sopportava tutta quella polvere si limitava a pulire, come facevo io, il proprio posto branda.
“Tradizioni e rituali” sopravvivevano a stento ma ancora con una certa continuità, soltanto fra coloro che erano stati “socializzati” in C.C.S. e ai nuovi scaglioni, pur desiderosi di essere “iniziati”, non si faceva che ripetere mestamente (e pateticamente, dico adesso) che per loro fortuna “tutto era finito”.
In questi discorsi che “l’anziano” faceva “all’allievo” era evidente la “dilatazione temporale” percepibile durante il servizio militare, durante il quale pochi mesi di caserma in più legittimavano frasi del tipo: “Non puoi capire…, una volta era diverso…” ecc..

A partire dal 2° scaglione 1998 notai che anche l’affluenza di militari provenienti dal C.A.R. di Firenze tendeva a diminuire costantemente e il plotone trasporti fu costretto a domandare l’esenzione dai servizi di guardia e corvée cucina per ovviare alla carenza di personale (il numero dei nuovi arrivati decrebbe in continuazione: dai 21 militari arrivati con il 9° scaglione 1997, si arrivò a due con il 2°/98, nessuno con il 3° e il 4°; soltanto a partire dal quinto scaglione, “a nonnismo debellato”, iniziarono nuovamente ad arrivare soldati in numero sufficiente).
La logica che fu seguita fu probabilmente quella dettata dall’equazione: più lavoro e meno nonnismo; ed essa si rivelò in parte efficace. Ma ciò che si rivelò forse più efficace (ma non so quanto razionalmente perseguito e perciò efficiente) fu il fatto di rompere il naturale meccanismo di perpetuazione delle “tradizioni” da uno scaglione all’altro facendo mancare la materia prima: il personale.
Da svariati mesi giungeva voce che ai caporali istruttori di Firenze non era più concesso di essere irriverenti nei confronti delle reclute poiché queste avevano ora il diritto di segnalarlo al Comandante; in seguito a queste denuncie parecchi caporali erano stati degradati e anche alla S.Mi.Par. alcuni caporali A.I.P. furono denunciati a causa del “giochetto dei trenta secondi per andare in branda”. Inoltre, i nuovi allievi paracadutisti furono esentati dai servizi di corvée cucina che tutti noi avevamo svolto durante i fine settimana al Corso Palestra e questa decisione, in concomitanza con l’evidente carenza di personale rafforzò in me la convinzione che tutto ciò venisse fatto per combattere il “nonnismo” sovraccaricandoci di lavoro.
Ci furono dei momenti nei quali, sinceramente, mi chiesi cosa avevo fatto di male per meritare una naia così “grama” e mi affibbiai con riso amaro l’appellativo di “allievo per sempre”. In quel periodo sviluppai un senso di autocommiserazione tale che l’argomento preferito con cui tediavo i commilitoni riguardava la mia situazione semi carceraria. Questo atteggiamento vittimistico era causato dalla frustrazione che mi derivava dal vivere in un ambiente in cui le licenze per il fine settimana erano normalmente concesse; il mio era un sentimento di “privazione relativa” più che reale, poiché, al momento di partire ero consapevole del fatto che sarebbero potuti trascorrere parecchi mesi senza tornare a casa e che questa lontananza rientrava nel normale excursus del militare di leva, tantopiù paracadutista.
Che qualcosa stesse veramente cambiando era confermato dalle voci ufficiose che circolavano irrefrenabili: clamorosa fu la notizia secondo la quale il Terzo BTG. Paracadutisti Poggio Rusco, dove avevo svolto l’addestramento reclute, sarebbe tornato a chiamarsi 78° RGT. Fanteria “Lupi di Toscana” e al suo interno sarebbe rimasta una sola Compagnia paracadutisti.
Per capire come la decisione venne accolta dal personale paracadutista, di leva e non, mi pare utile riportare la testimonianza, affidata alla rete, da F. C. (3°/98) che si trovava in quel periodo nella caserma di Scandicci:

A metà del mese di Luglio c’erano delle voci che allarmavano tutti i paracadutisti del battaglione: girava nell’aria la notizia di un possibile avvicendamento del nostro BTG. con il 78° Reggimento Lupi di Toscana…fra noi il panico più totale!!! Giorno dopo giorno ci si chiedeva che fine avremmo fatto noi paracadutisti (la cosa preoccupante era che neanche i nostri ufficiali ne erano al corrente o almeno ne sapevano quanto noi!!!)…il 25 Luglio ci viene comunicato ufficialmente l’avvicendamento del nostro Comandante e che entro il 15 Agosto il 3° Battaglione paracadutisti Poggio Rusco ammainerà la gloriosa bandiera di guerra a Roma per dar nuova vita al 78° RGT.: la notizia ci coglie di sorpresa, subito dopo ci dicono che bisogna abbandonare il basco amaranto…tragedia!!! In tempo folgore noi e i nostri ufficiali ci mettiamo all’opera per evitare il disastro del BTG., ma nel frattempo le notizie brutte non mancano ad arrivare: niente più indennità di aeronavigazione (non che ci interessasse più di tanto ma questo significava che ormai per loro non contavamo più nulla che non semplici soldati)…ma non ci siamo dati per vinti e dopo lettere e adunate presso il nuovo Comandante (che, devo dire la verità, si è dimostrato colpito e orgoglioso di avere soldati così determinati nel far valere le proprie tradizioni e i propri colori), l’Ufficio Regione Centro ci ha concesso di mantenere il basco e l’indennità ma per l’avvicendamento del BTG. era ormai già tutto deciso. La sera dell’avvicendamento, grazie al Ten. Col. —, abbiamo passato una delle serate “più” della nostra vita (almeno per me): abbiamo marciato e cantato in onore del 3° BTG. Par. Poggio Rusco come se dovessimo andare in guerra, con odio e cattiveria da vendere fino a notte inoltrata: il giorno dopo abbiamo ricevuto tre denuncie dagli abitanti di Scandicci (cittadina dove risiedeva il Battaglione) per disturbo alla quiete pubblica…ci avevano sentito a dieci chilometri di distanza!!! I miei ufficiali dopo l’avvicendamento del BTG. hanno fatto domanda di trasferimento presso altri reparti della Folgore perché non si sentivano più a loro agio.

Ed ecco come a C. risponde, sul libro degli ospiti dello stesso sito, S. M. (12°/97), mio “fratellino” e “anziano” di C.:

Quella notte c’ero anch’io. Grazie, sei riuscito a farmi rivivere una notte che fu fantastica.
Però ci tengo a sottolineare una cosa: la Brigata non morì allora, era già in agonia da tempo. Ma tu ti ricordi cosa succedeva se ci beccavano a pompare? Ti ricordi il nostro Comandante come per tenersi la coscienza pulita reagiva di fronte alle tradizioni? Ricordi come in pochi mesi si è trasformata la Brigata? Ebbene, io ho assistito al netto declino della Brigata nell’anno 1998; quando ero arrivato, la vita in caserma era tutt’altra cosa rispetto da quando mi sono congedato. E tutti, dico tutti, Ufficiali in testa, non hanno mosso un dito.
Tantissimi Ufficiali chiesero, è vero, il trasferimento, ma quasi nessuno chiese di essere trasferito in un altro reparto della Folgore, la maggior parte preferì l’avvicinamento a casa. Il fatto è che, purtroppo , la Brigata è morta nel 1998; solo che adesso se ne vedono le conseguenze in tutta la loro gravità. Ringrazio Dio di non aver continuato, di essermi tirato fuori in tempo. Siamo stati molto fortunati, abbiamo vissuto per un certo periodo come parà veri e porteremo per sempre dentro di noi alcuni insegnamenti che non avremmo potuto trovare altrove. E questa è l’unica consolazione, per quanto esigua.

Si noterà certamente come dalle parole dei due militari in congedo trasudi “spirito di corpo” nonostante identifichino la vita da “parà veri” con la possibilità di “pompare” oltre che con l’indossare il basco amaranto e percepire l’indennità di areonavigazione. “Un po’ poco”, si dirà! Ma era tutto ciò che rimaneva.
Cappellano militare.
Il cappellano militare della S.Mi.Par. era un uomo sulla quarantina, un tipo curioso che, con il suo fare, non dava l’impressione d’essere né prete né militare.
Era arrivato poco prima di noi alla caserma Gamerra e ha frequentato il Corso palestra con il mio scaglione. Lo si notava subito perché portava i capelli rasati, la barba lunga e sulla mimetica aveva apposto, sulla mostrina del grado, una croce gialla che lui stesso si era disegnata.
In pochi mesi si era impadronito delle usanze di noi militari e fu l’unico che fino al mio congedo continuò a tramandare quegli strani modi di fare che solo noi conoscevamo, e questo sotto gli occhi degli ufficiali, con i quali intratteneva però ottimi rapporti.
Ricordo alcune sue divertenti abitudini: capitava, a volte, che in mensa ci facesse cascare il basco dalla tasca costringendoci così a raccoglierlo con i denti e a “pomparlo”, oppure lo requisiva e ce lo restituiva con un biglietto pizzicato nel fregio sul quale era scritto: “Pompa bene, pompa sano, pompa assieme al cappellano!”.
Scherzava e si intratteneva volentieri con tutti ma non disdegnava, a volte, il ruolo autoritario che gli derivava dalla confidenza con gli alti ufficiali e dal suo grado di tenente. Ed era proprio questo rapporto privilegiato con lo staff che rendeva incomprensibili o quantomeno incoerenti determinati suoi comportamenti.
Egli aveva un particolare attaccamento nei confronti del mio scaglione poiché era quello con il quale si era brevettato e in occasione del nostro congedo ci dedicò una messa; anche quella volta non perse l’occasione per alludere candidamente, ed in presenza del Comandante, al fatto che se lui era riuscito a fare molti più lanci di noi, era perché qualcuno, “lassù” (al comando ovviamente, si noti il gioco di parole), gli voleva bene.
Con il suo comportamento giullaresco – era il solo a cui fosse concesso di irridere pubblicamente comportamenti, fatti e persone – egli fungeva però da cartina tornasole dell’atmosfera ambigua che regnava in caserma.

“C’era una volta…”. Ufficiali e sottufficiali, Fortezza Bastiani e disincanto.
I miei rapporti con il personale effettivo erano abbastanza ridotti e quindi mi è difficile esprimere un giudizio su ufficiali e sottufficiali; ancora una volta devo affidarmi ad atteggiamenti e frasi carpiti “di sfuggita”.
Tracciare il profilo del “militare paracadutista ideale” significa cascare, come Weber stesso ci insegna, in stereotipi privi o quasi di ogni riscontro con la realtà; ciononostante, se è dall’apparenza che vogliamo partire, posso con sicurezza affermare che nella caserma di Pisa non erano più di due o tre le persone che a questo stereotipo corrispondevano con evidenza: rasati (ma chiaramente calvi), muscolosi, collo taurino, sguardo truce, marzialità del portamento e battuta pronta, dediti alla corsa zavorrata e alla cultura fisica. Con questo non intendo dire che tutti gli altri si presentassero come debosciati ma soltanto che non erano molti ad appagare militarmente lo sguardo.
Per quel che riguarda la mentalità, almeno all’apparenza, le differenze erano enormi: c’era chi, specialmente tra gli ufficiali, viveva nella speranza di una chiamata in missione e chi, forse più realista ma meno militare, si faceva le proprie otto ore e aveva rinunciato anche all’indennità di aeronavigazione per evitare l’incombenza di affrontare l’oramai ripetitivo rituale del lancio.
Si dirà che in fondo nell’esercito le cose sono sempre state così, ma forse in quegli ultimi anni qualcosa era cambiato davvero. Tralasciando il fatto che “giocare alla guerra” dopo i trent’anni può risultare ai più pesante e noioso, alcuni militari anziani, specialmente marescialli (con i quali ero più a stretto contatto), avevano riscontrato un effettiva caduta di stimoli e capacità decisionale anche da parte degli ufficiali; ricordo infatti che un giorno un maresciallo, avendo appena ricevuto una telefonata dal colonnello mi disse: ”Vedi, qui una volta il colonnello ti chiamava per dirti cosa dovevi fare, adesso ti chiama per chiederti un parere”.
In un’altra occasione, riferendosi ai rapporti interpersonali con i colleghi, un altro sottufficiale sottolineò come questi andassero un tempo anche al di là dell’orario lavorativo e, specialmente in coincidenza con le festività, si organizzassero pranzi e buffet durante i quali le consorti si cimentavano nella preparazione di leccornie e si scambiavano doni.
Anche la coscienza dell’inutilità del proprio mestiere si faceva largo nei loro discorsi: “Ormai qui l’unico modo per renderci utili sarebbe di convertirci in addetti alla protezione civile a tempo pieno”.
Eppure quei signori in divisa erano gli stessi che vent’anni prima, giovani caporali, ricevendo la loro prima paga si erano forse domandati come fosse possibile essere pagati per fare un mestiere che a loro piaceva così tanto.
Era semplice nostalgia del passato o un chiaro esempio di burn out?

Approssimarsi del congedo.
“Con la pioggia o col sereno anche oggi è un giorno in meno (…)”. Questo era uno dei tanti modi di dire (il cui seguito non è qui il caso che io riporti) che in caserma segnavano il passare del tempo.
Quando finalmente anche a me mancarono un paio di mesi al congedo e nonostante mi fossi imposto, anche per motivi di sicurezza ma soprattutto per convinzione personale, di non comportarmi da “anziano” a tutti gli effetti, la sorte giocò dalla mia e mi trovai sollevato, causa una riorganizzazione degli orari dettata dall’alto (e da me personalmente sollecitata), dai gravosi turni di lavoro. Stancatomi in fretta delle mattinate al mare, domandai di poter partecipare al corso caporali (il grado non era visto come una promozione e anche la sua utilità, dato l’approssimarsi del congedo, era del tutto relativa) e dopo solo quattro giorni mi fregiai dei gradi (me li dovetti procurare dato che non era prevista alcuna assegnazione ufficiale).
Nonostante cercassi di tenermi occupato in ogni modo, constatai così come quelle ultime settimane fossero realmente più a rischio per eventuali “colpi di testa”: la troppa libertà, la confidenza con il sistema caserma e quello strano senso di nervosismo che caratterizzava quel periodo, massimizzavano il pericolo di assumere atteggiamenti devianti, sia contravvenendo al regolamento, sia dimostrandosi più suscettibili nei rapporti interpersonali.
Questo nervosismo colpiva sia chi non vedeva l’ora di tornare a casa per ricominciare l’attività abbandonata, sia chi a casa avrebbe ritrovato soltanto la famiglia e gli amici ma non aveva ancora idea di cosa sarebbe stato del proprio futuro.

Incidenti: febbre del congedante e anomia.
Due esempi renderanno meglio l’idea: il primo riguarda l’incidente che in Marzo aveva provocato alla vittima un’operazione al testicolo, all’artefice processi e guai a non finire nonché la destituzione del Comandante della Scuola; il secondo, di cui io fui testimone, causò alla vittima solo qualche escoriazione ma avrebbe potuto costargli la perdita della vista.
Ebbene, questi due incidenti, a mio avviso, possono essere considerati conseguenza indiretta delle regole d’anzianità da me descritte e legati invece a doppio filo con lo stato di ”febbre del congedante” e con la situazione che si era creata improvvisamente in caserma: mi pare si possa ragionevolmente pensare che queste reazioni inconsulte siano state provocate dalla frustrazione provocata dalla confidenza con cui i due soldati “anziani” erano stati trattati dai due più “giovani”, un atteggiamento che soltanto qualche mese prima loro non avrebbero nemmeno immaginato di assumere nei confronti della “conge”: nel primo caso il congedante sferrò un calcio nei testicoli ad un soldato più giovane che gli si era aggrappato con la maglietta bagnata; il secondo rovesciò addosso al più giovane, che lo aveva bagnato con dell’acqua, un secchio di urina prelevata dagli appositi bidoni di raccolta per uso medicinale.
Conoscevo ambedue i ragazzi artefici del misfatto, erano tutt’altro che impulsivi od esuberanti e non si erano mai dimostrati troppo esigenti o superiori nei confronti dei “più giovani”.
Non voglio in alcun modo giustificare questi atteggiamenti ma evidenziare che si è trattato di episodi accidentali che avvengono regolarmente anche al di fuori delle caserme e di cui ognuno, rivangando nei propri ricordi, potrebbe portare un esempio.
Incidenti di questo tipo, ineliminabili in luoghi dove siano costretti a convivere ragazzi di vent’anni, furono però la molla che rintuzzò la lotta alla subcultura di truppa, il principale imputato.
Il fatto che l’anno successivo al mio congedo si sia verificato il tristemente noto e ancora irrisolto caso Scieri la dice lunga sul fatto che, se anche la gerarchia parallela del nonnismo legittimava fastidiosi atteggiamenti di superiorità, non è con l’eliminazione di questa (peraltro sempre pronta a ricrearsi naturalmente) che si evitano episodi che trovano ragion d’essere in singoli soggetti devianti; anzi, la naturale aggressività di alcuni individui, prima incanalata in comportamenti standardizzati (“la pompata”, “il saluto”, “la sporca”) e sottoposta alla supervisione di un gruppo con regole precise, potrebbe trovare sfogo, in un momento di “transizione anomica”, in atteggiamenti ben più cruenti.

Addio.

Anche per il congedo del mio scaglione fu organizzata una cena alla quale parteciparono il Comandante della scuola, il suo vice, i comandanti delle varie compagnie e il cappellano.
Durante la cena partirono regolarmente cori e canzoni inneggianti al congedo e alla fortuna di averlo raggiunto alla faccia di chi rimaneva. Nonostante queste canzoni fossero infarcite di bestemmie e riferimenti “nonnistici” il Comandante non sembrò particolarmente turbato; al contrario, quando furono chiamati gli addetti alla mensa perché noi li ringraziassimo degli “straordinari” fatti, qualche “fratello” pensò bene di poggiare un dito a terra e i tre allievi della mensa si misero immediatamente a “pompare”; fu a quel punto che il colonnello, rosso in viso, si alzò e grido un sonoro: “Ritti! Qui gli ordini li do io!”.
La cena si concluse comunque in bellezza e in modo democratico fu data la parola, con tanto di microfono, a chi avesse qualcosa da dire; in pochi presero la parola e l’unico che diede sfogo alle sue lamentele venne sonoramente fischiato; dopotutto era finita e nessuno voleva mettere il dito nella piaga.
Anch’io avrei voluto parlare ma mi resi conto che era troppo tardi; avevamo tutti voglia di goderci quelle ultime ore con gli amici di un anno, cercando di respingere i ricordi amari e salutare anche gli ufficiali con il sorriso sulle labbra. Il Comandante ci salutò uno ad uno, ci regalò un ciondolo con lo stemma della Scuola e di una cosa soprattutto si raccomandò: “Siate paracadutisti anche nella vita!”. Nonostante tutto a me quella frase non suonò patetica: nemmeno quei dieci mesi erano riusciti a cancellare l’ideale romantico e l’immagine positiva ma forse surreale che del paracadutismo militare mi ero creato, ed ero certo che fosse a quella che il Comandante si riferiva.
Appena fuori dalla mensa ci pensò il “Don” a soddisfare, per l’ultima volta, il nostro “spirito guerriero”: “pompammo” tutti insieme recitando l’Ave Maria e il Comandante, per non vedere, non uscì finché non avemmo finito.
Dopo il contrappello e sempre in presenza di Comandante e vice comandante, un caporale A.I.P. del nostro scaglione ci guidò in piazzale El Alamein dove ci fu dedicato il silenzio fuori ordinanza ed eseguimmo la ”marcetta di scaglione” durante la quale si scandiva, a suon di passo, cadenza e dietro front, la frase: ”Finita!/A casa/ si va/ e non si torna più!/ Mai più!”.
Era stato emozionante assistere alle marce degli scaglioni precedenti e lo fu ancor di più esserne protagonista.
Avevo atteso con trepidazione quella sera e l’idea di passare soltanto un giorno in più in caserma mi avrebbe fatto impazzire, ma in quei frangenti mi colse inspiegabilmente una sorta di malinconia, molto simile a quella provata, dieci mesi prima, salutando mio padre alla stazione. Questa malinconia sfociò nelle lacrime che l’indomani, al momento degli addii, in molti non riuscimmo a trattenere. Sul treno un commilitone disse una frase che mi è rimasta impressa: “Bastarda la naia! Piangi quando inizia e piangi quando finisce!” e aveva ragione.
Ancora oggi mi chiedo per cosa avessi pianto: non soltanto per gli amici, molti dei quali, nonostante le promesse, non avrei più rivisto, né per la vita di caserma che mi aveva in parte deluso e nauseato; più semplicemente, forse, erano lacrime per un periodo che mi aveva concesso una salutare “fuga dalla libertà” , un periodo di straniamento di cui probabilmente avevo bisogno e dal quale uscii rafforzato.

Casa.
Merita una considerazione a sé il periodo successivo al congedo.
Quella che potrebbe apparire come una nota psicologica prettamente individuale ha forse una valenza sociologica nello spiegare quel detto che così di frequente avevo letto sui muri della caserma: “Chi naia non prova, libertà non apprezza”.
Per qualche tempo, infatti, vissi da turista in casa e tutto quello che facevo aveva un sapore particolare. Dal cibo agli amici, dagli affetti familiari alla ragazza, dallo svago allo studio, tutto mi sembrava una grazia ricevuta, qualcosa da gustare lentamente, quasi dovesse finire da un momento all’altro, come quand’ero in licenza.
Certo queste sensazioni ebbero vita breve, ma qualcosa di più profondo si era radicato in me: forse la coscienza che la vita stessa è come una licenza, una “licenza di esistere”, a tempo determinato, ed è per questo che va spesa nel miglior modo possibile, arrivando al “congedo” senza rimorsi né rimpianti.

Allegato n. 1.

Provincia e anno di nascita:
Scaglione:
Durata del servizio:
Incarico:
Grado acquisito al momento del congedo:

1) Come ha saputo dell’esistenza della Brigata? (amici, parenti, propaganda…)

2) Cosa l’ha spinta a fare domanda per entrarci? (curiosità, ideali, soldi…)

3) A conti fatti, giudica positivamente la sua esperienza? Pensa di esserne uscito arricchito, cambiato?

4) C’è qualcosa di cui è rimasto particolarmente deluso?

5) Al momento della chiamata alle armi era occupato stabilmente/disoccupato/studente?

6) E’ stato sottoposto a visite mediche supplementari? Erano severe o semiserie?

7) In quali caserme ha svolto C.A.R., CORSO PALESTRA e il resto del servizio?

8) L’ingresso in caserma e il C.A.R.: prime impressioni, stato d’animo suo e dei suoi commilitoni. Erano tutti soddisfatti della scelta fatta?

9) Per quanti giorni non poté usufruire della libera uscita dopo l’arrivo in caserma?

10) Dopo quanti giorni ottenne la prima licenza? Quante volte venne a casa nell’arco della naia?

11) La figura del caporale istruttore (A.G.I.).
Erano soldati di leva o “firmaioli”?
Come vi hanno accolti?

12) Ci sono stati discorsi, cerimonie formali o informali in occasione del vostro ingresso in caserma?

13) Il comportamento degli istruttori tendeva in qualche modo a scoraggiare chi pareva meno motivato? Se si, in che modo?

14) Addestramento formale e con le armi, attività di reazione fisica al C.A.R. e Corso palestra.

15) Le furono insegnate canzoni nelle quali fossero presenti espliciti riferimenti politici, al sesso o nelle quali si denigrassero altri corpi dell’esercito?

16) Come definirebbe la cerimonia del giuramento? Memorabile e ricca di emozioni o semplicemente una formalità da adempiere?

17) Ricorda rituali di saluto da parte dei suoi caporali istruttori a giuramento finito?

18) In che occasione ha indossato il basco rosso per la prima volta?

19) Erano previste prove di ammissione al corso palestra? Erano giudicate difficili da superare? Che fine faceva chi non veniva ammesso?

20) Caporali a parte, ha avuto qualche contatto con militari più anziani durante il CAR?
Come le sembrò il loro atteggiamento nei suoi confronti?

21) Come era dislocata la compagnia CAR rispetto alle altre compagnie?

22) Il corso palestra e i caporali AIP: accoglienza e differenze rispetto al CAR.

23) Dove erano alloggiati i caporali istruttori e quali privilegi mostravano di avere?

24) Ricorda rituali e prove d’ardimento informali in occasione del suo ingresso al Reparto Corsi?

25) L’addestramento al lancio. Più duro a livello fisico o psicologico?

26) Tassi di abbandono ed esclusione

27) Per chi non superava il corso c’era la possibilità di ripeterlo?

28) Ha effettuato immediatamente dopo il corso tutti i 5 lanci necessari all’acquisizione del brevetto militare? Quanti dall’elicottero e quanti dall’aereo? Come era conteggiata l’indennità di aeronavigazione?

29) Con quanti lanci si è congedato?

30) C’è stato un “battesimo” in occasione del suo primo lancio?
Qualcuno si rifiutò di lanciarsi una volta sull’aereo?

31) . I passaggi erano misti ufficiali e truppa o solo soldati di leva?

32) Chi ripiegava i paracadute? C’era una compagnia apposita?

33) Quando acquisì il brevetto si fregiò del distintivo sulla mimetica? Le venne fornito dal casermaggio o se lo dovette comperare?

34) Chi eseguiva servizi di piantone e corvée durante i corsi? Erano previste pulizie extra con cera e materiali non forniti dal casermaggio?

35) Le risulta che la mimetica, gli anfibi, la divisa e la tuta ginnica fornitele fossero diverse da quelle degli altri corpi dell’esercito?

36) Dopo CAR e corso palestra quale incarico le fu assegnato? In base a quale criterio?

37) In base a quali caratteristiche erano selezionati gli aspiranti caporali AGI-AIP?

38) Il desiderio più diffuso era di entrare in battaglioni logistici o operativi?

39) Per chi veniva assegnato a BTG. Logistici o comunque con mansioni di ufficio, magazzino, mensa si può dire che gli addestramenti fossero finiti? C’erano doppi incarichi logistico-operativi?

40) Ha notato un allentamento della disciplina rispetto ai primi due mesi dedicati ai corsi ( ha continuato a salutare in modo formale i caporali e a stare in blocco davanti alla mensa?).

41) La sua nuova camerata era già occupata da soldati più anziani o venne formata ex novo da pari scaglione?

42) Qualcuno la mise a conoscenza delle nuove regole “informali” alle quali sarebbe dovuto sottostare?

43) Posto branda, mensa, spaccio, servizi igienici, spazi per la ricreazione erano qualitativamente e quantitativamente soddisfacenti?

44) Ci furono incidenti gravi o mortali in addestramento oppure suicidi durante la sua permanenza sotto le armi? Come vennero trattati in caserma e dalla stampa di allora?

45) Pensa che la disciplina nelle caserme della Folgore fosse più rigorosa rispetto a quella degli altri corpi? In base a cosa si sente di affermarlo?

46) Qual’ era il rapporto con le armi?

47) La competitività tra compagnie era incoraggiata? In che modo?

48) TRADIZIONI, RITUALI, SCORRERE DEL TEMPO, RISPETTO DELL’ANZIANITA’ (ALLEGATO).

49) Gli Ufficiali di prima fascia utilizzavano lo stesso gergo e gli stessi modi dei militari di leva? Ha mai visto ufficiali pompare?

50) I suoi giudizi e le sue opinioni sulla correttezza o meno delle suddette tradizioni sono cambiate nell’arco della sua esperienza militare? Le ha trasmesse a sua volta ai nuovi arrivati?

51) Ufficiali e sottufficiali trattavano tutti allo stesso modo oppure mostravano un occhio di riguardo per i più anziani, indicati come esempio da seguire, soldati ai quali chiedere aiuto e consiglio e perciò degni di rispetto?

52) Quale fu la sua prima reazione alle regole impostele dai più anziani? Qualcuno vi parlò esplicitamente del “nonnismo” come di usanza da eliminare?

53) Le è mai capitato di sentire frasi del tipo “non è più come una volta”?

54) La condizione di anziano permetteva di avvalersi di benefici/ libertà non concesse dal regolamento militare (fumare, mangiare in camerata; fare licenze più lunghe del dovuto, farsi fare le commissioni, imboscarsi)?

55) L’anziano doveva essere rispettato sempre e comunque oppure doveva conquistarsi la stima sul campo? Chi non era brevettato esigeva comunque stima e rispetto per l’anzianità di servizio?

56) Come l’anziano poteva influire sulla vita dei novellini (punizioni, servizi, licenze, grado)?

57) La pattuglia, il campo, il lancio: che ruolo ricoprivano i soldati più anziani in questi frangenti delicati?

58) Quando avvenivano atti che travalicavano i rituali tradizionali e sfociavano in pura violenza (risse, tafferugli, sevizie) quali provvedimenti venivano presi?

59) Era più facile stringere amicizia durante i corsi o al corpo? Ha stretto solidi rapporti di amicizia e fiducia reciproca con i suoi commilitoni? Si è sentito o visto spesso con qualcuno in questi anni?

60) Con chi si recava preferibilmente in libera uscita?

61) Lo staff professionale sembrava ricoprire i propri incarichi con dedizione e attaccamento o viceversa le sembrava desideroso soltanto di “fare le otto ore”?
Il loro atteggiamento nei confronti della truppa era paternalistico oppure dispotico ed autoritario?

62) In addestramento le capitava di condividere fatiche e sofferenze con gli Ufficiali?
I rapporti personali cambiavano in quelle occasioni o restavano
improntati allamassima formalità e distacco?

63) L’attività di reazione fisica obbligatoria è continuata durante tutto l’arco della naia o veniva lasciata alla discrezione personale?

64) “Prendere il grado” era giudicato onorevole fra commilitoni o forma di asservimento al “sistema”? Ci fu un’investitura ufficiale?

65) In base a quali criteri venivano assegnati gradi e licenze premio?

66) Qual’era il rapporto tra paracadutisti e cittadinanza? Ha mai sentito parlare della “marcia su Pisa”?
E del maresciallo Krusovich?

67) Esistevano nei pressi della caserma negozi in cui si vendevano gadget per paracadutisti? Quali erano i più gettonati?

68) Qual’ era l’opinione corrente nei riguardi dei firmaioli VFB? E dei sottotenenti di complemento?

69) L’avvicinarsi del congedo era enfatizzato in modo particolare? Ricorda di aver provato o visto nei commilitoni un certo nervosismo da congedo?

70) Ha mai pensato di proseguire la sua carriera nell’esercito?
Si è pentito della scelta fatta? Che lavoro fa oggi?

Allegato n. 2.

Il questionario inviato via e-mail è stato accompagnato dalla seguente lettera di presentazione.

Sono Massimiliano Santucci, caporale paracadutista in congedo del 12°/97 (S.MI.PAR., Cp. Trasporti, n.° di brevetto 186286 ).
Mi sto laureando presso l’Università di Torino con una tesi su “Tradizioni e consuetudini del militare di truppa nelle caserme della Folgore” (relatore prof. Giuseppe Bonazzi, bonazzi@cisi.unito.it; correlatrice prof.ssa Marina Nuciari, nuciari@econ.unito.it ).
Ho letto il messaggio che tempo fa hai lasciato in rete e mi sarebbe davvero di grande aiuto ricevere le tue risposte al breve questionario in allegato.
Ribadisco l’importanza della tua testimonianza, indispensabile per inquadrare in maniera corretta e non dimenticare tradizioni delle quali negli anni scorsi i media hanno parlato e scritto senza un’adeguata cognizione di causa.
Nel momento in cui ti do la più ampia assicurazione circa l’anonimato del questionario (i dati saranno trattati solo statisticamente) non posso che raccomandarti di rispondere senza badare troppo alla forma ma in modo completo, sincero ed obiettivo.
Sarò lieto di renderti disponibili, se ti interessassero, gli esiti della ricerca.
Grazie per l’attenzione,
Come Folgore dal cielo!
Santucci Massimiliano
Via San Giusto 12-10060-Cantalupa-(TO) tel. 0121/353492 e-mail: maxsantucci@hotmail.com

NOTA PER LA COMPILAZIONE.
Nell’inviarmi le risposte utilizza l’anno in cui hai svolto il servizio militare come oggetto.
Se per esempio hai svolto il servizio militare nel 1979-80, scriverai:
DA:
A: maxsantucci@hotmail.com
DATA INVIO:
OGGETTO: 79
E’ molto importante che tu risponda a tutte le domande; puoi farlo direttamente sul mio allegato, oppure precisando l’ordine e il numero della risposta all’inizio di ognuna di queste: A-B-C-…L per la prima batteria e poi 1), 2), 3)…16) per la seconda.

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI
10124 Torino – Via S. Ottavio, 50
Tel. (011) 6702606

A- Anno di nascita:
B- Provincia di nascita:
C- Titolo di studio al momento dell’arruolamento:
D- Occupazione al momento dell’arruolamento:
E- Anno di arruolamento:
F- Caserma e incarico al corpo (per esteso e non solo il codice):
G- n° lanci militari effettuati:
H- Grado al momento del congedo:
I- Occupazione attuale:
L- Provincia di residenza attuale:

1) Quali sono i motivi che ti hanno spinto ad arruolarti nella Folgore?

2) A conti fatti c’è qualcosa che ti ha deluso di quest’esperienza, oppure è stata proprio come te l’aspettavi?

3) Hai mai pensato di “mettere firma” e perché?

4) “Un po’ pazzo e un po’ poeta”, secondo te questo motto descrive bene l’animo del paracadutista militare?

5) Hai proseguito l’attività lancistica o ti sei iscritto a qualche Associazione dopo il congedo? Per quale motivo? (segue nella pagina successiva)

6) Hai riscontrato durante il tuo servizio la presenza di tradizioni e gerarchie non ufficiali, comunque consentite e rispettate, come la suddivisione in livelli di anzianità tra i soldati di truppa?

7) Quali erano le modifiche che si potevano o dovevano apportare all’abbigliamento militare (stringere la divisa, cucire i tasconi sulla mimetica, sostituire i lacci degli stivaletti con le funicelle, indossare un basco più piccolo, altro…)?

8) Quali erano i souvenir (tute ginniche, borsoni, fregi e mostrine fuori ordinanza, tubi porta congedo, altro) più acquistati nei negozi- sartorie vicine alla caserma?

9) L’utilizzo di suddetti indumenti era consentito anche all’interno della caserma? Si potevano adottare subito dopo il Corso palestra oppure erano regolate in base all’anzianità?
Erano riservati ai paracadutisti o anche ai non brevettati?

10) L’anziano era rispettato sempre e comunque o doveva meritarlo?

11) In cosa l’anziano poteva essere d’aiuto al proprio “allievo” e in cosa di intralcio?

12) Lo staff degli Ufficiali e Sottufficiali trattava i soldati anziani come tutti gli altri soldati oppure mostrava un occhio di riguardo nei loro confronti?

13) Ufficiali e Sottufficiali parlavano apertamente di “nonnismo” come di un usanza da eliminare?

14) Gli “atti di nonnismo” erano puniti? Nel farlo si distingueva l’atto violento fine a se stesso da quello che rientrava invece nelle tradizioni paracadutiste?

15) Quali erano le caserme o compagnie (operative, logistiche) in cui il “nonnismo” si diceva fosse più diffuso?

16) Ricordi quali erano le tradizioni accettate e quelle invece osteggiate dagli ufficiali?

Ancora GRAZIE per la preziosa collaborazione.

Giunti a quota 50 questionari ricevuti, e notando una certa stasi nella ricezione, si è deciso di inviare un sollecito formulato come segue.
Nel giro di un paio di settimane esso ha fruttato le restanti 25 risposte.

Ringrazio tutti i commilitoni – a dire il vero pochi rispetto alle
aspettative – che hanno compilato il Questionario e invito tutti coloro che
non l’avessero ancora fatto a compiere questo sforzo.
Capisco la diffidenza che può suscitare una ricerca del genere dopo tutto
quello che è stato scritto dai giornalisti italiani sulla Folgore e chi di
voi volesse accertarsi della mia identità e intenzioni mi può telefonare,
come qualcuno ha fatto, allo 0121-353492.
Io “le palle” le ho tirate fuori portando avanti una ricerca non certo facile; questa è l’ultima occasione che ci
rimane per mettere nero su bianco testimonianze e impressioni di chi la
Folgore l’ha vissuta da soldato di leva, dando tutto e non chiedendo niente.
E la mia non è vuota retorica!
Affinché la statistica abbia un valore mi occorrono almeno 100
questionari compilati (ovviamente la mia ricerca si è svolta anche
attraverso interviste più approfondite con parà congedati del
torinese) esattamente 50 in più di quelli che ho sino ad ora ricevuti.
Conto sulla vostra collaborazione e spero, in Luglio, di farvi conoscere gli esiti
definitivi del lavoro.
Folgore! Massimiliano.
P.S.: per evitare “casini” con gli allegati questa volta il questionario lo troverete nell’e-mail successiva. Rispondeteci direttamente sopra e inoltratelo a: max santucci@hotmail.com

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