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Pubblicato il 22/01/2017

RASSEGNA STAMPA: LA FOLGORE IN AFGANISTAN NEL 2009. IL GENERALE MINI NE PARLA MALE

IL FATTO QUOTIDIANO

Missione incompiuta. Quando Roma disse ai parà: “Ok, sparate”

22 gennaio 2017

Missione incompiuta. Quando Roma disse ai parà: “Ok, sparate”
Afghanistan – L’inviato della Rai racconta le sfaccettature di un conflitto in corso da 13 anni
Un conflitto mai concluso. In 13 anni gli Usa hanno speso 1.000 miliardi di dollari, l’Italia 5 miliardi di euro. Secondo l’agenzia Pajhwok, alla fine del 2016 sono 5.887 i caduti. L’operazione Resolute Support non è più solo di addestramento, ma di prima linea: dallo scorso ottobre gli italiani sono operativi su Farah City, i marines tornano a Helmand. In questo passo Piro parla degli eventi del 2009.Le intenzioni della Folgore, che quel giorno si respiravano già nell’aria, non vengono dichiarate ma saranno chiare già dopo poche settimane dall’arrivo in teatro sia sul fronte caldo di Bala Morghab che nella nuova area di operazioni, la provincia di Farah.Un cambio di passo che porterà, nei mesi successivi, alla dura analisi di Fabio Mini, acuto generale in pensione (o meglio della riserva) e analista fuori dagli schemi: “(…) i nostri soldati hanno assunto un nuovo atteggiamento operativo. Sfortunatamente il cambiamento non è stato dettato da una nuova strategia coordinata con gli alleati o da una migliore conoscenza della situazione. In realtà è partito dal basso ed è coinciso con il turno della brigata paracadutisti ‘Folgore’ che dell’Afghanistan non aveva né particolare conoscenza né migliore capacità di controllo del territorio. Tra le forze del nostro esercito i paracadutisti sono quelli più preparati alle operazioni ma anche i più vulnerabili alla propaganda dell’uso della forza. Sono immersi nella retorica delle maniere spicce, dello show di forza fisica e armata.I nostri parà hanno perciò ritenuto logico e naturale seguire l’onda sciagurata di quelle parti della nostra politica, della nostra stampa e dei nostri generali che assecondando il rambismo hanno creduto di fare un favore agli americani e agli altri alleati. Hanno creduto a chi, facendo leva sul loro spirito di corpo, reclamava il riscatto dell’onore nazionale macchiato dai precedenti contingenti, comandanti e governi ritenuti imbelli e incapaci solo perché avevano sparato e si erano fatti sparare meno degli altri”. Di sicuro pesa la mancanza di una vera strategia italiana per la missione afghana, come sottolinea Mini. Di fronte a questo come ad altri temi complessi e cruciali – negli anni del berlusconismo – in entrambi gli schieramenti politici prevale la propaganda. Sull’Afghanistan il centrodestra sembra fremere come se il supporto ai militari sia l’argomento che possa riscattarlo da tutte le incongruenze e incoerenze dettate dal conflitto d’interessi e dagli scivoloni del suo leader. Ma non è vero che la svolta “combat” nella missione afghana sia solo frutto dello spazio vuoto lasciato da una politica parolaia e occupato dai certi reparti militari, a “modo loro”.Durante una delle mie visite a Herat, un alto ufficiale della Folgore mi racconterà dell’avallo da parte del governo della linea “dura” che i parà stavano attuando. “Quando ci hanno chiamato da Roma per sapere come stavano andando le cose, gli abbiamo detto che noi stavamo sparando, che noi spariamo… ‘E voi sparate’… è stata la loro risposta”. Il senso profondo di questo frase mi sarà più chiaro quando verranno diffusi i dispacci di Wikileaks. La svolta era stata dettata anche dalle pressioni americane sul governo Berlusconi. Scrive da Roma l’ambasciatore Spogli alla vigilia delle elezioni, nell’aprile del 2008. “Ci aspettiamo una approccio più disponibile rispetto all’Afghanistan con il nuovo governo Italiano. Tuttavia sia Berlusconi che Veltroni non saranno disposti a esporre i soldati italiani a un rischio ancora più elevato.

Sarà una nostra prerogativa convincere l’Italia ad assumere un ruolo ancora più importante rispetto alla Regione Ovest (ndr, la regione di Herat affidata al comando militare italiano), dove si sta registrando un peggioramento delle condizioni di sicurezza, e inoltre ha il livello più basso di truppe tre le cinque regioni affidate alla forza multinazionale Isaf”. Ma quando nel novembre del 2008 viene eletto alla Casa Bianca Barack Obama, l’anno successivo per l’Afghanistan diventa ancora più strategico, non solo per via delle imminenti elezioni. Nei primi mesi dell’anno il neo-presidente autorizza un primo aumento di truppe e avvia una revisione complessiva della strategia afghana che porterà a grandi cambiamenti.

È così che nel 2009 le forze convenzionali italiane in Afghanistan entreranno in guerra, le forze speciali lo erano già da anni, coperte dal segreto. Il già caldo fronte di Bala Morghab si incendia mentre se ne apre un altro nella provincia di Farah. Da quel momento il numero di caduti della missione italiana comincia a salire, una curva che si fermerà solo al momento del ritiro, diversi anni dopo. E le accuse di “tangenti talebane”? Ce n’è una traccia in un dispaccio diplomatico: “Sulla base di informazioni ottenute nel 2008 indicanti che i servizi segreti italiani stavano pagando i ribelli nella regione di Kabul per non attaccare le truppe italiane, l’allora ambasciatore Spogli ha sollevato il problema con Berlusconi e ha ricevuto rassicurazioni che il governo italiano avrebbe approfondito la questione e messo fine a queste pratiche se ne avesse scoperto l’esistenza.

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