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Pubblicato il 02/10/2017

OGGI SPOSI di Marco Bertolini

Pubblichiamo uno scritto del generale di corpo d’Armata ( ausiliaria) Marco Bertolini. Lo stile è quello di sempre: arguto, pungente, amaro. Un articolo che ci spinge a riflettere e che genera amarezza, ahinoi!
Nota della redazione: le sottolineature in neretto sono state fatte dal nostro giornale.

OGGI SPOSI

Il Tenente fu inflessibile e Sergio venne punito. Infatti, si era fatto accompagnare dalla fidanzata fino all’ingresso dell’Accademia al rientro dalla libera uscita, congedandosi da lei con un bacetto a fior di labbra che aveva fatto tremare le colonne del Sacro Portone.

Non si trattava di una di quelle ispezioni laringofaringee sbavate nelle finte effusioni delle fiction della TV di Stato, in prima serata obviously, ma era stato comunque sufficiente a giustificare la proibizione per gli Allievi del 154° Corso di farsi riaccompagnare da donne, fossero anche le madri, ad una distanza inferiore i 100 metri dall’Istituto di Modena.

Che risate per quell’ukase che se ne sbatteva del buon senso e di quello del ridicolo. Sergio stesso rielaborò facilmente l’incazzatura per la consegna subita con una scrollata di spalle e uno sghignazzamento in compagnia. Tanto, il tempo passa e con esso la consegna finisce.

Ma non c’era niente da fare e in fin dei conti ci andava bene così. Nello scorso millennio il decoro dell’uniforme doveva essere messo al riparo da gelati da passeggio avidamente slinguazzati, da borse della Coop faticosamente trascinate, da panini alla mortadella azzannati strada facendo nell’incarto bisunto del droghiere, da mano nella mano con la morosa di turno: invece, mano sinistra allo spadino e mano destra rigorosamente libera e inguantata, pronta a salutare o a rispondere al saluto! E non c’era modo per i mancini, che non mancavano, di fare il contrario! Era una cattiva abitudine che poi ci siamo portati dietro anche ai reparti, chi più e chi meno, e che ci avevano insegnato a declinare col termine “stile”. Un termine altezzoso, se volgiamo, e impegnativo. Ma grande.

Sergio se n’è andato qualche anno fa, lasciando la stessa fidanzata di allora – poi sposa – con due figli ormai grandi e sistemati. La punizione non aveva rotto il loro rapporto, anzi, e in un’epoca nella quale non c’era TAR che tenesse per farla annullare, non aveva avuto problemi a digerirla facendola anzi diventare parte di quell’anedottica con la quale in caserma cercava di lasciare un segno di umanità e una testimonianza di serena accettazione della disciplina ai suoi soldati.
Chissà perché è sempre a Sergio che penso quando vedo le immagini di Ufficiali o Sottufficiali delle Forze Armate, rigorosamente in uniforme da cerimonia, mentre “sposano” il proprio fidanzato dello stesso sesso (dello stesso sesso!).

Mi è successo in tre occasioni nell’ultimo anno, sfogliando qualche rivista o occhieggiando qualche ammiccamento ridanciano di What’s Up, e in tutte mi è sorta spontanea la domanda di come lui commenterebbe oggi la punizione ricevuta quasi mezzo secolo fa per un “attentato” al decoro dell’uniforme che impallidisce di fronte a queste nuove ed evolute manifestazioni di umanità varia. Non ho bisogno di scomodare gli Alpini di Nikolajevka, le Penne di Falco del Ten.Togni, i fanti grattuggiati sul Carso un secolo fa, i paracadutisti e i carristi di El Alamein, gli uomini Gamma di Alessandria o gli aersiluranti di Faggioni per precipitare in un abisso di sgomento. Mi basta Sergio coi suoi due o tre giorni di consegna per provare una rabbia inestinguibile per come questo sedicente progresso non ti dia il tempo di toglierti di torno prima di produrre le sue aberranti rivoluzioni.

E’ così che mi domando: avranno chiesto il permesso a qualcuno per “convolare a nozze”? Ci sarà un telegramma di qualche Comandante di Brigata o Divisione che augura una vita felice e tanti figli agli sposi novelli? Avranno invitato il Comandante della propria Nave o il Comandante di reggimento alla “cerimonia”? I colleghi gli/le avranno fatto il “ponte di sciabole”? Avranno preparato una lista di nozze e i loro soldati avranno fatto una colletta per comprargli/le la Rowenta e il Folletto? Come si presenteranno a loro, a questi ultimi, finita la “Luna di Miele” (!)? E come questi ultimi considereranno questa loro smania di dare una così singolare pubblicità alla stessa uniforme che essi stessi indossano?
E infine: immaginavano i fantasiosi legislatori, molti dei quali sedicenti “cattolici”, questo risultato? E soprattutto: gliene frega qualcosa?

In Accademia mezzo secolo fa eravamo il piccolo spaccato di un’umanità declinata al maschile assoluto, perennemente assonnata, affamata ed arrapata. Lo stesso nelle caserme nelle quali passava il tempo la nostra naja, tra una lezione di addestramento formale, una di regolamenti ed una corvè ai cessi; la domenica mattina, Messa obbligatoria.
Ma eravamo figli e nipoti di generazioni che avevano fatto la guerra e che sapevano dare al termine “onore” significati che oggi si sono persi.
E, come conseguenza, noi stessi ci siamo persi. Ci siamo persi lasciando che il piano inclinato sul quale slitta il nostro amor proprio e l’orgoglio per quello che le nostre uniformi rappresentano diventasse sempre più ripido. E sempre più veloce il precipizio.
Ci siamo persi rinunciando a considerare un valore la virilità delle nostre scelte giovanili per sostituirla con una passiva arrendevolezza a una società irrecchionita fino al midollo.

Ci siamo persi cammuffandoci da strumento buono per ogni emergenza, dalla pulizia delle strade di Napoli al piantonamento delle stazioni della metrò, facendo finta di dimenticare che siamo invece il frutto dello scandalo inestinguibile della guerra: quella che orbita pericolosamente attorno a noi, sulle sponde del nostro mare e che se ne sbatte se riteniamo spocchiosamente di averla abolita per legge. Ci siamo persi trasformando la nostra missione, il nostro dovere, in un diritto, in un’opportunità per tutti, belli e brutti, magri e grassi, buoni e cattivi, tosti e asfittici. Ci siamo persi, infine, quando abbiamo smesso, disperati, di indignarci nei confronti di chi svillaneggia quello da cui veniamo in nome di una libertà falsa e volgare, magari travestendosi da noi senza però avere lo stesso sangue blu che scorre nelle nostre vene.
Urge una bussola.

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