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Pubblicato il 12/08/2014

CHE SUCCEDE IN IRAQ

di Andrea Milluzzi

Se non bastassero le formazioni dello Stato Islamico a poche decine di chilometri dalle sue mura, Baghdad deve fare i conti anche con i reparti speciali dell’esercito e della polizia schierati appena fuori la zona verde. Il cuore della capitale irachena rischia di subire il golpe militare di Nouri al-Maliki, che vuole ottenere il mandato per formare il suo terzo governo consecutivo nonostante non sia riuscito a mettere insieme una maggioranza autosufficiente dopo le elezioni del 30 aprile scorso.

Chi governa a Baghdad?

La maggioranza relativa del suo partito “al-Dawa” (il diritto) non gli ha garantito la forza necessaria per tenere unita la coalizione sciita (Stato di diritto) che lo supportava e che adesso si sta sfaldando. Il primo e decisivo affondo contro la sua premiership è giunto qualche giorno fa dall’Ayatollah Ali al-Sistani, massima carica religiosa degli sciiti, che lo ha indirettamente invitato ad un passo indietro, seguito poi da alcuni esponenti dello stesso “al-Dawa” e infine da Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran, indispensabile alleato che però è sempre stato più vicino al partito “supremo consiglio islamico iracheno” che a quello di al-Maliki.

Rimasto solo, il premier uscente ha mostrato gli artigli, rispondendo a tono agli ex alleati, chiedendo la destituzione del Presidente Fuad Masum (curdo) perché avrebbe violato la Costituzione nel rifiutargli l’incarico (come ha riconosciuto anche la Corte Costituzionale) e poi schierando i suoi fedelissimi appena fuori dai luoghi del potere, la Green Zone appunto. Sia il Dipartimento di Stato statunitense che l’Onu hanno subito difeso e appoggiato l’operato del Presidente Masum, auspicando la rapida formazione di un governo di unità nazionale con un altro primo ministro che sappia compattare l’Iraq minacciato dall’avanzata dello Stato Islamico. Il presidente ha nominato premier Haider Al-Abadi, attuale vice presidente del parlamento e membro del partito di Maliki. Segno che l’ormai ex premier ha perso la partita? Probabile, come ha detto l’ex ministro degli Esteri iracheno, il curdo Zebari, al Washington Post, “Non è più tempo di colpi di Stato, la sua mossa si è ritorta contro di lui”.

Mentre la capitale subisce i giochi di palazzo, la situazione nel Nord del paese è in costante evoluzione: i villaggi passano da una mano all’altra, si formano nuove alleanze e si accresce l’emergenza umanitaria.

Chi controlla cosa in Iraq

Nonostante le rassicurazioni di al Baghdadi, leader delle milizie dello Stato Islamico, che aveva sempre assicurato di non avere intenzione di attaccare i territori curdi, le zone di confine fra la Regione autonoma e il Nuovo Califfato sono divenute terreno di battaglia. Giovedì scorso le truppe curde si sono ritirate dai villaggi a maggioranza cristiana di Qaraqosh, Telskuf, Bar Tella e Hamadaniya.

La capitale Erbil non corre finora il pericolo di essere attaccata dall’Is, ma il presidente statunitense Barack Obama ha ordinato raid mirati per proteggere la città, dove gli Usa hanno le loro sedi diplomatiche. I droni statunitensi hanno bombardato le postazioni militari dell’Is a Gwer e Mahmour, a una trentina di chilometri da Erbil. Quattro blitz Usa venerdì e altri cinque domenica hanno aperto la strada ai combattenti curdi che hanno riconquistato le due città e parte di Shingal.

Contemporaneamente però lo Stato Islamico ha attaccato e conquistato la strategica diga di Mosul e Jawlala, paese vicino a Kirkuk, sul lato opposto della regione curda. Le principali città curde Erbil, Suleymanyah e Kirkuk (controllata dai curdi dopo gli iniziali attacchi dell’Is) non hanno subito offensive dirette, ma gli insorti spingono alle loro porte. Il fronte di Baghdad sembra invece più calmo, con i miliziani di al-Baghdadi fermi a Baquba, qualche decina di chilometri a Nord della capitale. Si combatte ancora in Siria, la “terra d’origine” del Califfato che vorrebbe mettere le mani sulla strategica provincia di al-Hasakhia.

Chi combatte chi

Lo Stato Islamico accresce quotidianamente le sue fila. Grazie alle ingenti risorse economiche assicurate dalle banche rapinate, dai finanziatori di altri paesi mediorientali, ma anche dalla vendita di risorse naturali, al-Baghdadi riesce a offrire un salario di 600 dollari mensili ai suoi combattenti.

Insieme alle truppe del nuovo Califfo si sono schierate alcune tribù locali ostili al governo al-Maliki e i reduci dell’esercito di Saddam Hussein e del suo partito ba’th. Qaraqosh, per esempio, non è stata conquistata dall’Is ma dalla tribù sunnita Khata’ib Tawrat al-Ahsreen. L’esercito iracheno non riesce ad andare oltre qualche sporadico bombardamento e sono sostanzialmente i soli curdi, che presto potranno contare sulle armi fornite direttamente dagli Usa, a fronteggiare gli insorti.

La novità è che l’emergenza ha unificato tutte le organizzazioni militari o paramilitari curde e ha richiamato combattenti da Turchia, Iraq e Siria in quella che qualcuno già si azzarda a chiamare la prima guerra di indipendenza del Kurdistan. I siriani dello Ypg (unità di protezione del popolo) e dell’Hpg (forze di difesa del popolo) hanno messo da parte le loro divisioni politiche e si sono schierati al fianco dei peshmerga iracheni che hanno accolto anche alcune formazioni del Pkk dalle montagne turche. Se non esistono più confini per i miliziani dello Stato Islamico lo stesso si può dire per i curdi, nonostante decenni di scontri e rivalità politiche.

Chi fugge e da dove

Il dramma in corso riguarda soprattutto le minoranze etniche e religiose del Nord dell’Iraq. La presa di Mosul a metà giugno aveva già provocato l’esodo di mezzo milione di persone, ma negli ultimi giorni il numero è aumentato. Da Qaraqosh e dintorni sono scappati circa 100.000 cristiani, ma sono le minoranze turkmena, sciita e soprattutto yazida a dover sopportare la persecuzione più violenta. Da domenica 3 agosto i villaggi degli Yazidi sono caduti in mano all’Is e circa 10.000 di loro sono bloccati sulle montagne dello Shingal, senza cibo e acqua a più di 50 gradi. In attesa degli aiuti umanitari che i droni Usa dovrebbero paracadutare sul posto, fonti mediche raccontano che ogni giorno muoiono dalle 10 alle 15 persone per disidratazione. Altri 30.000 sono riusciti a fuggire grazie ai corridoi verso il Kurdistan siriano e quello iracheno che i peshmerga e lo Ypg sono riusciti ad aprire. Human Rights Watch e The Guardian hanno pubblicato i racconti di fosse comuni con donne e bambini seppelliti vivi e di tutte le altre sofferenze subite da questa millenaria popolazione.

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