EL ALAMEIN

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Pubblicato il 26/06/2014

GRANDE GUERRA; FURONO UCCISI ANCHE 8 MILIONI DI ANIMALI


di NAZARENO GIUSTI

Il capitano Julian Grenfell, autore del­la famosa poesia Into Battle , scrive­va nel suo diario che la guerra è «u­na battuta di caccia in cui le prede, anziché le solite volpi o anatre, sono esseri umani». Parole per lui profe­tiche (morirà, al fronte, nel 1915) ma che ben rendono l’atmosfera (e la mentalità) del tempo.

Ha quindi fatto bene Lucio Fabi (storico trie­stino) a inserirle nel suo interessante libro edito recentemente da Mursia, Il bravo sol­dato mulo , che affronta un tema pressoché inedito: la partecipazione alla prima guerra mondiale degli animali. Fabi, da sempre stu­dioso di tematiche belliche, già autore del saggio fotografico Guerra Bestiale, accom­pagna il lettore in un viaggio affascinante, con sfumature inaspettate. Come è ben no­to la prima guerra mondiale fu allo stesso tempo una guerra industriale e primitiva. Fu anche l’ultima in cui il contributo animale fu, a dir poco, fondamentale. Cavalli, buoi e muli furono essenziali per il trasporto. Tut­ti i modernismi del conflitto che aveva ini­zio cent’anni fa furono supportati dal lavo­ro e dalla fatica degli animali, che seguiro­no spesso sino nelle trincee i drammatici destini degli uomini.

Scrive Fabi: «Per i soldati abituati, da sem­pre, a convivere nei campi o in montagna con gli animali, cavalli, muli e buoi non e­rano soltanto mezzi di supporto ma con­cretamente esseri viventi a cui ci si accom­pagnava in un momento indubbiamente difficile e critico per la vita di tutti, uomini e bestie». Furono non meno di 8 milioni gli equini (e parliamo solo dei muli e dei ca­valli!) che perirono nella guerra mondiale. Tra loro però non vi furono solo bestie da trasporto. Importante fu la presenza del «miglior amico dell’uomo»: il cane.

Già nel 1914 l’esercito tedesco era all’avan­guardia nell’addestramento di dobermann e pastori tedeschi impegnati soprattutto nel­la ricerca dei feriti e nelle bonifiche delle trincee. Stessa cosa fecero francesi e ameri­cani, mentre l’esercito italiano li aveva già impiegati per la prima volta nel 1912, nella campagna di Libia. I poveri cani furono an­che usati come armi: imbottiti di cariche e­splosive erano lanciati contro i reticolati ne­mici, per aprire varchi. Una triste antici­pazione di quello che saranno i «cani anti-carro» della seconda guerra mondiale durante la quale molti eserciti addestrarono i cani fa­cendoli mangiare soltanto sot­to i cingolati… Ma non sono solo storie di dolore (anche se sono la maggior parte) quelle degli animali alla guerra; sono anche vicende di affetto ec­cezionale, con alcune sim­patiche curiosità. Ad esem­pio Armando Diaz battezzò il suo cane con il nome del­la città slovena conquistata dalle sue unità, Selo. Invece il capitano Carlo Mazzoli, vete­rano di Libia e Albania, ufficiale eccentrico e molto amato dai suoi uomini, era così legato ai suoi cani da presentarli al re in persona quan­do lo volle incontrare, affascinato e incurio­sito dalla figura di questo militare che si o­stinava a portare barba e capelli lunghissi­mi, infischiandosene degli ordini dei supe­riori e di una rigida formalità.

Alla guerra parteciparono anche animali in­sospettabili come elefanti e cammelli, uti­lizzati nei fronti extraeuropei. E che dire poi dei colombi che vennero impie­gati, a tutte le latitudini, come portaordini. Un ruolo di fondamen­tale importanza tanto che in In­ghilterra il simbo­lo dell’Animals in War Memorial Fund è il piccio­ne- soldato 279 , morto «nell’adem­pimento del suo do­vere ». C’erano poi ani­mali non propriamente vo­luti: pidocchi, pulci, cimici, zanzare che infestavano le trincee (in quel periodo l’u­so del Ddt crebbe a ritmi e­sponenziali) e soprattutto to­pi, enormi e malati, ingrassati grazie alla gran quantità di ler­ciume e rifiuti che si accumulava nelle trincee infangate e negli am­bienti malsani delle retrovie.

Ma gli animali contribuirono, soprattutto, all’alimentazione dei combattenti che con­sumavano carne e pesce in scatola. Solo ne­gli stabilimenti di Casaralta, Scanzano e Al­ghero, ad esempio, furono prodotti 140 mi­lioni di scatolette di carne bovina e 26 mi­lioni di carne suina. Inoltre, per la carne fre­sca, nelle città di retrovia funzionavano a pieno ritmo i macelli requisiti e riservati al­le truppe. Dove fu possibile, poi, i soldati si fecero pure cacciatori; in particolare nelle zone montane più tranquille. Così allo sva­go si univa l’utilità di aumentare il quanti­tativo di nutrimento. Oltre alla selvaggina si cacciavano rane e bisce d’acqua. L’artiglie­re Roberto Gandini, addirittura, nei suoi dia­ri ricorda di aver rincorso dei «porcelletti»!

Epico il racconto del camoscio conteso tra gli alpini del Battaglione Belluno e gli Jäger tedeschi. Finito nella terra di nessuno, l’a­nimale fu motivo di diatriba. L’ebbero vin­ta gli alpini che lo imbrigliarono a una cor­da usata anche come esca per catturare la pattuglia di Jäger, uscita dalla trincea per cercare di impadronirsi dell’animale. Così furono fatti prigionieri 5 tedeschi; si dice però che gli alpini cavallerescamente con­divisero con loro il camoscio cucinato as­sieme a un bel po’ di polenta!

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