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Pubblicato il 10/10/2014

RASSEGNA STAMPA: LIMES ILLUSTRA LE RADICI DELL’ISLAM JIDAHISTA

cortesia Limes DEL 10 OTTOBRE 2014

Lo Stato Islamico e il ricordo del primo jihad in Arabia Saudita
di Liisa Liimatainen

L’avanzata del califfato in Siria e Iraq presenta alcune somiglianze con la nascita del regno di Sa’ud. Il rapporto ambiguo tra Riyad e il terrorismo sunnita.

Le immagini dei combattenti dello Stato Islamico (Is) alimentano l’idea che ci siano somiglianze con i jihadisti che diedero vita al regno dell’Arabia Saudita.

Ad accomunare le due organizzazioni armate è l’idea che sia loro diritto costringere gli abitanti dei territori conquistati a convertirsi all’Islam “giusto” anche con la forza. Oltre a ciò, ci sono molti argomenti che portano a vedere il jihadismo moderno come un prodotto saudita.

La storia dell’Arabia Saudita ebbe inizio con una guerra di conquista, con il jihad concordato tra due leader che si allearono nel 1744. Mohammad Ibn Al Sa’ud, a capo del piccolo villaggio di al-Dirijah vicino a Riyad – l’attuale capitale del paese – e Mohammad Abd al-Wahhad, un riformatore dell’Islam che diede vita al wahhabismo, una variante dell’Islam di scuola hanbalita, estremamente conservatrice, basata sulla stretta osservanza dei testi del Corano e della hadith (tradizione).

Al-Wahhab disse al capo di Dirijah: “voglio che giuri di intraprendere il jihad contro gli infedeli. In cambio tu sarai l’imam, un leader della comunità dei musulmani, mentre io sarò leader nelle materie religiose”.

Il capo di Al-Dirijah accettò di sostenere il jihad sia contro gli infedeli sia contro quei musulmani la cui la pratica religiosa non era conforme alle predicazioni del riformatore. Questo accordo diede vita a una sorta di divisione del lavoro che ancora oggi vige nel regno saudita: gli Al Sa’ud hanno il monopolio della politica, la leadership religiosa ha il compito di dare legittimità alla casa regnante.

Madawi Al-Rasheed nel suo libro A history of Saudi Arabia chiede perché un capo villaggio dell’area centrale desertica della Penisola Arabica abbia accettato di allearsi con un predicatore dalle posizioni così radicali. Probabilmente, poggiando il potere su un messaggio religioso, questo modesto capo locale ne traeva vantaggio.

In altri termini, il wahhabismo offriva al leader politico del movimento riformatore un’autorità religiosa e vantaggi materiali sotto forma di bottini ottenuti nei territori conquistati. Altresì convincente fu il discorso di Al-Wahhab a proposito della zakat, una tassa islamica che i fedeli dovevano pagare al loro leader.

La predicazione della purificazione dell’Islam e i raid per conquistare altri territori andavano di pari passo. Gli attacchi ai villaggi e ai campi delle tribù lasciavano lunghe scie di morti, soprattutto nei villaggi che non accettavano di sottomettersi e che, per questo motivo, andavano ad arricchire il bottino dei guerrieri.

Sempre secondo Al-Rasheed, senza la potenza del discorso religioso, il jihad intentato per conquistare i territori della penisola arabica non si sarebbe mai concluso con successo, come invece avvenne durante le fasi finali.
Il wahhabismo prometteva la salvezza in questo mondo e in quello ultraterreno. Nella zona centrale della penisola, in particolare nel Najd desertico, il discorso semplice e austero di al-Wahhad appariva attraente sia alle popolazioni nomadi, sia alle tribù sedentarie. Minacce di violenze o promesse di bottino non erano necessarie in questa regione.

La conquista dell’area centrale fu completata verso la fine del Settecento. Dopo la prima fase il movimento riformatore con i suoi guerrieri conquistó la regione di Hasa, area costiera del Golfo Persico, dove la popolazione era prevalentemente sciita e quindi considerata dai wahhabiti colpevole e perfino non musulmana.

La conquista di Qatif, la più importante città dell’attuale provincia orientale dell’Arabia Saudita, aprì la strada al Golfo Persico. Anche il Qatar accettò l’autorità di Al-Sa’ud nel 1797 e il Bahrain subito dopo. Entrambi cominciarono a pagare la zakat all’emirato di Al-Dirijah.

Un’altra zona costiera culturalmente molto diversa dal Nadj, l’Higaz, fu conquistato all’inizio del 1800. È in quest’area, alla Mecca e a Medina che l’Islam era nato. Nelle loro immediate vicinanze si trova anche un’altra grande città marittima – Gedda – attraversata per secoli da pellegrini provenienti da tutto il mondo musulmano e per questo motivo culturalmente molto variegata.

Nell’Higaz i conquistatori wahhabiti si scontrarono con l’importante autorità religiosa sunnita dello Sharif della Mecca, il quale seguiva gli insegnamenti di scuole sunnite più aperte del wahhabismo, nato nelle zone interne della Penisola e legato alla scuola hanbalita, la più conservatrice. Mecca e Medina furono sottomesse al potere wahhabita molto rapidamente.
L’esercito wahhabita raggiunse anche la fertile e ricca Mesopotamia. Nel 1801 la cittá santa degli sciiti, Kerbala fu attaccata e distrutta. Le offensive contro le città mesopotamiche continuarono fino al 1812 ma senza che i conquistatori riuscissero a consolidare la loro presenza, date le enormi distanze.

In quel periodo i guerrieri wahhabiti assalivano i pellegrini e attaccavano le città anche in Siria. Alla fine, l’assalto alle città sciite del sud dell’Iraq e l’estensione dell’azione dei jihadisti costrinsero l’impero ottomano a reagire con l’invio dell’esercito egiziano in Arabia. Quest’esercito riconquistò tutti i territori controllati dai wahhabiti e distrusse anche la loro capitale Al-Dirijah. Il primo regno saudita-wahhabita cessò di esistere nel 1818.

Nel corso dell’Ottocento ci fu un tentativo di riscossa, anche se la nascita del regno saudita avvenne solo dopo la fine della Prima guerra mondiale e la conseguente estinzione dell’impero ottomano. Fu importante anche l’alleanza di Al Sa’ud con gli inglesi, la potenza coloniale che dominava la penisola arabica, anche se il territorio saudita non fu mai sottoposto completamente al potere coloniale.

L’aspetto più interessante, anche ai fini della comparazione del jihadismo wahhabita con il jihadismo di oggi, è l’ultima fase della nascita dell’Arabia Saudita e lo sviluppo organizzativo e politico degli ikhwan (letteralmente “fratelli”, da non confondere con l’omonima organizzazione politica egiziana nata nel 1928).

L’esercito di Al Sa’ud, nato alla fine della prima ondata di conquiste, fu riorganizzato all’inizio del 1900 e i guerrieri ikhwan divennero un fattore decisivo nella conquista definitiva della Penisola Arabica, nella formazione dello Stato saudita e nella sua impostazione ideologica.

I leader del futuro Stato saudita avevano capito che i loro guerrieri potevano diventare una forza fondamentale di conquista solo se organizzati in forma permanente con una stretta dipendenza dalla leadership politica e con una formazione e un controllo ideologico continuo. A tal fine furono inventati gli hujjar, villaggi stanziali dove gli ikhhwan vivevano insieme.

Nel linguaggio dell’Arabia Saudita di oggi i mutawwa costituiscono una polizia religiosa che persegue le donne che circolano senza mahram (un parente uomo) o non sono vestite “decorosamente”. Nel passato i mutawwa, uomini della regione centrale del Najd con una formazione religiosa rigida, erano dei volontari che avevano il compito di costringere la popolazione all’obbedienza all’Islam wahhabita e ai suoi rituali.

Questo compito era molto importante nella costruzione del nuovo Stato che doveva formare una popolazione obbediente alle regole estremente puritane del wahhabismo. I mutawwa, infine, avevano anche un ruolo fondamentale nel controllo e nell’indottrinamento degli ikhwan.

I mutawwa e gli ikhwan vivevano insieme nei villaggi stanziali, dove i primi assicuravano l’indottrinamento religioso ed elargivano una sorta di sussidio economico. Si creava così una dipendenza ideologica e materiale degli ikhwan per i quali la seconda fonte di reddito erano le razzie nei villaggi refrattari.

Al-Rasheed sostiene che in questo modo il potere politico ha costruito un sistema funzionale nel quale i mutawwa – che esercitavano una coercizione psicologica nei confronti della popolazione – avevano il controllo sugli ikhwan che, a loro volta, controllavano militarmente le popolazione di quasi tutta l’Arabia.

Per i jihadist moderni dello Stato Islamico, gli ikhwan possono rappresentare un modello di riferimento e di azione. Va ricordato che, dopo la terza ondata di occupazione del territorio dell’attuale Arabia Saudita e la conquista definitiva del Higaz nel 1926, gli ikhwan si ribellarono contro Abd al-Aziz ibn al-Rahman Al Sa’ud, conosciuto come Ibn Sa’ud, il fondatore del regno dell’Arabia Saudita.

Ibn Sa’ud si era alleato con la potenza coloniale britannica e si considerava già come capo di un’entità con relazioni alla pari con altri Stati. Per questo non poteva più accettare le scorribande e le violenze degli ikhwan. Dopo la conquista dell’Higaz, gli ikhwan si coalizzarono per esprimere le loro critiche al futuro re. Secondo loro Ibn Sa’ud aveva legami troppo stretti con gli inglesi e il suo stile di vita (egli viveva nel lusso con tantissime mogli) contrastava fortemente con le regole del wahhabismo.

Gli ikhwan, inoltre, volevano rivedere lo status di Hasa, la regione sciita da “islamizzare” con la forza. Per loro erano inaccettabili perfino i comportamenti dei pellegrini che arrivavano nello Higaz da altri paesi e che utilizzavano la musica e il canto nei riti religiosi. Alcuni tra gli ikhwan volevano continuare il jihad in Iraq, Giordania e Kuwait. Una parte dei loro leader, invece, puntava a un potere autonomo tramite la costituzione di emirati locali.

Dopo aver conquistato il sostegno dei leader religiosi di Riyad e di una parte importante della popolazione del Najd, Ibn Sa’ud intraprese una vera e propria guerra contro gli ikhwan, con l’aiuto delle forze armate britanniche e delle loro armi moderne.

A seguito di questa “pacificazione” violenta degli ikhwan, nacque nel 1932 il regno dell’Arabia Saudita. Quel jihad è ben presente nella memoria storica di coloro che oggi puntano alla creazione di un califfato dove la popolazione viene completamente sottomessa ad una visione della religione estremamente respressiva. Ovviamente questi nuovi jihadisti non accettano la visione degli attuali regnanti dell’Arabia Saudita: il loro modello potrebbe essere la variante ribelle degli ikhwan.

Il seme del jihadismo é ancora vivo nella società saudita. Una ribellione relativamente recente fu l’attacco di estremisti sunniti alla Grande Moschea della Mecca nel novembre 1979. Essi denunciavano la corruzione di Al Sa’ud e il suo allontanamento dagli insegnamenti di al-Wahhab. I ribelli, almeno 200 uomini, hanno tenuto la grande moschea per quasi due settimane e sono stati sconfitti da un commando francese. Juhaiman al-Utaibi, il loro leader, proveniva dalle file della Guardia Nazionale saudita dove sembra che ci siano elementi che si considerano custodi della memoria degli ikhwan.

Ibn Sa’ud ha inizialmente soffocato il radicalismo perché ostacolava i suoi piani, anche se in seguito ha offerto questa visione a tutto il mondo musulmano. Dopo la fondazione dello Stato saudita e dopo la scoperta dell’oro nero, il regno saudita ha realizzato un’alleanza di ferro con gli Stati Uniti in nome dell’anticomunismo.

Con l’immensa richezza derivante dal petrolio, l’Arabia Saudita ha iniziato a esportare la visione wahhabita attraverso un’imponente opera di proselitismo negli altri paesi musulmani, in Asia e in Africa. La fondazione americana Foundation for Defense of Democracies (Fdd) sostiene che nel corso della guerra fredda l’Arabia Saudita ha destinato 7,5 miliardi di dollari agli aiuti ai paesi musulmani quali Egitto, Siria, Pakistan, Yemen del Nord, Sudan e altri nella lotta contro il comunismo.

L’espansione di un Islam conservatore veniva vista come uno strumento per ostacolare le idee di sinistra o nazionaliste, oppure per contrastare il potere degli alleati dell’Unione Sovietica. A partire dagli anni Sessanta, l’Arabia Saudita creò una rete di organizzazioni come la World Muslim League (Wml) che avevano il compito combattere gli sciiti ma anche le interpretazioni sunnite considerate sbagliate nell’intero mondo musulmano. La stessa Fdd sostiene in una recente ricerca che tra il 1973 e il 2002 il governo saudita abbia utilizzato piu di 80 miliardi di dollari per sostenere queste organizzazioni nella loro attività nei paesi musulmani. Il governo saudita ha finanziato più di 1500 moschee, 150 centri culturali, 200 istituti superiori e 2000 scuole islamiche nel mondo. L’80 % delle moschee nordamericane sono finanziate dai sauditi.

L’esportazione del wahhabismo cambiò natura dopo la rivoluzione iraniana e dopo l’attacco alla grande moschea di Mecca. Osama Bin Laden fondò nel 1984 l’ufficio dei servizi (Maktab al-kidamat, Mak) finanziato dagli organi della sicurezza saudita ma anche dalla Red Crescent saudita e dalla Wml. Il Mak recrutò migliaia di mujahiddin, fornì loro la formazione militare con l’aiuto della Cia e li mandò in Afganistan per combattere i sovietici.

Il numero di mujahiddin, sostiene Fdd, che hanno combattuto in Afganistan era tra 175 e 200 mila. La Cia – che addestrò i guerriglieri – non prese mai in considerazione l’idea di interrompere le spedizioni di armi. Gli addestratori avevano ormai capito che produrre dei “Frankenstein” avrebbe costituito al termine della guerra un forte pericolo. Infatti, i cosiddetti afgani arabi entrarono in azione in paesi come Algeria, Cecenia, Bosnia, Cashmire, Albania, Filippine, Kurdistan, ecc. Anche l’Arabia Saudita fu costretta a fare i conti con questi mostri di loro creazione nel suo stesso territorio. Nei primi anni 2000 ci furono molti attentati di Al Qaeda in Arabia Saudita.

I sauditi hanno agito contro l’estremismo interno in seguito alle accuse degli Stati Uniti dopo l’offensiva di Al Qaeda del 2001 negli Stati Uniti, ma soltanto dopo gli attacchi terroristici sul proprio territorio si sono resi pienamente conto del pericolo.

Negli anni tra il 2003 e il 2008 la sicurezza saudita ha annientato tantissime cellule di Al Qaeda e ha arrestato e ucciso tanti membri del gruppo. Il ministero degli Affari religiosi ha anche indagato sull’attività di decine di migliaia di moschee in tutta l’Arabia Saudita.

Le autorità saudite hanno tagliato loro i fondi che finivano nelle mani di Al Qaeda. Secondo la già citata ricerca di Fdd, nonostante questa azione flussi monetari giungono ancora nelle mani di altre organizzazioni jihadiste.

Lo scorso agosto, il gran mufti dell’Arabia Saudita ha condannato l’Is come un gruppo non islamico. Rappresentanti del clero saudita che non condannano lo Stato Islamico nei loro sermoni del venerdi potrebbero addirittura perdere la loro licenza di predicare pubblicamente. Negli stessi giorni un uomo è stato condannato a morte e altri tredici a scontare pesanti pene in prigione poiché hanno rispettivamente ucciso uno straniero e attaccato edifici governativi. Essi facevano parte di un nucleo terrorista di 50 elementi che aveva trasportato armi dall’Iraq.

Il potere saudita si sente dunque minacciato dal terrorismo sunnita e reagisce contro l’estremismo jihadista. Nonostante ciò, in Arabia Saudita ci sono molti simpatizzanti dei jihadisti moderni. Un esperto di Medioriente ed ex-agente dell’M16 britannico, Alastair Crooke, in un suo articolo pubblicato dal Conflict Forum afferma che non si può capire l’Is se non si conosce la storia del wahhabismo saudita.

Crooke sostiene che gli occidentali non hanno voluto vedere il pericolo rappresentato dal wahhabismo, dal mito della sua fase guerriera, dalla sua capicità di far presa su una parte dei sauditi e su altre popolazioni del Medio Oriente. I giovani sauditi trovano nei libri scolastici l’esaltazione del jihadismo e facilmente ne rimangono affascinati.

Anche l’esperto francese di movimenti islamisti, Gilles Kepel avverte nel suo libro Fitna: guerre au coeur de l’Islam, che la gioventù saudita si rifà ideologicamente all’epopea degli ikhwan, visti come eroi legati indissolubilmente alla fondazione del loro Stato.

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