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Pubblicato il 24/09/2014

IL PICCOLO DI TRIESTE PARLA DEL LEONE DELLA FOLGORE ROVIS SCOMPARSO IL 20 SETTEMBRE

Ritaglio

IL PICCOLO DI TRIESTE DEL 24 SETTEMBRE 2014

Morto a 99 anni Rovis
reduce di El Alamein

Nato a Pola nel 1915, dopo avere partecipato alla conquista dell’Impero
comandò una compagnia di paracadutisti della Folgore: un ufficiale esemplare

di Pier Paolo Garofalo

«Lei vede davanti a sè solo un vecchio ma io, nel mio cuore, sono rimasto uno della “Folgore”!» aveva dichiarato con semplice orgoglio a chi, ancora anni fa, lo intervistava sui suoi trascorsi militari. Silvano Rovis era anche questo, anzi per molta parte di sè era questo: aveva sempre portato con sè, nella sua lunga vita, i sentimenti, i ricordi, i valori che l’avevano accompagnato in quei formidabili anni trascorsi in uniforme.

Il tenente colonnello Silvano Rovis, decano dei paracadutisti reduci della battaglia di El Alamein, è morto a 99 anni, a quasi un mese di distanza dalla scomparsa di un altro ufficiale triestino della Divisione Folgore, il generale Ferruccio Brandi, Medaglia d’oro al Valor militare.

Anche a lui, nel Dopoguerra, per i fatti avvenuti durante quei tragici, mitici giorni dell’autunno ’42 nel deserto egiziano era stata attribuita una ricompensa al Valore.

Ma, offeso, la rifiutò rispedendo allo Stato maggiore la lettera di motivazione della ricompensa: vi si accennava al “superamento” di una qualche paura, che aveva poi portato ad atti degni della decorazione. «Un paracadutista non ha mai paura» aveva spiegato compostamente.

Figura esemplare di italiano, di ufficiale e di paracadutista, oltre a modello di discrezione e sportività, lucido e attivo fino alla fine, Rovis era nato a Pola il 16 febbraio 1915. Di costituzione minuta ma dalla volontà di ferro, si era dedicato con successo a molte discipline sportive, a iniziare dal canottaggio per poi passare all’atletica, vincendo a Roma i Giochi Dux. Nei suoi trascorsi sportivi anche il calcio, con alcune presenze in Serie C con il Grion di Pola nel 1938, e il tennis che lo ha accompagnato tutta la vita mitigando, i casi della vita sono incredibili, anche la prigionia in Africa. Ogni giorno si dedicava, mattina e sera, a esercizi ginnici. Riteneva il conservarsi in forma quasi un “dovere morale”. Già allievo ufficiale volontario universitario, partecipò alla Guerra d’Etiopia 1935-36, risalendo con le colonne del generale Graziani l’Altopiano etiopico fin da Mogadiscio. «Era acuto, si era procurato dei camion Chevrolet che andavano molto meglio di quelli nazionali» aveva elogiato l’alto ufficiale superando il rammarico verso chi lo aveva escluso dalla parata finale ad Addis Abeba perché non sufficientemente alto. Sgarbi di regime verso i suoi combattenti migliori, ma era un’altra epoca. Seguì la campagna di Albania e Grecia, con l’uniforme di sottotenente della Guardia alla frontiera, un’esperienza più drammatica perfino della Campagna d’Africa. «Neve, freddo, fame e un pericolo costante, disperante. Per giorni mantenemmo una posizione indifendibile, sotto una cengia dalla quale ci sparavano ogni notte» ricordava Rovis. «Al comandante di compagnia cedettero i nervi e non volle più muoversi dal suo ricovero. Così ogni sera facevo il giro delle nostre trincee, per assicurarmi della situazione e rincuorare i militari, tutti giovanissimi. Come mi avvicinavo a ogni buca, li sentivo pregare. Era terribile, è tra i miei ricordi più drammatici» spiegava. Poi l’entrata nei paracadutisti, la nuova specialità che prometteva nuove emozioni e azioni fulminee e che invece vide i “folgorini” inchiodati a terra nel logorante Nord Africa, fino alle sabbie di El Alamenin dove i parà si meritarono, oltre al timore, il rispetto del nemico e l’epiteto di “leoni”.

Lì, nel grado di tenente, Rovis era al comando della 27.a Compagnia del 9.o Battaglione del 187.o Reggimento. Quando con il suo reparto rilevò un’analoga unità tedesca e il comandante alleato chiese dove fossero le armi di accompagnamento e l’artiglieria che dovevano rimpiazzare quelle degli uomini dell’Afrika Korps, pur sapendo che non sarebbero mai arrivate di rincalzo ai suoi, sprezzantemente per salvare l’onore del Reparto e dell’esercito, assicurò in perfetto tedesco che sarebbero arrivate l’indomani o il giorno dopo, garantendo che la posizione sarebbe stata comunque tenuta, in ogni modo.

E così avvenne, con le Molotov contro i carri nemici e tutti gli altri eroismi da tempo consegnati alla Storia. Rovis venne fatto prigioniero il 7 novembre, tra gli ultimi, insieme a uno degli spezzoni delle colonne in ritirata. Erano circondati, l’ufficiale più alto in grado voleva rispondere al fuoco, per onore. Sarebbe stato il massacro ma nessuno aveva osato obiettare. Aveva poi passato in rassegna i volti di tutti quei militari poco più che ragazzini e aveva lanciato la “Beretta” nella sabbia. Per Rovis era l’inizio di una lunga prigionia che il suo orgoglio impedì di potere mitigare. Gli venne “in soccorso” però lo sport: unico a sapere giocare a tennis, che continuò a praticare due volte la settimana fino a poche settimane fa, divenne il partner del comandante britannico del campo. Lo fecero tornare in Italia solo nel ’46 e, pur non nella sua Pola ormai occupata, riprese il lavoro di funzionario di banca. Con nel cuore e nella mente il deserto dell’Africa e la “Folgore”.

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