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Pubblicato il 12/12/2018

RASSEGNA STAMPA: FAUSTO BILOSLAVO PARLA CON I PARACADUTISTI REDUCI DEGLI ATTENTATI IN MISSIONE

foto sopra
Fausto Biloslavo in Afganistan con il 187mo Rgt



la verita’ del 12 dicembre 2018

Le missioni di pace fanno ammalare i soldati
A distanza di anni, molti dei nostri militari inviati in Afghanistan e in Iraq sono perseguitati da ricordi angosciosi e crisi di
panico Solo dal 2005 al 2011 i casi di traumi psicologici accertati sono stati 267. Una malattia spesso ignorata e non
riconosciuta «Nell’incubo sono in mimetica su una branda da campo in Afghanistan. A fianco c’è un altro parà, sembra dormire,
di spalle. Lo scuoto per chiedergli dove siamo, cosa succede. Lui si gira e ha la faccia dell’attentatore suicida che ci ha fatto
saltare in aria. Alla fine si trasforma in un mostro, che apre le fauci e mi divora». Manuel Villani ha 36 anni e si porta la guerra
dentro. Nel 2009, durante gli aspri combattimenti contro i talebani, era un paracadutista del 187° reggimento Folgore. La sua
colonna è stata travolta da un kamikaze che guidava una macchina minata. Nove anni dopo soffre ancora di disturbi post
traumatici da stress (Dpts), la ferita nella mente e nell’anima di tanti militari italiani che hanno combattuto le «guerre» di pace
dall’Iraq all’Afghanistan.
Incubi, spinte suicide, crisi di panico, scatti d’ira, depressione, perdita della parola: sintomi dell’orrore della guerra. Una
malattia che per vergogna, ignoranza, burocrazia è stata a lungo un tabù. Dal 2009 al 2018 sono stati rimpatriati 222 militari
con disturbi psicologici. Dal 2005 al 2011 i casi accertati erano 267. La punta dell’iceberg dello stress post traumatico che
esplode anni dopo. Panorama ha raccolto le storie dei soldati italiani perseguitati dalla «sindrome del Vietnam».
«Il letto, di notte, è il mio campo di battaglia. Mi sento perseguitato dall’anima dell’attentatore. Rivedo i suoi occhi, l’esplosione
e sento l’odore della carne bruciata, del carburante» racconta Villani, che vive in Veneto. Il 3 luglio 2009 il parà della 4°
compagnia Falchi spunta dalla botola di un Lince attaccato alla mitragliatrice. Il convoglio italiano pattuglia la zona di Shindad
in Afghanistan. Un minivan accosta e Manuel incrocia lo sguardo del kamikaze al volante. «Trent’anni, senza barba, vestito di
bianco. Ci siamo guardati negli occhi e ho pensato: è finita. Sono morto». L’esplosione lo travolge e il blindato si ribalta sul
fianco. Con il timpano rotto e ferito al gomito, esce per primo mentre gli altri parà urlano lambiti dalle fiamme del Lince che ha
preso fuoco. Villani riesce a tamponare l’incendio e a tirarli fuori. Tutt’attorno i brandelli del kamikaze: «Le budella sul
parabrezza, la testa volata a 20 metri di distanza e un cane che azzanna un piede e se lo porta via». Qualche mese dopo
iniziano gli incubi, ma «nonostante il terrore, come una droga, volevo tornare laggiù». Nel 2011 il parà parte di nuovo per
l’Afghanistan e la situazione precipita. «Se qualcuno fa una grigliata mi torna in mente l’odore della carne bruciata e vomito.
Non riesco più a innamorarmi, non provo emozioni» dice Villani.
Nina ha sposato Tommaso nel 2016, il momento peggiore della malattia, che ha portato l’ex militare, un tempo paracadutista
dell’anno, a tentare due volte il suicidio. «L’incubo ricorrente di mio marito è tornare a casa in una bara. Oppure che gli sparano
addosso e viene colpito più volte dai proiettili. Una notte, dopo aver urlato nel sonno, si è svegliato di soprassalto e mi ha
stretto le mani al collo. Era come in trance» racconta Nina.

L’11 giugno 2009 Tommaso e la sua unità finiscono in un’imboscata. Il parà della Folgore spara all’impazzata dalla torretta del
blindato fino a quando arriva il colpo di mortaio. Le schegge lo investono, il viso è bruciato, ma si riprende per tornare a
sparare. Solo allora si rende conto che ha la mano destra tranciata e attaccata al braccio solo da un filo di pelle. «Dopo otto
interventi chirurgici torna in caserma, ma emergono i primi sintomi», racconta la moglie. «Se sale sul blindato si sente male.
L’odore della polvere da sparo gli fa venire la nausea». La situazione esplode a ridosso del Natale 2015, quando lo avvisano di
prepararsi a un pronto impiego in Libia. «È crollato» spiega Nina. «Pochi mesi dopo, quando ero incinta di sette mesi, si è
chiuso in bagno buttando giù una valanga di pillole».
Il calvario burocratico inizia con la Commissione medico ospedaliera di La Spezia. «Lo hanno trattato come un cane» dice
Nina. «Erano anche minacciosi: perché sei spuntato dopo anni? Chi ti ha mandato con la diagnosi di stress post traumatico?
Lo sai che perderai il lavoro e avrai problemi con la famiglia?». L’invalidità legata alla patologia comporta un riconoscimento
economico e le casse dello Stato sono sempre vuote. Alla fine la beffa: il disturbo da stress post traumatico è stato
riconosciuto, ma non per cause di servizio.
C. R. oggi lavora nei ruoli civili previsti per i veterani. In Afghanistan era un artificiere, ma la sua «colpa» è stata rimanere solo
contuso in un attentato e non ferito con cicatrici visibili. Il 2 luglio 2011, a Bakwa, il suo mezzo salta in aria e il militare non
tornerà più lo stesso. «Quando sono rientrato in Italia pensavo che, nel traffico, l’auto davanti potesse esplodere da un
momento all’altro» racconta l’artificiere della Folgore. Per la Difesa solo «il trauma contusivo a gamba e ginocchio sinistro» è
legato «all’effetto immediato e diretto dell’evento terroristico» e non il disturbo post traumatico. L’artificiere deve assumere un
avvocato, come molte vittime della sindrome del Vietnam. «Ho avuto il 40 per cento di invalidità e parte dell’elargizione
speciale, ma resta l’amaro in bocca per colpa della burocrazia e della Commissione medico ospedaliera di La Spezia. Mi hanno
fatto sentire uno schifo».
Kabul, 17 settembre 2009, un afghano scatta la foto drammatica del corpo decapitato di un soldato italiano in mezzo alla
strada e i blindati Lince sventrati. A fianco del cadavere con la mimetica insanguinata, un parà con la pistola in pugno. Si
chiama Ferdinando Buono, oggi ha 39 anni e convive con gli incubi della guerra. Il caporal maggiore scelto del 187°reggimento
Folgore è uno dei sopravvissuti del più grave attentato kamikaze in Afghanistan alle nostre truppe: sei paracadutisti
massacrati da una macchina minata. «Al momento dell’esplosione un calore fortissimo mi ha colpito in faccia. Poi il bianco del
fumo, le lamiere del blindato che si deformano e il corpo di Giandomenico Pistonami che era fuori dalla botola e crolla
nell’abitacolo senza la testa. Il sangue sulla mimetica è anche il suo» ricorda Buono.
Lui si stacca un dito per uscire dal blindato. Le vittime sono devastate: un parà senza gambe, un altro tagliato a metà con le
budella di fuori. Dopo cinque mesi di convalescenza il parà torna in servizio. «Ho tentato il suicidio lanciandomi da un ponte,
ma sono finito in mare, non sugli scogli» racconta Ferdinando, che ha continuato a fare l’istruttore. A un certo punto non ce la
fa più, lo mandano prima in convalescenza e poi in congedo. Ora lavora nei ruoli civili della Difesa. Per farsi riconoscere
l’indennità da stress post traumatico è in causa. In dicembre il giudice ha fissato l’ultima visita per il sopravvissuto al
massacro.
Il luogotenente in congedo dell’Arma, Vittorio De Rasis, vive in Lazio. È uno dei 19 carabinieri sopravvissuti alla strage di
Nassiriya provocata da un camion bomba. Non si separa mai da una foto di 15 anni fa, riverso sul cassone di un fuoristrada
con il volto insanguinato. Gli iracheni lo stanno portando di corsa all’ospedale. «Più volte al mese ho l’incubo della strage»
dice. «Vedo i caduti come Filippo Merlino, che dopo l’esplosione si avvicina barcollando, ma non ce la farà. O l’amico Cosimo
Visconti, sopravvissuto. Ricordo la raffica del kalashnikov dei terroristi che sfondano la sbarra con il camion zeppo di tritolo.
Sento i colpi della Mg del carabiniere scelto Andrea Filippa. E poi il muro che mi crolla addosso». Un tuono, i fuochi d’artificio
o il tappo dello spumante fanno ripiombare De Rasis nell’angoscia. Lo stress post traumatico gli è stato riconosciuto. «Quando
mio figlio esce di casa ho il terrore che venga ucciso in un attentato. L’incubo di Nassiriya non mi abbandonerà».

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