OPINIONI

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Pubblicato il 29/07/2014

CRISTIANI PERSEGUITATI IN ORIENTE

di Franco Cardini – Europa

Cristiani d’Oriente, le colpe dell’Occidente

Nel Vicino e Medio Oriente comunità antichissime sono costrette a lasciare le proprie terre perché viste come nemiche e caricate di colpe non loro

Ci sono un dramma antico e una tragedia attuale nella storia dei “cristiani d’Oriente”: e più precisamente forse delle “Chiese cristiane arabe”, dal momento che nel mondo genericamente definibile come “orientale” (un aggettivo che copre in realtà una serie di oggetti molto diversi fra loro) noi siamo usi a comprendere non solo i fedeli locali asiatici e nordafricani della Chiesa cattolica e di quelle riformate, quanto più specificamente quelli di Chiese detentrici di una loro lunga tradizione.

E qui c’imbattiamo in comunità cristiane molto antiche, appartenenti a etnie che addirittura hanno abbracciato il cristianesimo prima dell’impero latino o che comunque sono state riconosciute dai potentati dei loro paesi in tempi precedenti rispetto alla cristianizzazione formale dell’impero romano, verificatasi alla fine del IV secolo.

Alludiamo qui alla Chiesa armena e a quella copta d’Etiopia e di Nubia, peraltro collegata a quella copta ma araba d’Egitto, e alla Chiesa nestoriana persiana diffusasi in Siria, Iraq e Kurdistan a occidente, in India e in Cina a oriente.

Un altro caso ancora sarebbe quello delle Chiese etniche dell’arco caucasico – la georgiana, l’osseta, l’“albana” azerbagiana –, a lungo contese tra disciplina greca e autocefalia locale.

Chiese cristiane arabe
Limitiamoci qui però ad alcune considerazioni riguardanti le Chiese cristiane etnicamente, linguisticamente, culturalmente e liturgicamente parlando “arabe” o appartenenti ad etnie a quella araba molto vicine (come l’aramaico-siriaca e la caldea) e oggi si può dire ad essa ormai assimilate.

Le genti arabe, riunite in tribù nomadi disseminate tra la “Fertile Mezzaluna” (vale a dire l’arco fertile delle rive dei fiumi Eufrate e Oronte, a nord del deserto detto appunto “arabico”, e quel deserto stesso), erano a lungo vissute ai margini degli imperi romano e persiano senza mai lasciarsi davvero inquadrare in alcuno di essi e dando talora luogo a “regni” che avevano come capitali città carovaniere (come Palmyra in Siria, o Petra capitale dei nabatei, nell’attuale Giordania, o Sanaa capitale dei sabei nell’antica Arabia felix, lo Yemen odierno).

Il cristianesimo dovette diffondersi abbastanza presto tra gli arabi, e fino a tempi recenti alcune tribù nomadi tra Giordania e Arabia saudita hanno mantenuto un loro “coroepiscopo”, vescovo appunto di una diocesi “nomade” che coincideva con l’area interessata dalla loro transumanza.

Il Concilio di Calcedonia
Una prima distinzione importante, tra le Chiese arabe come tra quelle orientali in genere, si stabilì con il Concilio di Calcedonia del 451, allorché da un lato si condannò l’eresia monofisita (il che allontanò dalla Chiesa protetta dall’impero i “copti” egizi, nubiani, etiopi nonché i “giacobiti” siriani e i monofisiti armeni), dall’altro si sancì la superiorità del patriarcato di Costantinopoli su quelli antiocheno e alessandrino, che nel precedente Concilio di Nicea del 325 si erano vista riconoscere pari dignità rispetto a quello.

Da allora, i fedeli siro-caldeo-arabi chiamarono “melkiti” (dal termine malik, che nelle loro lingue affini significa, con qualche variante, “re”: e allude evidentemente al balileus, all’imperatore regnante in Costantinopoli) gli appartenenti alle comunità ecclesiali che si erano dichiarate fedeli al dettato conciliare calcedoniense e che per questo si distinguevano tanto dalle comunità cristiane che erano rimaste invece fedeli alla dottrina nestoriano-eutichiana già condannata nel precedente concilio di Efeso del 431 (e che dal canto loro, in area persiana, erano ben liete di essere suddite del Gran Re sasanide) quanto da quelle monofisite.

Ma nel corso del VII secolo tutto il mondo arabo fu sommerso dall’ondata musulmana e, in massima parte, convertito all’Islam. Il nuovo potere non mostrò particolare preferenza per le diverse confessioni cristiane presenti nella sua compagine, salvo trattare occasionalmente i cristiani “melkiti” con maggior severità nella misura nella quale essi sembravano guardare ancora come al loro centro al patriarcato costantinopolitano, quindi all’impero romano d’Oriente al quale l’Islam aveva peraltro strappato Egitto, Siria, Armenia e parte dell’Anatolia.

Il potere islamico
Ma in linea generale i cristiani soggetti al potere islamico erano considerati come gli ebrei e gli zoroastriani ahl al Kitab (“popoli del Libro”, depositari di una Scrittura d’origine profetica) e quindi dhimmi, “sottomessi-protetti”, autorizzati a convivere in pace con i musulmani pur dovendo pagare certe tasse ed essendo soggetti ad alcune restrizioni.

I due califfi musulmani che allora si dividevano l’obbedienza dei fedeli, il sunnita abbaside di Baghdad e lo sciita fatimide del Cairo, si disinteressarono della faccenda anche allorché, con lo “scisma d’Oriente” del 1054, i cristiani “calcedoniani” si divisero in fedeli alla Chiesa romana – che, autodenominatisi “cattolici”, mantennero nel mondo arabo la denominazione di “melkiti” pur conservando tanto la liturgia greca diffusa in tutto l’Oriente quanto gli usi disciplinari greci ad esempio il matrimonio nel basso clero “secolare” – mentre da allora in poi le comunità rimaste fedeli al patriarcato di Costantinopoli furono dette “ortodosse”: entrambi, peraltro, mantennero il greco come loro lingua liturgica, alla quale accostarono anche l’altro. L’odierna Gaza, ad esempio, dispone di un vescovo arabo “ortodosso”, è quindi sede di diocesi, mentre i “melkiti” (vale a dire gli arabi cattolici di rito greco) hanno solo una parrocchia in quanto al sede vescovile è vacante dal 1964.

Vivere in terra musulmana
I cristiani d’Oriente viventi in terra musulmana, per quanto formalmente protetti dal diritto coranico che ne sancisce però al tempo stesso l’inferiorità giuridica, hanno vissuto – come accadde nella penisola iberica fra VIII e XV secolo – in modo di solito tranquillo, esercitando prevalentemente i mestieri del mercante, dell’artigiano, del contadino e negli ultimi secoli anche qualche professione “liberale” (molti erano medici: per quanto in quello specifico ramo i più esperti e reputati fossero senza dubbio gli ebrei).

Ciò non toglie che, per ricorrenti periodi, essi siano stati vittime occasionali di sommosse o pogrom: come nell’Egitto dell’inizio dell’XI secolo, quando furono perseguitati dal califfo al-Hakim (il fondatore della setta drusa) che distrusse anche la chiesa della Resurrezione a Gerusalemme), nella Spagna dei secoli XI e XII secolo sotto le dinastie rigoriste degli almoravidi prima, degli almohadi poi, o ancora in Libano e in Siria durante il secolo XIX secolo, nonostante la protezione loro accordata dai sultani ottomani. La loro condizione fu comunque senza dubbio migliore di quanto non fosse ad esempio quella degli ebrei nell’Europa medievale e moderna, fino al Sette-Ottocento, per non parlare della Russia zarista.

L’antica Ninive
Mosul, sull’alto Tigri, si trova a poca distanza dall’insediamento dell’antica Ninive, la splendida capitale dell’antico impero assiro, ed è insieme con Aleppo una delle due principali metropoli di quell’area che, corrispondendo appunto all’Assiria storica (dal nome della quale proviene quello moderno di “Siria”), fu organizzata dai califfi abbasidi come governatorato a capo del quale fu posto un funzionario turco (atabeg, cioè “padre dei beg”) a sua volta nel XII secolo fondatore di una dinastia, gli “zenqidi”, che ebbero al loro servizio un geniale ufficiale turco, Yusuf ibn-Ayyub, che noi conosciamo come “il Saladino” e che nella seconda metà del secolo avrebbe unificato Siria ed Egitto e cacciato i crociati da Gerusalemme.

I musulmani dell’area di Mosul erano e sono restati tradizionalmente sunniti, ma non tutti sono arabi: la città è difatti anche centro di un grande insediamento curdo e avrebbe dovuto far parte di un “Kurdistan” che peraltro alla fine della prima guerra mondiale non fu mai fondato in quanto gli inglesi, che sulla base di un accordo franco-britannico del ’16 occupavano quell’area, lo eressero con il nome di Iraq in regno assegnandolo a Feisal, uno dei figli dello “sceriffo” hashemita Hussein della Mecca, loro alleato.

Mosul, artificialmente staccata dal suo contesto siriaco, fu negata anche ai curdi, per i quali il sultanato ottomano aveva previsto un particolare vilayat (“governatorato”) ma che invece furono distribuiti arbitrariamente tra Siria, Turchia, Iraq e Iran. Quanto a Mosul, essa interessava in particolar modo agli inglesi in quanto capitale, con la vicina Kirkuk, di un importante distretto petrolifero.

La pesante e spregiudicata politica britannica cominciò a diffondere tra le popolazioni arabe un pregiudizio nuovo, per esse prima sconosciuto: l’astio per gli occidentali. E, dal momento che era (e resta) comune la confusione tra Occidente e Cristianità, l’odio antioccidentale si andò traducendo da allora anche in odio indiscriminatamente anticristiano.

Il regime di Saddam Hussein
Il regime “baathista” iracheno imposto da Saddam Hussein ispirato al “socialismo arabo” e quindi, come noi usiamo impropriamente dire, “laico”, aveva tenuto a bada l’anticristianesimo dei gruppi musulmani radicali: per l’ideologia nazionalista del “Baath”, contava anzitutto l’essere cittadini iracheni al di là di religioni e di confessioni.

Ma il rovesciamento di quel regime, nel 2003, ha ricondotto con violenza in primo piano tanto la rivalità arabo-curda, quanto quella sunnito-sciita all’interno dell’Islam e, infine, quella anticristiana dei gruppi che adesso si richiamano al radicalismo sunnita nell’àmbito della guerra civile che oppone il governo di Nuri al Maliki (gestito – con paradossale esito dell’aggressione e dell’occupazione statunitense – da sciiti che guardano con simpatia all’Iran e alla Russia, pur restando collegati alla tutela statunitense e sostenuti dai “consiglieri militari” inviati da Obama) ai ribelli sunniti – tanto jihadisti quanto saddamisti (un’alleanza a sua volta paradossale) – che tra Iraq settentrionale e orientale hanno proclamato lo “stato islamico” ed eletto califfo il loro leader al Baghdadi, sia della situazione determinatasi in alcuni paesi africani. Vediamo un po’ più da vicino questi due casi.

La restaurazione del califfato
La notizia della “restaurazione del califfato” (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin – vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di confine fra Turchia, Siria e Iraq, è stata diffusa alla fine del giugno 2014.

I “jihadisti” che hanno la loro roccaforte nelle province sunnite dell’Iraq settentrionale (a diretto contatto con i curdi, sunniti anch’essi, ma non arabi) vi hanno fondato una Dawla Islamiya fi Iraq wa Shark, espressione grosso modo traducibile in inglese come Islamic State of Iraq and Levant e da allora conosciuto dai media occidentali con le incerte sigle di Isil o Isis (a seconda che vi si privilegi al parola inglese Levant o quella araba Shark).

Il “Levante” iracheno corrisponde, piuttosto, all’area nordorientale, con i centri di Mosul (occupata nei primi di giugno dai jihadisti), Erbil (in mano alle forze governative del governo di Bagdad) e Kirkuk (difesa dalle milizie curde peshmerga).

Mosul e Kirkuk sono importanti centri di estrazione petrolifera. I miliziani jihadisti, che nella prima metà di giugno avevano occupato anche Tikrit e che, presa Mosul la quale non è lontana né dal confine siriano né da quello turco, minacciano anche la Siria e la Turchia, hanno quindi unilateralmente fondato una vera e propria Dawla Islamiyya (cioè un Islamic State, IS, definito tout court tale), che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso: in altri termini, hanno fondato un califfato.

Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell’Islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto padre della di lui prediletta moglie A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al Baghdadi, appunto leader dell’IS.

Il nuovo volto dell’Islam
Lo speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al Adnani, ha sottolineato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “democrazia” e gli altri pseudovalori che l’Occidente proclama.

Alcuni “esperti” hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo del jihad musulmano dopo l’11 settembre del 2001 e che il nuovo califfato potrebbe addirittura travolgere gli equilibri vicino e mediorientali e rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership di al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile se non surreale, dal momento che quella galassia di organizzazioni radicali che convivono sotto la denominazione, appunto, di al Qaeda, e che se ne disputano accanitamente la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espressioni più coerenti e meno aleatorie.

I rapporti del governo al Maliki con Usa, Russia, Siria e Iran
Dal canto suo il governo ufficiale iracheno, guidato da Nuri al Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la loro aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein, ma è espressione delle comunità irachene sciite che in quanto tali guardano con simpatia alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con trecento “consiglieri militari” statunitensi; intanto però ha accettato dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS, mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raid contro gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere il governo di al Maliki di alcuni droni.

È ovvio che lo sciita al Maliki non sia scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito dello IS è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del Golfo. La situazione, che allarma per motivi differenti i governi di Ankara, di Damasco e di Bagdad i quali d’altronde non sono affatto in buoni rapporti reciproci, è complicata dalla posizione di al Nusra, il più forte movimento jihadista siriano, che sta lottando nel suo paese contro il governo di Assad ma che ha creato faticosamente un sistema di alleanze locali che rischia di saltare a causa della strategia “globalista” del califfato iracheno il quale dal canto suo aspira a un peraltro improbabile riconoscimento più ampio.

La conquista di Mosul da parte delle milizie jihadiste dell’Iraq nordorientale ha rappresentato un evento molto grave: non solo in quanto quella città ha una determinante importanza sul piano dell’estrazione petrolifera, ma anche in quanto si tratta di un’antica, colta città di tradizione sunnita, abitata sia da arabi sia da curdi e sede di una fiorente comunità cristiana “caldea” (vale a dire cattolica, del tipo che altrove appunto si definirebbe “melkita”, ma che usa nella liturgia l’antico aramaico), che nel 2003 – all’atto cioè dell’aggressione statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein – contava ben 35.000 fedeli, mentre nel decennio successivo è scesa a 3.000 (diminuendo cioè di oltre il 90%).

Va detto che in Iraq, accanto alla Chiesa “caldea” che aderisce al cattolicesimo, esisteva ed esiste una Chiesa detta “assira”, di confessione monofisita.

A Mosul i cristiani hanno abbandonato le loro case
I cristiani locali hanno abbandonato tutti le loro case di Mosul, ma sono stati fatti oggetto da parte degli jihadisti di furti e di violenze e minacciati di morte in caso intendessero tornare nella loro terra, ormai dichiarata totalmente islamica.

Il 21 luglio 2014, a Bagdad, è stata celebrata una messa per chiedere a Dio di proteggere le comunità cristiane profughe e minacciate: vi hanno preso parte anche molti musulmani (sciiti in maggioranza; ma anche sunniti) che inalberavano cartelli e indossavano T-shirt recanti la scritta di solidarietà “Sono un iracheno, sono un cristiano”.

D’altronde, il fenomeno dell’esodo cristiano si sta producendo dappertutto nel Vicino e Medio Oriente.

A Gaza i cristiani palestinesi visti come traditori
A Gaza, dove esiste un’ottima scuola cristiana guidata da un sacerdote argentino, padre Jorge Fernández, i cristiani locali (tra cattolici e greco-ortodossi) erano 3000 nel 2009, ridotti nel 2014 a 1300. Hamas è ormai riuscita a fare della causa nazionale palestinese, alla quale i cristiani locali aderivano in quanto arabi ben consci della loro identità etnica, una causa musulmana: e non è quindi raro che i cristiani locali, che gli israeliani considerano pericolosi in quanto palestinesi, siano visti ormai come “traditori” e come “nemici” dai loro compatrioti musulmani.

È questo un aspetto particolarmente ingiusto e doloroso dell’intera questione riguardante i cristiani d’Oriente, ai quali troppo spesso viene fatto carico di colpe non loro, bensì originate dalle antiche e nuove violenze poste in atto dal mondo occidentale, che dal canto suo non è ormai nella sua maggioranza più, se non formalmente e “sociologicamente”, cristiano.

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