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Pubblicato il 05/07/2014

RASSEGNA STAMPA


AFGANISTAN

LA SICILIA edizione Catania
Dovevamo aiutarli a gestire la sicurezza: lo fanno sempre più»
Sabato 05 Luglio 2014

Vittorio dell’Uva
È l’ora dei “contigo”, bauli di plastica nera, che è facile stivare senza danni collaterali nelle pance degli aerei da trasporto. I soldati di Camp Arena vi sistemano di tutto: dagli oggetti personali, ai souvenir non proprio d’autore che forse finiranno in cantina. Favoriscono il grande trasloco, per fine missione, da Herat. Padre Mariano Asunis, cappellano della Brigata Sassari, spera che a dicembre, quando l’impegno italiano con Isaf sarà definitivamente concluso, non debbano essere utilizzati per riporvi gli arredi della chiesa del campo sul cui pavimento è disteso, come una reliquia, il tappeto grigio e azzurro dove furono deposte le bare della vittime di Nassiriya. «Gli afgani – dice – sono tolleranti. Se nuovi accordi comporteranno la presenza, con altri ruoli, di un nostro contingente, non li si potrà privare di un luogo di culto».
L’ipotesi, concreta, di un prolungamento della presenza italiana va definita entro ottobre. «Chiudere con Isaf non vuol dire abbandonare l’Afghanistan. Il sostegno futuro può prevedere anche una residua presenza militare», ha già chiarito il ministro degli Esteri, Federica Mogherini. I diretti interessati, gli afgani, non fanno mistero della necessità di disporre per almeno un altro biennio della solida stampella internazionale. «In pochi anni abbiamo creato un esercito nazionale di circa 170mila uomini capaci di opporsi alla offensiva degli insorti, ma c’è ancora bisogno di aiuto», ammette il generale Mohauddin Ghory, capo di stato maggiore del 207esimo Corpo di armata, preoccupato dalle carenze nei settori dell’intelligence, del supporto aereo e della logistica. Né è trascurabile il rischio di programmi di addestramento incompiuti. Senza gli advisors occidentali con le stellette, le forze armate locali non avrebbero potuto assumere un assetto operativo decente.
Al momento le tappe del disimpegno – “operazione Itaca 2” – poco sembrano tenere conto delle prospettive future. Camp Arena, che ha ospitato fino a 4.400 militari italiani, si svuota con non pochi benefici per le casse, perennemente esangui, dello Stato. Oggi di soldati se ne contano poco più di duemila con esigenze e operazioni ridotte. Tra un paio di mesi altre centinaia tornano a casa. «Mi si sono ristretti gli uffici e i ragazzi» scherza un ufficiale indicando la contrazione degli spazi e del personale. Qualche partenza è particolarmente significativa. Giorni fa il maggiore Marco Ruggeri ha guidato verso l’Italia i “Black cats” la sua pattuglia dei quattro cacciabombardieri Amx. Avevano volato nei cieli afgani per più di diecimila ore contribuendo a disarticolare la rete di comunicazioni dei talebani.
Il grande trasloco del contingente si misura più in metri lineari che a peso. Sulla pista della base di Herat si alternano i giganteschi cargo Antonov, gli Yliushin presi a noleggio e i C 130 dell’Aeronautica militare. Ingoiano elicotteri, automezzi pesanti, sofisticate attrezzature impacchettate con cura. Fanno la spola con Dubai dove sono in attesa le navi che salpano verso i porti italiani. Spiega il colonnello Giuseppe Lucarelli, responsabile della componente logistica forte di 200 uomini: «Abbiamo già utilizzato 650 aerei e 15 mercantili. Tutto il materiale da trasferire formava una colonna di oltre 17 chilometri. Da rimpatriare ne sono rimasti meno di sei. Nulla viaggia via terra considerata l’estrema modestia della rete stradale afgana e le difficoltà che si potrebbero incontrare attraversando altri Paesi. Sul piano della sicurezza, poi, i rischi sono quasi azzerati». Qualcosa, in ogni caso, a Camp Arena resterà. Il “valore” complessivo della base da consegnare agli afgani è calcolato in trenta milioni di euro. Non tutti sono recuperabili anche operando sul mercato dell’usato al di là di possibili donazioni dell’Italia alle autorità locali. Gli arredi e vecchi computer svuotati dei dati vanno abbandonati in considerazione degli alti costi di trasporto. Resta una sola riserva. Se l’impegno dell’Italia dovesse prolungarsi, occorre lasciare inalterato almeno il 20% della struttura.
«Chiudiamo in maniera più che soddisfacente» è l’analisi del generale Manlio Scopigno, comandante della Brigata Sassari. Ma da responsabile del contingente e del Regional command West non si riferisce certamente all’andamento di “Itaca 2”. «Dovevamo fare in modo che gli afgani fossero in grado di gestire la sicurezza. Osserviamo che ci riescono sempre di più. La nostra forza, ad eccezione di alcuni istruttori a Shindand è ormai concentrata nella base di Herat. Con gli assetti rimasti siamo ancora in grado di dare un supporto. Ora, però, le forze afgane si giocano tutto e lo sanno».
Manca a bilancio qualche dividendo per il sistema Italia, al di là di un clima giudicato «favorevole» a futura memoria. Osserva l’ambasciatore italiano a Kabul, Luciano Pezzotti: «Non è certamente per ottenere ritorni economici che ci siamo impegnati. Non mi sembra che altri abbiano penetrato il mercato ad eccezione di cinesi e indiani che investono oggi per trarre vantaggi tra qualche decennio. Ma in un contesto di maggior sicurezza potremo prima o poi godere del grosso credito accumulato. Non siamo mercanti. Aiutiamo e aiuteremo gli afgani in molte maniere, anche finanziando la partecipazione all’Expo di Milano per loro rappresenterà un trampolino sospeso sul mondo». Sperando, va da sé, che impastati come sono da endemica corruzione, cerchino – nella Lombardia degli scandali – spazi commerciali e non ulteriori “ispirazioni”.

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