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Pubblicato il 08/01/2018

COMBAT CAMERA DELL’ESERCITO: ECO DI BERGAMO PARLA DEI PARACADUTISTI REPORTER IN LIBANO

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foto sopra cap. magg. capo ( par) Daniele Mencacci
sotto: cap.magg.capo (par) Beppe Firmani

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L’Eco di Bergamo
pagina: 29 sezione: Cultura data: 08/01/2018

di Emanuele Roncalli
Guerre e missioni di pace in un clic
Testimoni Parlano due combat camera, fotografi al fronte in Afghanistan, Bosnia, Sudan, Kosovo e Libano «Documentiamo i teatri dei conflitti. La paura ti permette di non sbagliare, ma avvertiamo il sibilo dei proiettili» Vincere il Premio Pulitzer, emulare Robert Capa, scattare la foto del secolo. Nulla di tutto ciò. I combat camera, i fotografi al seguito delle truppe nei teatri di guerra non inseguono queste aspirazioni. E forse come Capa, che nel ’47 fondò la Magnum Photos, sperano «come fotografo di guerra di rimanere disoccupato per il resto della mia vita». La fotografia, talvolta, vale più di un editoriale. Alcune immagini dei combat camera hanno lasciato un segno indelebile nella storia. Altre sono entrate nell’immaginario collettivo: facce sporche di polvere e sudore, corpi martoriati, villaggi rasi al suolo. Altre hanno contribuito a formare movimenti di opinione. Una foto può cambiare molte cose: un’idea, un orizzonte. Potenza del clic e di chi sta dietro la macchina fotografica. Le foto scattate in teatri di guerra hanno una forza dirompente: avvicinano il pubblico alle atrocità, danno corpo ai racconti. È accaduto durante i conflitti bellici , accade oggi.
Testa in spalla, non siamo Rambo
Dietro i combat camera ci sono storie di militari, di giovani che sul fronte arrivano bardati di elmetto e giubbetto antiproiettile, armi e un altro fardello di macchine fotografiche, obiettivi, batterie. «Nulla di eroico – sottolineano – non siamo Rambo». Anzi testa sulle spalle e occhio vigile. Abbiamo incontrato due di loro nel sud del Libano, due caschi blu italiani della missione Unifil. Sono nel Pio (Press and information office) alla base di Shama, un tiro di schioppo dalla Blue Line, il confine con Israele, che rischia di giorno in giorno di diventare torrido. Qui lavoranoil ten. col. Marco Amoriello 46 anni e il cap. magg. capo Daniele Mencacci 35 anni (fotografo e videomaker) entrambi di Pisa e Beppe Firmani, cap. magg. capo, 42 anni, di Pino sulla Sponda del Lago Maggiore (Varese). Firmani ha due figlie – Serena di 15 anni e Aurora di 7 – ed è alla sua 11ª missione. «Bosnia, Afghanistan, Sudan, Kosovo, Albania, Libano, ormai non le conto più». È combat camera in prima linea da anni. Le sue foto sono drammaticamente vere, trasmettono stati d’animo, fatica, paure, emozioni forti. Nel suo profilo twitter campeggia la scritta: «Sono diventato grande quando ho capito che chi non la pensa come me non ha per forza torto». Ma quando è maturata la decisione di abbracciare questo mestiere? «Sono entrato nell’esercito nel ’74 come militare di leva – dice -. Ero fuciliere, ora paracadutista della Folgore. La passione per la fotografia (e per la montagna) ha fatto il resto». Ma il suo è un ruolo più rischioso: «Come combat camera, non cambia nulla, è lo stesso rischio: un militare imbraccia un’arma e io la macchina fotografica. Tante volte sono passato in mezzo a un conflitto a fuoco. Con me c’è sempre un militare, una sorta di tutor, che mi fornisce indicazioni dove appostarmi o ripararmi». Più di una volta ha avvertito il sibilo del proiettile passargli a pochissima distanza e allora la domanda è scontata ma d’obbligo: mai avuto paura? «La paura ti permette di non sbagliare – aggiunge Firmani -, riusciamo a nasconderla». E le figlie? «Sono orgogliose del loro papà – sorride -, ogni volta mi chiedono di andare a scuola a parlare delle missioni militari».
Militari di roccia, cuore tenero
Firmani è tornato a casa per le feste natalizie, ma dal Libano, dove tornerà presto, è partito con una lacrimuccia. Laggiù ha lasciato una cagnolona, Shama, la mascotte: «Ci siamo adottati a vicenda», conclude il varesino, combat camera di roccia, dal cuore tenero. Del resto questo lavoro lo ha portato spesso anche a fotografare i villaggi più remoti, bambini soli, gente che vive nella miseria dando volto a un’umanità davanti alla quale spesso in tanti chiudono gli occhi. A dar man forte a Firmani c’è il cap. magg. capo Daniele Mencacci specializzato nei video. Sposato con Florinda, due bimbi Filippo di 13 anni e Mya di 5 anni, dopo 6 anni trascorsi al Centro addestramento di paracadutismo di Pisa, dal 2010 ricopre l’incarico di fotografo. «Sinora ho svolto 3 missioni all’estero – dice -: nel 2007 in Libano nella compagnia di paracadutisti che operava a Shama nella missione Unifil Leonte, nel 2011 in Afghanistan come combact camera, nel 2017 ancora in Libano». «La passione per il militare – aggiunge – è nata nel 2002 quando sono partito per la leva, e di pari passo con la grande passione di voler fare il paracadutista. Questa esperienza mi è piaciuta tanto al punto che ho deciso di rimanere. La passione per la foto invece è nata a cavallo degli anni 2000 quasi per gioco, che è diventato mano a mano sempre qualcosa di più importante e coinvolgente, al punto che ho iniziato a fare diversi corsi di formazione specifica e a investire un po’ dei miei risparmi nelle attrezzature. A parte il lavoro quotidiano e nei teatri di guerra, mi affascinano i ritratti e i paesaggi». Nell’ambito della professione di militare, la fotografia ha assunto però un ruolo predominante: «Molto forti sono state le esperienze che ho vissuto nei teatri operativi, in particolare in quello ad alta intensità in Afghanistan nel 2011». Ma cosa avviene quando siete in zona calda? «Quando seguiamo le truppe in attività operative – precisa Mencacci – siamo inseriti a tutti gli effetti nel dispositivo operativo della pattuglia e seguiamo tutta la missione. Durante le attività, come tutti gli altri, siamo equipaggiati e armati come previsto ma, dovendoci dedicare alla documentazione foto-video, i miei colleghi, certamente si preoccupano di avere un occhio in più anche per noi».
Preparazione e addestramento
E la paura? «È una sensazione normale che sarebbe molto grave non provare, sarebbe sinonimo di incoscienza. La paura ti fa stare vigile nei momenti difficili e ti fa agire con prudenza. Spesso gli errori derivano dalla troppa sicurezza. Generalmente, si ha paura di quello che non si conosce, allora, in particolare per noi che facciamo il lavoro del soldato, la paura si affronta con la preparazione e l’addestramento, che viene fatto sempre in modo più aderente possibile alle situazioni reali che potremmo trovare ad affrontare». «Certo, vivere esperienze così forti come quelle che possono capitare a chi fa il nostro lavoro, ti fa cambiare radicalmente la scala delle priorità della vita. Alla fine capisci che quello che veramente conta nella vita, è quello che hai dentro – conclude Mencacci -. Un ruolo importantissimo lo rivestono la famiglia, gli affetti. Il loro pensiero, quando siamo lontani, è quello che ci dà la forza per superare le difficoltà. Poi, per noi paracadutisti, fondamentale è la nostra seconda famiglia rappresentata dai nostri colleghi. Mi è capitato più volte, di condividere con alcuni di loro, da lontano, la nascita di un figlio o magari anche qualche perdita dolorosa. Senza dubbio, vivere queste cose, ti fa diventare una persona unica». La foto che non vorrebbe mai fare? «Non vorrei mai trovarmi nella condizione di dover fare una foto nell’istante prima di un atto tragico, per non avere il dubbio di avere fatto bene o male ad aver scattato la foto e di non aver scelto di non aver aiutato».

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