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PRIMO PIANO
ESCLUSIVO
I DOSSIER DELL'INTELLIGENCE USA
La guerra nascosta
di Gianluca DI
Feo e Stefania Maurizi
Combattimenti
tenuti segreti. Battaglie tra le case con vittime civili. Decine di soldati
feriti senza che se ne sappia nulla. E poi centinaia di talebani
uccisi. I tradimenti delle forze di Kabul. Le azioni coperte dei nostri 007.
Ecco il vero volto della missione italiana in Afghanistan descritto nei
rapporti riservati, e sinora inediti, raccolti dal sito di controinformazione Wikileaks
Molti leader talebani nel distretto di Farah
vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli
alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando
per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei "veicoli
neri" della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani
e delle forze occidentali. Il capo dell'intelligence locale ritiene che questo
terrore nasca dalle perdite che
Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan.
Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per
aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è
sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e
uccidono centinaia di guerriglieri. Una sterminata serie di scontri, con raid
dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare
i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani
addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani,
con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche
dall'Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul.
Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di
proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le
imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una
minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali,
incassando spesso i razzi dei talebani.
"L'espresso" è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra
segreta degli italiani grazie ai nuovi documenti concessi da Wikileaks: l'organizzazione creata da Julian
Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde
sul Web. Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell'intelligence americana non
ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che
integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che
mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi
misteriosi. Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un
presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro
governo e trasferito a Roma. Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai
comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di
battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle
loro Task Force, Center, North, South,
TF45: resoconti in codice che raccontano l'orrore di battaglie e spesso anche
la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili
negli scontri.
Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di
combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui
non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31
dicembre 2009: "L'espresso" si è concentrato sulle informazioni dello
scorso anno, quando rinforzi e nuove regole d'ingaggio hanno provocato
l'escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore.
BATTAGLIE TACIUTE Tra maggio e dicembre
Uno dei combattimenti più discussi avviene il 31 maggio 2009 intorno alla base Colombus. Siamo a Bala Murghab sulla frontiera occidentale, il settore strategico
per esportare l'oppio che finanzia i talebani. Un
confine invisibile: i files segnalano inseguimenti
che proseguono nel territorio turkmeno. Poco prima
del tramonto, sulle postazioni italiane e su quelle degli alleati afghani cominciano a piovere razzi. I parà rispondono anche
con i mortai pesanti da
La base Columbus nel maggio 2009 viene attaccata
quasi tutti i giorni. Uno degli assalti meglio organizzati è all'alba del 9,
con più gruppi di guerriglieri che massacrano un plotone di soldati afghani mentre razzi piovono sulle postazioni italiane. I
parà escono dal fortino per soccorrere gli alleati, ma vengono aggrediti alle
spalle. A quel punto i mortai pesanti aprono il fuoco. Si spara per oltre tre
ore. Alla fine il bilancio è drammatico: 11 soldati afghani
morti, 12 finiti nelle mani dei fondamentalisti, un
civile ucciso e uno ferito, tre italiani colpiti in modo non grave. Si stima
che 20 talebani siano stati ammazzati e dieci feriti,
ma nessuno può confermarlo: queste vittime vengono catalogate con una formula
di incertezza. Due giorni dopo un uomo e un ragazzo feriti da proiettili si
presentano alla base in cerca di cure: un elicottero italiano li trasporta in
ospedale.
I LIMITI DELL'AUTODIFESA Come accade in tutti gli eserciti del mondo, le forze
Nato in Afghanistan si comportano in modo molto più determinato quando bisogna
salvare commilitoni sotto attacco. L'apocalisse nella zona controllata
dall'Italia è l'11 giugno. Una squadra di americani e afghani
finisce in trappola nelle viuzze di un villaggio. Una ventina di loro vengono
feriti in pochi minuti, anche l'elicottero che li soccorre incassa un razzo. A
quel punto si scatena un diluvio di fuoco "in una zona densamente
popolata": viene usato tutto l'arsenale statunitense, razzi al fosforo
bianco, dieci bombe, 2.300 proiettili da
DUE MESI DI FUOCO Per rendersi conto di quello che fanno le truppe mandate in
Afghanistan per volontà bipartisan del Parlamento
basta esaminare i files relativi a due soli mesi. Un
campione impressionante della situazione, nonostante si tratti di rapporti
parziali. Partiamo dal 16 giugno 2009.
Il 2 luglio uno scontro confuso. Ci sono agenti "amici" intrappolati
in un edificio. Parà italiani e soldati afghani
intervengono, ma sembra che i poliziotti gli sparino contro. Arrivano due
elicotteri Mangusta che non risparmiano munizioni: 424 proiettili con il
cannoncino e un missile. Nessuna valutazione delle vittime. Il giorno dopo a
sud un kamikaze su una moto si lancia contro un blindato italiano: il mezzo si
rovescia, due soldati restano feriti. Il 4 all'alba c'è una scaramuccia intorno
a un ospedale. Poi nella luce del tramonto i talebani
attaccano la cittadella di Herat, dove c'è il comando
e vivono quasi 2 mila militari italiani: tirano sette razzi. Due Mangusta
decollano e danno la caccia agli incursori, sparando raffiche d'avvertimento.
L'indomani una colonna viene bersagliata, ma quando arrivano i caccia americani
i miliziani scappano. Il 7 attacco con ordigno e reazione contro gli
attentatori in fuga: uno ucciso, uno ferito e uno catturato. Il 9 una pattuglia
nei guai risolve la situazione a colpi di mortaio. Il 12 razzi contro le basi Tobruk e Tarquinia. Il
Il nostro mese di fuoco si chiude con una giornata di sangue. Il 25 luglio un
autobomba a sud esplode al passaggio di una colonna italiana: il Lince salva la
vita di quattro soldati, che riportano solo ferite. Nelle stesse ore a Bala Baluk una compagnia in
ricognizione cade sotto il tiro incrociato di razzi, mortai e mitragliatrici.
C'è un ferito. Dalla base partono i rinforzi. Ma i talebani
sono bene appostati, sparano da case abitate e bloccano la ritirata. I parà
rispondono anche con mortai. Arrivano i Mangusta che lanciano un missile
"in campo aperto", poi usano il cannone: 210 proiettili contro una
casa. C'è pure un bombardiere americano, ma non gli viene permesso di
sganciare: si rischiano vittime civili. Anche una compagnia di rinforzi afghani finisce sotto tiro. Nuova battaglia, i reparti si
uniscono e si aprono la strada sparando tra le abitazioni fino al fortino.
Recita il rapporto: "Il fuoco è stato richiesto per autodifesa, al fine di
permettere all'unità di uscire dalla trappola. Non sono stati visti civili
dentro o intorno i luoghi da cui proveniva il fuoco nemico". La prima
stima è di 45 guerriglieri uccisi "ma non è stato possibile verificarlo
perché le case erano presidiate dai talebani".
Il bilancio finale è di 25 morti, confermato dalle nostre fonti di
intelligence.
CANNONIERE VOLANTI I Mangusta sono attivissimi. Vengono invocati in
continuazione: volano a bassa quota, si ritiene che possano mirare con
precisione, limitando i danni collaterali. A leggere i rapporti, non si capisce
perché il ministro Ignazio
I talebani cercano in tutti i modi di abbatterli. Il
26 maggio 2008 uno dei nostri elicotteri riceve anche l'allarme laser: il
segnale che un missile nemico lo ha inquadrato. Almeno due Mangusta e un Agusta della Marina vengono colpiti da pallottole. Il 9
luglio 2009 i talebani organizzano un agguato su
vasta scala. Una mina esplode al passaggio di un convoglio italo-spagnolo:
ci sono 4 feriti gravi feriti. Dopo venti minuti arrivano due eliambulanze spagnole e scatta l'imboscata: cecchini
sparano dai tetti, altri sono nascosti tra gli alberi. I soccorritori volano
via e sulla scena irrompono due Mangusta che "la ripuliscono dagli
insorti" a cannonate. Il 18 agosto 2009 i miliziani gli lanciano contro
due razzi che esplodono a pochi metri. Poco ore più tardi un'altra coppia di
Mangusta soccorre una squadra italo-afghana: appena
gli "insorti" li sentono, scappano. Il giorno dopo stesso servizio
per liberare una compagnia statunitense. Il 3 settembre i commandos
spagnoli sono in difficoltà vicino al Sabzak Pass. Due coppie di Mangusta si alternano per coprirli con
raffiche intense: gli vengono attribuiti 19 nemici uccisi e otto feriti.
MA C'È CHI CI AIUTA In diverse occasioni è la popolazione a segnalare agli
italiani i pericoli, segno che riusciamo a farci stimare. In un paesino i
bambini, normalmente festosi, rifiutano le bottiglie d'acqua offerte dai nostri
fanti. I soldati all'inizio sono sorpresi, poi capiscono e danno l'allarme:
"Gli insorti ci stanno sorvegliando, possibile presenza nemica nelle
abitazioni". Il 23 settembre 2009 una squadra sta percorrendo la strada
alle porte del villaggio di Parmakan. Un civile li
ferma: "Attenti è pieno di talebani". Ma è
troppo tardi. I guerriglieri sono ben piazzati, aprono il fuoco da due diverse
posizioni con razzi, mitragliatrici e mortai. C'è un parà ferito in modo grave,
gli altri sparano senza sosta. Arrivano due caccia, ma ci sono troppe case per
bombardare: sganciano solo scie luminose, che convincono i fondamentalisti
a fuggire, lasciandosi alle spalle quattro morti e otto feriti. Ci vuole poco
però a perdere il consenso della gente. Quattro giorni dopo americani e commandos afghani cadono in
un'imboscata nelle vie di un villaggio. Ci sono cecchini sui tetti, altri tra
le case. Poi arrivano gli aerei. I caccia vanno in picchiata con migliaia di
colpi da
NATALE DI BOMBE
Due giorni dopo si combatte ancora nello stesso villaggio, i talebani sparano da tre case. I jet sganciano due bombe su
una postazione fuori dal paese, ma viene proibito l'attacco sulle abitazioni.
Il raid sembra avere riportato la quiete e comincia il rastrellamento. I Cobra
si appostano, gli americani entrano nel paese. Ma dai tetti rispuntano i
cecchini talebani. Volano raffiche e razzi. Ed ecco
di nuovo gli stormi americani: quattro bombe vengono dirette sugli obiettivi.
Quattro le case sbriciolate: si stima che 25 guerriglieri siano morti, ma
controllare è troppo pericoloso. Il giorno dopo due bambini feriti si
presentano al cancello della base: dicono che la madre è stata ammazzata.
Raccontano una storia agghiacciante: la loro famiglia è stata tenuta in
ostaggio dai talebani. Il rapporto è laconico:
"Si ritiene che la bomba sganciata contro la casa confinante l'abbia
uccisa".
CHI CI SPARA CONTRO I resoconti dell'intelligence americana mostrano la
sfiducia nei confronti delle forze afghane, spesso
addestrate dagli italiani. La diffidenza massima è nei confronti della polizia
locale. A Herat, nel capoluogo della regione dove
sventola il tricolore, sono ancora più espliciti: "La maggior parte della
polizia afghana non può essere giudicata affidabile,
perché molti dei poliziotti lasciano i loro posti e spesso si arruolano nelle
fila dei talebani. Molti lo fanno perché non vengono
pagati. Non è chiaro dove vanno a finire i soldi destinati agli stipendi".
Gli agenti arrotondano con i sequestri di persona, a danno di possidenti, un
business molto proficuo: "Si pensa che rapitori ed alti ufficiali della
polizia siano d'accordo".
Il vicegovernatore di un'area nel nostro distretto si vanta di "avere un
fratello nei talebani". Molto spesso sulle
informative degli 007 è scritto in evidenza: "Queste notizie non devono
essere condivise con il governo di Kabul e la polizia". L'episodio più
grave è avvenuto il 29 dicembre nella base Columbus.
Un soldato afghano ha fatto fuoco sui suoi alleati
occidentali, uccidendo un americano e ferendo due italiani. Pare che
l'obiettivo fosse un elicottero appena atterrato. Il 21 dicembre, dopo una
lite, scoppia una battaglia davanti all'ingresso principale della cittadella di
Herat, comando di tutte le nostre truppe: poliziotti afghani contro soldati afghani.
La stessa scena si ripete cinque giorni dopo su un ponte. Spesso gli afghani sparano senza motivo: una pattuglia di bersaglieri
descrive come abbiano distrutto un negozio in un villaggio alle porte di Bala Murghab. Persino quattro
uomini assoldati per la sicurezza dell'ambasciata di Kabul vengono indicati
come complici dei talebani e rimossi. E c'è il
sospetto che l'attentato in cui è stato ammazzato un artificiere italiano sia
stato organizzato con la complicità di poliziotti. Molti di loro però pagano
con la vita il sostegno agli occidentali: due agenti vengono decapitati a Chin. A un altro ufficiale uccidono la figlia e feriscono
la moglie. Il 3 giugno i parà italiani scoprono un camion con i corpi di 12
civili, rapiti e assassinati perché lavoravano per gli americani.
I BAMBINI PERDUTI Le informative occidentali e anche quelle italiane
evidenziano come i talebani puntino a usare i bambini
per i loro piani criminali. Viene descritto l'addestramento di dodicenni,
destinati a diventare kamikaze alla guida di autobombe.
Ci sono progetti dettagliati per stroncare la campagna di scolarizzazione laica
e spingere i piccoli verso le madrasse, le scuole
religiose che formano i quadri talebani. Temono il
successo delle aule costruite dagli italiani: studiano come avvelenare il cibo
donato dagli occidentali ai centri di istruzione e di infiltrare fondamentalisti tra gli insegnanti selezionati dal governo
di Kabul. Nelle informative si parla anche di gas e sostanze chimiche per
mettere a segno attentati clamorosi contro i fiancheggiatori della Nato. Ci
sono stati anche sospetti sull'incendio che ha distrutto l'accampamento della
Task Force
L'INTELLIGENCE I files di Wikileaks
mostrano un grande attivismo dei nostri servizi segreti, sul campo e nei Paesi
chiave per conoscere le mosse dei talebani. Nel 2009
il comando italiano ha ricevuto 255 rapporti su minacce di attentati e
movimenti dei guerriglieri. Gli americani sembrano diffidare di molte delle
nostre fonti e selezionano questi dossier, dandogli gradi di affidabilità
limitati. E sul campo accadono episodi molto oscuri. Un nostro ufficiale alla
guida di una colonna spara contro un agente dei servizi segreti di Kabul. Pare
che gli 007 di Karzai avessero bloccato una nostra
missione sul campo: dopo la sparatoria arrestano tutti gli italiani,
rilasciandoli dopo alcuni giorni. Ancora più enigmatica è la consegna al
governo di Roma di un prigioniero custodito dagli americani: dovrebbe trattarsi
di un terrorista straniero. Lo scambio avviene il 20 dicembre 2009
all'aeroporto di Bagram e l'uomo prende il volo con
un Hercules dell'Aeronautica. Chi è? Perché
interessava tanto alle nostre autorità? Nel documento ci sono solo codici
cifrati, e niente nomi.
Tra tanti files confidenziali, uno è particolarmente
suggestivo: ha il titolo "Berlusconi" e
racconta la nascita di una protesta popolare anti-americana e anti-Karzai in un distretto del Nord, affidato ai tedeschi,
in sostegno del generale Dostum, leggendario signore
della guerra. Il dossier fa riferimento a informazioni di un documento del
febbraio 2008 con il nome del premier, che in quei giorni era impegnato nella
campagna elettorale. Perché chiamarlo proprio con il nome del Cavaliere?
L'ultimo mistero di una guerra tenuta nascosta agli italiani, una missione dove
la pace è un ricordo remoto. E dove ogni giorno quasi quattromila militari
combattono e rischiano la vita per portare a termine il compito che gli è stata
assegnato da governo e parlamento. n
Wikileaks, il nemico del Pentagono
L'ultimo
appuntamento è in una grande capitale europea. Al buio, come tutti i contatti
lanciati dai suoi ragazzi. Dopo la pubblicazione del primo database di
documenti segreti sottratti al Pentagono, Wikileaks è
diventato il pericolo pubblico numero uno delle autorità statunitensi. E il
fondatore, Julian Assange,
una sorta di leggenda, idolatrata e odiata: il capo dei pirati informatici che
hanno beffato la più grande potenza mondiale o l'uomo che mette a rischio la
sicurezza internazionale.
Dopo il clamore per la fuga di notizie più massiccia mai avvenuta, che ha messo
a nudo tutti i lati oscuri della guerra condotta in Afghanistan dalla Nato, Assange si è inabissato. Poi la vicenda oscura delle accuse
di stupro, lanciate contro di lui da due ragazze svedesi, immediatamente
confermate dai magistrati di Stoccolma e smentite dagli stessi neppure ventiquattr'ore dopo. Il tempo di una veloce autodifesa in
pubblico ed è scomparso.
Alla fine "L'espresso" è riuscito a incontrare l'uomo che
La sua arma segreta è quella. "Questo computer invece sta sempre con me,
non può sparire". Poi si infila le mani nel maglione a collo alto e tira
fuori una chiavetta Usb fissata a un cordoncino.
"Anche questa sta sempre con me". Un sorriso fugace e si rabbuia di
nuovo: "Forse nella valigia vogliono metterci qualcosa?", commenta,
"una microspia o materiale pedopornografico?".
Eccolo Julian Assange: si
materializza lui e, fedele come la sua ombra, si materializza la paranoia.
Stefania Maurizi
Ecco perché è meglio tornare a casa
colloquio con
Giuliano Ferrara di Gigi Riva
Dal
riluttante Obama alla missione di pace. Parla l'ex
ministro di Berlusconi
"In
queste condizioni, col comandante in capo Barack Obama che è un soldato riluttante meglio tornare a
casa". A Giuliano Ferrara, 58 anni, direttore del "Foglio", non
piace come è condotta la guerra in Afghanistan. O la si fa seriamente o è
meglio lasciar stare. E il nostro governo farebbe bene a dirlo al presidente
Usa.
Ferrara, ma lei se lo vede Berlusconi che va da Obama e gli dice: adesso basta, o affronti seriamente la
guerra o noi non ci stiamo più.
"Messa così fa un po' ridere. Però, perché no? Il governo in politica
estera e militare ha una certa credibilità, ad esempio nella diplomazia con
Israele. Berlusconi racconta barzellette che non
dovrebbe raccontare, ma è indubbio che possa e debba affrontare con gli alleati
la questione".
Ha discusso di questa sua posizione con qualcuno nell'esecutivo?
"No, è nata nel mio studio ed è il frutto di una certa incazzatura.
Perché i soldati muoiono e a uno dispiace. Dunque se fossi Berlusconi
ne vorrei parlare a fondo. Perché la guerra è una cosa schifosa. O è illuminata
dal suo scopo o è solo brutalità".
Il presupposto da cui lei muove è che Obama non ha
molta voglia di farla. Eppure ha concesso più soldati ai generali, ha messo Petraeus, e ha detto che vuole vincere.
"Tecnicamente è vero. Ha fatto tutto questo e ha fatto anche stragi di
civili che se le avesse fatte Bush sarebbe stato
messo sotto accusa nei tribunali del moralismo. Ma ha tolto alla guerra la
carica identitaria. Col discorso del Cairo, col multilateralismo e il soft power ha depotenziato la
strategia in Afghanistan. E anche in Iraq avremo delle cattive sorprese per il
modo in cui ci siamo ritirati".
Era diverso morire per Bush?
"Sì. Perché aveva una visione chiara che gli avevano costruito gli
intellettuali neocon. È andato nel cuore del mondo
arabo con un progetto: national building, elezioni,
senza portare via una goccia di petrolio".
Ma la guerra in Afghanistan si può vincere?
"No. Neanche quella in Iraq in un certo senso. Trattandosi di una faglia
di civiltà che è smottata si può al massimo rafforzare la capacità di colpire e
insieme di parlare a questo mondo".
In Iraq forse era più semplice perché è stata la gente a ribellarsi ad Al Qaeda, in Afghanistan i talebani
sono una parte della società dunque sono più difficili da combattere.
"No. Questo mi sembra un po' un mito postcoloniale
al pari di quello per il quale la democrazia non è esportabile. La guerra è un
confronto di valori. Per Bush l'Afghanistan era un
accampamento, Obama l'ha trasformato in un fronte di
guerra. Ma allora la devi fare 'sta guerra, non puoi essere riluttante".
Sull'ipocrisia della missione di pace campiamo anche noi italiani fin dal 2001.
"La storia della missione di pace è ridicola".
E allora cosa dovrebbe dire il governo agli italiani?
"Dovrebbe dire: voi siete preoccupati per sicurezza immigrazione,
economia, globalizzazione. Tutte queste cose le
possiamo affrontare solo se viene colpito al cuore un progetto che si chiama
islamismo politico ed è contro di noi e i nostri valori. È una battaglia
frontale. O vincono loro o vinciamo noi".
Per fare la guerra dovremmo cambiare l'articolo 11 della Costituzione.
"I nostri in Afghanistan già combattono e in un modo molto serio".
All'interno del governo c'è qualcuno, vedi
"Fra i sondaggi e la guerra c'è sempre un rapporto malato. Se per fare la
guerra si ascolta l'opinione pubblica è la fine della politica".
La sinistra è più possibilista circa la missione rispetto al passato.
"Mi sembra il segno di una maturazione politica che non usino frasi fatte
e non si dica per forza che tutte le guerre sono sbagliate".
Lei stesso non vede ora il senso di questa guerra. Come darglielo?
"Intanto smettendola di calendarizzare il
ritiro. Perché questo rafforza i talebani. E poi
aprendo una vertenza tra alleati in cui ci si dica chiaramente qual è la
prospettiva".
Cosa succederà invece?
"Continuerà questo odioso tran-tran e avremo altri morti senza senso. Lo
scenario peggiore in assoluto".
Ora il problema è come uscirne
colloquio con
Arturo Parisi di Gigi Riva
La situazione
in Afghanistan analizzata dall'ex ministro della Difesa
"È
meglio riconoscere che siamo in un guaio e ragionare su come uscirne".
Arturo Parisi, Pd, già ministro
della Difesa, riconosce che, come prima cosa, bisogna dire la verità agli
italiani.
Quale verità?
"Che la situazione in Afghanistan è sempre più difficile. Quest'anno il numero dei caduti della forza internazionale
è già ad oggi il massimo registrato dall'inizio della missione. Se aggiungiamo
i nostri morti civili, cioè gli afghani che non siamo
riusciti a proteggere dai talebani o, peggio ancora,
quelli uccisi da mano amica, la situazione appare disastrosa".
E conferma che questa non è mai stata una missione di pace.
"Quando ero ministro provai inutilmente a definirla come una
"missione militare per la pace". Nell'accezione comune,
"missione di pace" era allora come oggi troppo lontana dai fatti. È
vero che tra parole e fatti c'è sempre una distanza. Ma ho idea che in questo
caso si stia superando il livello di guardia. Bisogna ristabilire al piú presto un principio di verità".
Poi bisogna uscire dal guaio. Come?
"Non possiamo disinteressarci della sorte dei nostri militari. Siamo noi
che li abbiamo portati lì, e noi dobbiamo farci carico della loro
sicurezza".
Portandoli a casa?
"Assumendo impegni che siamo in grado di mantenere, sapendo tuttavia che
possiamo permetterci tutto fuorché una fuga. Siamo lì guidati da una
solidarietà di alleanza. Anche in presenza di comportamenti dell'alleato che
non ci convincono abbiamo il dovere dell'amicizia. Che significa stargli vicino
ma anche dirgli come la pensiamo. Se la conduzione della missione si va facendo
sempre più americana è anche colpa nostra".
Meglio programmare il rientro, dunque, come hanno detto sia Frattini
che
"Prospettare date sganciate dagli obiettivi mi sembra come minimo
imprudente se non controproducente. Non possiamo immaginare un rientro senza
farci carico di quello che succederebbe il giorno dopo".
La Russa vorrebbe le bombe sugli aerei.
"Ho sentito che vuole assumere questa decisione in Parlamento. Ottimo. Ma
il Parlamento discute soprattutto di fini e di obiettivi, sui mezzi per
raggiungerli è meglio che si esprimano gli esperti. Non vorrei un dibattito da
bar sport".
Armare gli aerei significa entrare in contrasto con l'articolo 11 della
Costituzione.
"Che ci pone dei vincoli strettissimi. Per questo chiamiamo missione di
pace ciò che altri, sullo stesso terreno, chiamano guerra".
In Afghanistan si può vincere?
"Se è una guerra è persa in partenza. Se è una guerra americana ancora di
più".
L'incubo di Teheran
L'Italia ha
il compito di vigilare su una delle frontiere più calde del pianeta, quella
dove si confrontano a distanza forze della Nato e Iran. I rapporti
dell'intelligence americana sono zeppi di riferimento alle attività di Teheran nella regione di Herat.
Ci sono episodi concreti: quattro cittadini iraniani fermati dalle guardie di
frontiera afghane con un'auto carica di armi ed
esplosivo. E decine di files su sequestri di
munizioni, razzi e mine prodotte nella confinante Repubblica degli ayatollah.
A guardare dal flusso di notizie confidenziali, l'attività iraniana raggiunge
il massino tra il 2007 e il 2008, quando i rapporti
con l'amministrazione Bush sfiorano la guerra, e poi
si attenua gradualmente.
A Herat nel luglio 2007 un rapporto descrive la
sorveglianza su un ragazza diciottenne che sta imparando a guidare. Un
dettaglio insolito: le donne non sono spesso al volante e questa giovane viene
dall'Iran. Secondo gli agenti occidentali in realtà è una kamikaze, destinata a
colpire con un'autobomba i convogli italiani o americani nel capoluogo.
Il 27 settembre 2008 vine segnalata la presenza di
sette arabi e quattro iraniani che si sono uniti al gruppo Gholam
Yahya Akbary. "Si
ritiene che i sette arabi siano legati al gruppo di Al Mansour,
uno dei vice di Bin Landen
e vogliano condurre attacchi suicidi contro americani ed italiani". Gli
uomini di Teheran invece sarebbero una cellula
dell'intelligence dei pasdaran, che vuole raccoglie
informazioni e coordinare le operazioni sul campo delle squadre di Al Qaeda. Gli analisti statunitensi temono che gli assalti
scattino uno-due giorni dopo la fine delle festivitò e temono la falsa propaganda iraniana su azioni
di autobombe anche contro le moschee.
Il tesoro sparito a Kabul
Ma i soldi
dove sono finiti? Uno dei problemi che affligge l'Afghanistan è la difficoltà
nel trasformare le sovvenzioni per la ricostruzione in opere concrete. Gran
parte dei fondi infatti si fermano a Kabul e scompaiono nei meandri dei
ministeri, dove i dignitati del governo Karzai vengono spesso accusati di corruzione. I file di Wikileaks contengono il verbale di una riunione condotta al
ministero delle Finanze per discutere sulle sorti di una strada che dovrà unire
Herat, la capitale del distretto affidato agli
italiani, e Dowshi. Un'arteria fondamentale perché
"attraversa una delle zone più povere del paese". Un rappresentante dell'alto
comando Nato sollecita la realizzazione dell'opera: in particolare la reputa
importante per scacciare i talebani dall'area di Ghor. Spiega che il governatore locale ha sollecitato le
autorità Usa a stanziare i fondi e far partire il cantiere. "Se avete
bisogno di denaro potere rivolgervi all'Italia e al Giappone, anche
Gli americani - stando a quanto riporta il dossier - sono soddisfatti della
riunione. Ma concludono che bisogna tenere gli occhi aperti e vigilare su
quanti soldi vengono realmente investiti per le strade ed è necessario che le
arterie non vengano costruite altrove. Perché le opere deviate sono frequenti
in Afghanistan: i fondi non finanziano i cantieri utili ma quelli sorti nei
territori dei dignitari più vicini al governo. E in questo la cronaca da Kabul
somiglia moltissimo alle storia delle cricche italiane.