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Pubblicato il 24/04/2019

GIAMPAOLO PANSA : UN SECONDO LIBRO DEDICATO ALLE ANGHERIE CONTRO I “VINTI” DELLA RSI. PARLA TERESA LA REPUBBLICHINA

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Il corriere della sera
13 Settembre 2018

di Pierluigi Battista

Non deve essere stato difficile per Giampaolo Pansa indossare i panni di una «ragazza fascista», di nome Teresa Bianchi, «chiamata Tere, maestra elementare appena diplomata» nel Monferrato, «sconfitta e relegata nel mondo dei vinti». Perché Pansa quel «sangue dei vinti» versato da tanti fascisti anche dopo la Liberazione del 25 Aprile lo ha descritto a lungo con perizia e temerarietà, anche sfidando i custodi dell’ortodossia resistenziale, che infatti lo hanno messo sul banco degli accusati con imputazioni politiche e storiografiche molto pesanti. E poi perché Pansa è un narratore nato. Il suo giornalismo è sempre stato narrazione pura, un romanzo politico e storico, se si può chiamare romanzo un racconto basato su fatti reali e documentati con un certosino lavoro di ricerca.

Ora Pansa è un ottantenne con il gusto intatto e fresco della scrittura. Un vegliardo prestigioso del giornalismo che non si è appassito, ma anzi ha trovato con l’età nuove tonalità e nuovi stimoli. E infatti con questo libro La repubblichina, appena pubblicato da Rizzoli, si è calato nella mente e nel corpo di una ragazza piemontese, inventata ma ispirata a fatti realissimi, che all’indomani della disfatta fascista viene incarcerata, poi issata su un palco del disonore insieme ad altre donne colpevoli di essere state vicine alla Repubblica sociale di Mussolini, rapata, «tosata come una pecora», esposta al pubblico ludibrio della folla inferocita che dopo anni di attesa si schiera con i vincitori e si accanisce sugli sconfitti.

Con Teresa Bianchi, classe 1924, il destino fu però paradossalmente più mite di quanto avrebbe potuto essere: ad altre donne nella sua condizione, militanti della Rsi o semplicemente amiche o amanti dei repubblichini («puttane fasciste», era l’epiteto più leggero), venne inflitta anche la tortura della pece bollente sul cranio appena rapato, con i capelli che, ricrescendo, avrebbero procurato dolori strazianti. Fu un’epoca di processi sommari, esecuzioni in piazza, vendette, ira e disprezzo. La guerra civile, più ancora delle atrocità del conflitto mondiale e dei bombardamenti che avevano mietuto una quantità inimmaginabile di vittime nella popolazione civile, aveva avvelenato gli animi. Pietà l’era morta, davvero.

Pansa non nasconde con indulgenza storiografica e umana le nefandezze compiute dal mondo repubblichino cui appartiene la sua protagonista. Non rimuove il nome di «Fossoli», il campo dove i fascisti, al rimorchio delle truppe hitleriane, concentravano gli ebrei prima di spedirli nella carneficina organizzata di Auschwitz. Non ci sono zone d’ombre in questo racconto. Nessuna reticenza sulle stragi nazifasciste, o sulle migliaia di stupri su bambine e donne anziane perpetrati dai reparti marocchini dell’esercito francese in Ciociaria, raccontati anche da Alberto Moravia, o sul massacro dei partigiani non comunisti nella malga di Porzûs, sul confine orientale, realizzato dai partigiani «rossi» per colpire mortalmente chi non voleva piegare la lotta per la libertà ai progetti di dominio dei comunisti del maresciallo Tito.


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C’è molta grande storia, nella Repubblichina di Pansa, ma senza dimenticare, come si conviene alla buona letteratura, la dimensione interiore, i lati sentimentali ed emotivi che sono decisivi per cogliere la personalità complessa di Teresa Bianchi. Che non viene dipinta come un simbolo di purezza e di condotta disinteressata. Una ragazza che sa usare il sesso come mezzo per ottenere favori e lavoro, spronata da una zia spregiudicata e parecchio immoralista. Una ragazza che stenta a rendersi conto del dramma da cui verrà sommersa, nonostante l’odore asfissiante di morte, l’orizzonte di distruzione e di lutti in cui la sua giovane vita prende forma. Gli uomini che la desiderano (e anche le donne che la desiderano con pari intensità), i piccoli e grandi compromessi, la progressiva immersione nel mondo «repubblichino» di una ragazza per cui essere fascista è una condizione naturale, una cornice che l’ha condotta dalle parti di Salò sin dall’infanzia.

Quel finale corrusco, quella cerimonia dell’umiliazione, quella tosatura che è un modo per vendicare attraverso il corpo fragile e vulnerabile di una donna anni di soprusi, di sopraffazione, ma anche uno sfogo per le pulsioni meno raccomandabili che albergano nell’animo umano quando l’urlo della folla sovrasta ogni razionalità, ogni affetto, ogni senso della misura, insomma il destino di Teresa Bianchi ci racconta che la storia prende vie cruente che non si riescono a intuire in tempo.

E lascia tracce profonde e durature anche quando gli avvenimenti più sanguinosi lasciano il campo al tempo della pace, che però non risana ferite e umiliazioni: la democrazia repubblicana non ha lenito il dolore di quei giorni. E ci vuole la penna di Giampaolo Pansa per raccontarlo con passione e pietà. Una pietà ritrovata.

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