OPINIONI

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Pubblicato il 15/07/2014

Tribunali pensati per rapinare gli Stati : poche multinazionali comandano il mondo



Multinazionali che trascinano in giudizio gli Stati per imporre la propria legge e far valere i propri «diritti», non è una supposizione: si contano già 500 casi nel mondo.

di BENOÎT BRÉVILLE e MARTINE BULARD

Sono bastati 31 euro per far partire lancia in resta il gruppo Veolia contro una delle poche vittorie riportate dagli egiziani nella «primavera» del 2011: l’aumento del salario minimo da 400 a 700 lire al mese (da 41 a 72 euro). Una somma giudicata inaccettabile dalla multinazionale, che ha fatto causa all’Egitto, il 25 giugno 2012, davanti al Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti (Cirdi), della Banca mondiale. Qual è stata la ragione invocata? La «nuova legge sul lavoro» contravverrebbe agli impegni presi nel quadro del partenariato pubblico-privato firmato con la città di Alessandria per lo smaltimento dei rifiuti (1). Il Partenariato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip) che si sta negoziando potrebbe comprendere un dispositivo per permettere alle imprese di citare in giudizio dei paesi – in ogni caso, è quanto auspicano gli Stati uniti e le organizzazioni padronali. Tutti i governi firmatari potrebbero dunque trovarsi esposti alle disavventure egiziane. Il lucroso filone della risoluzione delle controversie fra investitori e Stati (Rdie) ha già assicurato la fortuna di diverse società private. Per esempio, nel 2004 il gruppo statunitense Cargill ha fatto pagare 90,7 milioni di dollari (66 milioni di euro) al Messico, riconosciuto colpevole di aver introdotto una tassa sulle bibite gassate. Nel 2010, la Tampa Electric ha ottenuto 25 milioni di dollari dal Guatemala sulla base di una legge che pone un tetto alle tariffe elettriche. Più di recente, nel 2012, lo Sri Lanka è stato condannato a versare 60 milioni di dollari alla Deutsche Bank, per via della modifica di un contratto petrolifero (2). La causa intentata da Veolia, ancora in corso, è stata avviata in nome del trattato sugli investimenti concluso fra la Francia e l’Egitto. Esistono a livello mondiale oltre 3.000 trattati di questo tipo, firmati fra due paesi o compresi negli accordi di libero scambio. Proteggono le società straniere contro ogni decisione pubblica (una legge, un regolamento, una norma) suscettibile di nuocere ai loro investimenti. Gli strumenti e i tribunali nazionali e locali non hanno più diritto di cittadinanza, il potere è trasferito a una corte sovranazionale che trae il proprio potere…dalla perdita di potere degli Stati. In nome della protezione degli investimenti, ai governi si impone di garantire tre grandi principi: l’eguaglianza di trattamento fra le società straniere e le società nazionali (rendendo impossibile, ad esempio, una preferenza per le imprese locali che difendono l’occupazione); la sicurezza degli investimenti (i poteri pubblici non possono cambiare le condizioni di sfruttamento, espropriare senza compensazione o procedere a una «espropriazione indiretta»); la libertà per l’impresa di trasferire il proprio capitale (una società può uscire dai confini, armi e bagagli, ma uno Stato non può chiederle di andarsene!). I ricorsi delle multinazionali sono trattati da una delle istanze specializzate: il Cirdi, che arbitra la maggior parte dei casi, la Commissione delle Nazioni unite per il diritto commerciale internazionale (Cnudci), la Corte permanente dell’Aya, alcune camere di commercio, ecc. Gli Stati e le imprese in genere non possono fare appello contro le decisioni prese da queste istanze: a differenza di una corte di giustizia, una corte di arbitraggio non è tenuta a offrire questo diritto. E una schiacciante maggioranza di paesi ha scelto di non inserire negli accordi la possibilità di far appello. Se il trattato transatlantico comprende un dispositivo di Rdie, in ogni caso questi tribunali non rimarranno disoccupati. Ci sono 24.000 filiali di società europee negli Stati uniti e 50.800 succursali statunitensi nel Vecchio continente; ciascuna avrebbe la possibilità di attaccare le misure giudicate pregiudizievoli per i propri interessi. Il paese della cuccagna per gli avvocati d’affari Da 60 anni le società private possono attaccare gli Stati. Ma questa possibilità è stata a lungo poco utilizzata. Sui circa 550 contenziosi di questo genere repertoriati nel mondo dagli anni ’50, l’80% si è verificato fra il 2003 e il 2012 (3). La tipologia abituale (il 57% dei casi) prevede imprese del Nord – i tre quarti dei reclami trattati dal Cirdi vengono da Stati uniti e Unione europea – contro paesi del Sud. Particolarmente presi di mira i governi che vogliono rompere con l’ortodossia economica, come Argentina e Venezuela (si veda la mappa). Le misure prese da Buenos Aires per far fronte alla crisi del 2001 (controllo dei prezzi, limiti all’uscita di capitali…) sono state sistematicamente denunciate davanti ai tribunali di arbitrato. Eppure, i presidenti Eduardo Duhalde e poi Néstor Kirchner, arrivati al potre dopo sommosse violente, non avevano alcuna mira rivoluzionaria; cercavano semplicemente di affrontare l’urgenza. Ma la multinazionale tedesca Siemens, sospettata di aver foraggiato politici poco scrupolosi, si è rivalsa sul nuovo governo – chiedendogli 200 milioni di dollari – quando quest’ultimo le ha contestato contratti conclusi con il governo precedente. Allo stesso modo, la Saur, filiale di Bouygues, ha protestato contro il blocco dei prezzi del servizio idrico sostenendo che questo «nuoce[va] al valore dell’investimento». Contro Buenos Aires, negli anni seguiti alla crisi finanziaria (1998-2002) sono stati presentati 40 ricorsi, una decina dei quali ha portato alla vittorie delle imprese, per un ammontare totale di 430 milioni di dollari. E la fonte non è prosciugata: nel febbraio 2011, l’Argentina affrontava ancora 22 cause, 15 delle quali legate alla crisi (4). Da tre anni, l’Egitto si trova sotto tiro da parte degli investitori. Secondo una rivista specializzata (5), nel 2013 il paese è anche diventato primo destinatario dei ricorsi delle multinazionali. In segno di protesta contro questo sistema, alcuni paesi, come Venezuela, Ecuador e Bolivia, hanno annullato I loro trattati. Il Sudafrica sta pensando di seguire l’esempio, scottata senza dubbio dal lungo processo che l’ha opposta alla compagnia italiana Piero Foresti, Laura De Carli e altri a proposito del Black Economic Empowerment Act. Questa legge, che accordava ai neri un accesso preferenziale alla proprietà delle miniere e delle terre, era ritenuta dal gruppo di italiani contraria all’«uguaglianza di trattamento fra imprese straniere e imprese nazionali (6) ». Strana «uguaglianza di trattamento» questa, rivendicata da proprietari d’impresa italiani mentre i neri sudafricani, che rappresentano l’80% della popolazione, non posseggono che il 18% delle terre e vivono per il 45% sotto la soglia di povertà. Così va il mondo degli investimenti e le sue leggi. Il processo non è arrivato alla conclusione: nel 2010, Pretoria ha accettato di aprire delle concessioni a imprenditori esteri. Il gioco sembra prevedere sempre gli stessi vincitori e gli stessi perdenti: le multinazionali o ricevono lucrose compensazioni, oppure costringono gli Stati a ridimensionare le loro normative nel quadro di un compromesso, per evitare il processo. Anche la Germania ne ha fatto amara esperienza. Nel 2009, il gruppo statale svedese Vattenfall fa causa a Berlino, chiedendo 1,4 miliardi di euro perché le nuove esigenze ambientali delle autorità di Amburgo hanno reso «antieconomico» (sic) il suo progetto di centrale a carbone. Il Cirdi accoglie l’esposto e, dopo una lunga battaglia, nel 2011 si firma un «accordo in sede giudiziaria», che produce un «ammorbidimento delle norme». Oggi, Vattenfall ricorre contro la decisione di Angela Merkel di uscire dal nucleare entro il 2022. Non è ancora fissata la cifra del risarcimento richiesto, ma Vattenfall, nel rapporto annuale del 2012, valuta in 1,18 miliardi di euro la perdita dovuta alla decisione tedesca. Può succedere, ovviamente, che le multinazionali siano sconfitte: sui 244 casi giudicati fino a fine 2012, il 42% ha visto la vittoria degli Stati, il 31% quella degli investitori e il 27% ha portato a un accordo (7). Se perdono, le multinazionali devono rinunciare ai milioni impegnati nel procedimento. Ma chi recupera il gruzzolo sono sempre i «profittatori dell’ingiustizia (8)», per riprendere il titolo di un rapporto dell’associazione Corporate Europe Observatory (Ceo). In questo sistema fatto su misura, gli arbitri dei tribunali internazionali e gli studi legali si arricchiscono, comunque vada il processo. Per ogni contenzioso, le due parti si circondano di uno stuolo di avvocati, scelti fra i gabinetti più importanti, con emolumenti oscillanti fra i 350 e 700 euro l’ora. Le questioni sono poi giudicate da tre «arbitri»: uno indicato dal governo sotto accusa, l’altro dalla multinazionale accusatrice e l’ultimo (il presidente) dalle due parti congiuntamente. Non c’è bisogno di essere qualificato, abilitato o nominato da una corte di giustizia per arbitrare questo tipo di casi. Una volta scelto, l’arbitro riceve fra i 275 e i 510 euro all’ora (a volte molto di più), per un lavoro spesso superiore a 500 ore; ce n’è di che suscitare diverse vocazioni… Gli arbitri (il 96% dei quali è maschio) provengono in genere da grandi gabinetti di avvocati europei o nordamericani, ma non lavorano per passione. Con 30 casi al suo attivo, il cileno Francisco Orrego Vicuña è fra i quindici arbitri più richiesti. Prima di lanciarsi nella giustizia commerciale, ha occupato importanti incarichi governativi durante la dittatura di Augusto Pinochet. Un altro membro della top 15, il giurista ed ex ministro canadese Marc Lalonde, è passato per i consigli di amministrazione di Citibank Canada e Air France. Il suo compatriota Yves Fortier è passato dalla presidenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu al gabinetto Ogilvy Renault, ai consigli di amministrazione di Nova Chemicals Corporation, Alcan o Rio Tinto. «Far parte del consiglio di amministrazione di una società quotata in Borsa – come mi è successo più volte – mi ha aiutato nella mia pratica di arbitrato internazionale, ha confidato in un’intervista (9).Mi ha dato una visione del mondo degli affari che non avrei avuto come semplice avvocato.» Proprio una prova di indipendenza. Una ventina di gabinetti, principalmente statunitensi, fornisce la gran parte degli avvocati e degli arbitri interpellati per la Rdie. Interessati a moltiplicare questo genere di affari, essi cercano di scovare la benché minima occasione di far causa a uno Stato. Durante la guerra civile libica, l’impresa britannica Freshfields Bruckhaus Deringer consigliò ad esempio ai suoi clienti di far causa al governo di Tripoli, con la motivazione che l’instabilità del paese provocava un’insicurezza pregiudizievole agli investimenti. Fra esperti, arbitri e avvocati, ogni contenzioso frutta in media circa 6 milioni di euro alla macchina giuridica. Impegnate in un lungo processo contro l’operatore aeroportuale tedesco Fraport, le Filippine hanno dovuto sborsare per difendersi la somma record di 58 milioni di dollari: l’equivalente del salario annuo di dodicimilacinquecento insegnanti (10). Si capisce come mai Stati dalle scarse risorse cerchino il più possibile di arrivare a compromessi, anche a costo di rinunciare agli obiettivi sociali o ambientali. Questo sistema non solo va a vantaggio dei più ricchi, ma fra giudizi e composizioni amichevoli, fa evolvere la giurisprudenza e dunque il sistema giudiziario internazionale fuori da ogni controllo democratico, in un universo retto dall’«industria dell’ingiustizia».

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