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Pubblicato il 20/07/2020

RASSEGNA STAMPA- INTERVISTA AL GENERALE BARDUANI- COMANDANTE DELLA MISSIONE A GUIDA ITALIANA A HERAT



Messaggero Veneto ed. sezione: CRONACHE data: 20/7/2020 – pag: 19

Barduani e l’Ariete in Afghanistan: «Qui affrontiamO il picco dei contagi»

Ritardato il previsto avvicendamento con la Brigata Julia «Qui c’è solo un ospedale, dati sul Covid lontani dalla realtà»


l’intervista

lieta zanatta- Ne è passato di tempo da quel 15 novembre, da quando Pordenone riunita in piazza XX Settembre salutava, nel settantesimo della sua costituzione, la brigata Ariete in partenza per l’Afghanistan. Più dei sei mesi canonici che richiede una missione in teatro operativo. Il Covid-19 ha fermato in Italia anche gli approntamenti e quindi ritardato l’avvicendamento con la brigata Julia che proprio giovedì 16 è partita per Herat, dove fra qualche settimana ci sarà il passaggio ufficiale delle consegne tra le due brigate friulane. È il generale Enrico Barduani che ci fa sapere dalla base di Herat, qual è stata la vita che hanno fatto i suoi uomini e donne in questo periodo, così eccezionale, così anomalo, dove si sono confrontati con il nemico più pericolo con cui hanno avuto a che fare, il virus Covid-19, perché mortifero, invisibile e silenzioso.


Generale Barduani, come stanno procedendo le cose con gli arietini nella base di Herat?

Va tutto bene, anche se il prolungamento di due mesi della missione è stata una doccia fredda per tutti. Sono gli imprevisti, ma anche l’aspetto bello del mestiere del soldato. Quando ero un giovane tenente mi dicevano che quando dovevo uscire nello zaino dovevo mettere di tutto, perché si sapeva quando si usciva ma non quando si rientrava. Insomma, questo virus ha sparigliato le carte. Bé, soprattutto qui, perché, a differenza dell’Italia, e parlo della popolazione locale, siamo ancora nel pieno della fase uno, presumibilmente proprio nel picco dei contagi. Il Covid ha impattato fortemente sulla tenuta sociale che di per sé è già condizionata da 40 anni di guerre ininterrotte.
Il sistema sanitario afgano non è all’altezza di sfidare una pandemia come questa. Qui a Herat c’è un solo ospedale che è in grado di fare 140 tamponi al giorno per una popolazione di 4 milioni e mezzo di abitanti, a cui si aggiungono un milione tra rifugiati e sfollati dai tempi della guerra. Si ha l’impressione che i dati che vengono dati sono presumibilmente molto lontani dalla realtà. Ho parlato personalmente con il direttore del Dipartimento della Salute pubblica dell’ospedale di Herat, il quale mi diceva che stimano un 80 % della popolazione infetta. Sono stime, non supportate da alcuna analisi ufficiale. Ma dà l’idea di quello che sta succedendo qui.
È un problema per voi svolgere le attività all’esterno della base?
Abbiamo avuto la “fortuna” di renderci conto subito di quale fosse la situazione. Nella prima settimana di marzo c’è stato un afflusso di circa 200 mila profughi afgani rientrati dall’Iran, paese particolarmente colpito dal Covid. Probabile che molti di questi fossero infetti e abbiano contribuito al fatto che oggi la provincia di Herat sia quella con il più alto numero di contagi e decessi. I dati ufficiali parlano di poco meno di 200 decessi, ma sono cifre che vanno prese con il beneficio d’inventario. Il renderci conto della situazione ci ha permesso di prendere subito delle misure precauzionali per interdire la base ai lavoratori locali dei quali ci avvaliamo qui in base, già dal 20 di marzo. Questo ci ha permesso di ridurre il rischio di contagio e salvaguardare il contingente. Così questi lavoratori sono stati privati anche delle possibilità economiche… No, perché ci siamo organizzati come in Italia, con lo smart working, in quanto sono dei linguisti ed interpreti. Ci danno ausilio da casa con le traduzioni e nel riportarci le notizie della stampa locale, che per noi sono importanti per capire cosa succede fuori della base. Collaborano con il contingente italiano da un decina d’anni, non potevamo lasciarli in mezzo alla strada.
Come avete ricevuto la notizia della pandemia in Italia e qual è stato il risvolto psicologico? Non nascondo che ricevevamo le notizie dall’Italia con un po’di apprensione per i nostri cari. Ma qui è venuta fuori la tempra dei nostri soldati, in particolar modo, me lo lasci dire, di quelli dell’Ariete, professionisti di razza. Non c’è stato un minimo cedimento, hanno fatto un lavoro straordinario. Con il confinamento, le famiglie in Italia hanno dovuto cambiare la loro vita e organizzarsi.

Come vi siete relazionati?
Abbiamo registrato un altissimo traffico internet e wi-fi, perché si sono infittiti i momenti di contatto con i familiari. Per fortuna che abbiamo queste tecnologie che ci aiutano, con WhatsApp e video chiamate, e parlo anche in prima persona. Abbiamo potuto così rincuorare i nostri cari che stavamo eseguendo il nostro lavoro con tutte le cautele del caso. Certo, seguivamo con apprensione quello che succedeva in Italia quando c’è stato il picco massimo dei contagi tra marzo ed aprile. D’altronde il Covid è arrivato inaspettato ed è stato inimmaginabile soprattutto per le dimensioni assunte in Italia.

Quando rientrerete a Pordenone?
In agosto. In questo periodo non ci sono stati movimenti da e per l’Italia, in accordo con il Centro Operativo Interforze di Roma e in base alle indicazioni del Comando della missione Resolute Support di Kabul, quale misura cautelativa e preventiva per evitare il rischio di contagi. Ma il cordone ombelicale con gli uomini della brigata a Pordenone non è mai venuto meno per via dei contatti quotidiani con il colonnello Giandomenico Petrocelli, attuale comandante di distaccamento. Al rientro, dopo un giusto periodo di riposo per riprendere le energie e gli affetti familiari, ci aspettano attività importanti, operative ed addestrative, perché l’Ariete è una delle punte di diamante dell’Esercito Italiano.

Un bilancio della missione?
Nonostante l’emergenza virus, abbiamo continuato a prestare consulenza e assistenza alle forze di sicurezza afgane, visto che siamo i mentori del 207º Corpo d’Armata afgano e di quattro comandi provinciali di polizia della regione Ovest. Anche qui la tecnologia ci è venuta in aiuto per evitare i rischi di contagio. Tante attività le abbiamo svolte in videoconferenza. I risultati sono più che lusinghieri. Il 207º si è imposto tra tutti i Corpi d’Armata afgani per dei risultati eccezionali ottenuti. La loro componente logistica era deficitaria ma grazie anche alla maturità dimostrata con i comandanti che mi hanno preceduto, hanno raggiunto livelli di prim’ordine. Il 207º è il primo in Afghanistan per l’informatizzazione nella gestione del personale e la preparazione degli stipendi, la verifica delle scorte a magazzino e le attività sanitarie. È stato il primo a riorganizzare la propria struttura sanitaria militare per l’emergenza Covid grazie anche ai nostri consigli e assistenza. Un bilancio assolutamente positivo. Altra nicchia di eccellenza sono i nostri Carabinieri che hanno fatto un lavoro eccellente di consulenza con le forze di polizia, per trasformarle da unità militari a forze dell’ordine di tipo occidentale, attente alle esigenze della popolazione dei grandi centri urbani e delle aree rurali. Alcune attività esterne sono rimaste, come quelle che ci garantiscono le forze di protezione per la difesa e la vigilanza della base. Ma anche quelle degli incontri di persona del sottoscritto con i vertici politici e militari della regione Ovest. Come quello fatto da poco con il governatore della provincia di Badghis dal quale avevo bisogno di condividere alcune informazioni. Lui è stato ben contento di darle perché sa dove sono i problemi e noi diamo gli strumenti necessari affinché trovino le soluzioni più adeguate.

La bandiera della città di Pordenone, è sempre con voi?
Sì, l’abbiamo bella in mostra nel saletta dove accolgo le autorità civili e militari. Pordenone è sempre con noi. Siamo legati al territorio, la maggior parte delle nostre famiglie vive e partecipa alla vita collettiva e sociale. Siamo e ci sentiamo cittadini di Pordenone.

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