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Numero 42 anno 2010

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ESCLUSIVO
I DOSSIER DELL'INTELLIGENCE USA

La guerra nascosta

di Gianluca DI Feo e Stefania Maurizi

Combattimenti tenuti segreti. Battaglie tra le case con vittime civili. Decine di soldati feriti senza che se ne sappia nulla. E poi centinaia di talebani uccisi. I tradimenti delle forze di Kabul. Le azioni coperte dei nostri 007. Ecco il vero volto della missione italiana in Afghanistan descritto nei rapporti riservati, e sinora inediti, raccolti dal sito di controinformazione Wikileaks

 

Molti leader talebani nel distretto di Farah vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei "veicoli neri" della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani e delle forze occidentali. Il capo dell'intelligence locale ritiene che questo terrore nasca dalle perdite che la Folgore ha inflitto ai miliziani nelle ultime operazioni".
Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan. Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e uccidono centinaia di guerriglieri. Una sterminata serie di scontri, con raid dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani, con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche dall'Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul. Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali, incassando spesso i razzi dei talebani.
"L'espresso" è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra segreta degli italiani grazie ai nuovi documenti concessi da Wikileaks: l'organizzazione creata da Julian Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde sul Web. Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell'intelligence americana non ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi misteriosi. Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro governo e trasferito a Roma. Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle loro Task Force, Center, North, South, TF45: resoconti in codice che raccontano l'orrore di battaglie e spesso anche la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili negli scontri.
Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31 dicembre 2009: "L'espresso" si è concentrato sulle informazioni dello scorso anno, quando rinforzi e nuove regole d'ingaggio hanno provocato l'escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore.
BATTAGLIE TACIUTE Tra maggio e dicembre la Folgore ha cambiato il volto della presenza italiana in Afghanistan. I parà, sostenuti da elicotteri da combattimento Mangusta e dai blindati dei bersaglieri, sono andati alla caccia dei talebani per riprendere il controllo di territori sperduti. E, altra differenza, hanno cominciato ad operare fianco a fianco con gli americani, oltre che con le truppe afghane. I files segnalano oltre 200 scontri in cui sono stati coinvolti i nostri soldati, ma è una raccolta parziale che contiene solo le notizie trasmesse agli Usa.
Uno dei combattimenti più discussi avviene il 31 maggio 2009 intorno alla base Colombus. Siamo a Bala Murghab sulla frontiera occidentale, il settore strategico per esportare l'oppio che finanzia i talebani. Un confine invisibile: i files segnalano inseguimenti che proseguono nel territorio turkmeno. Poco prima del tramonto, sulle postazioni italiane e su quelle degli alleati afghani cominciano a piovere razzi. I parà rispondono anche con i mortai pesanti da 120 millimetri, quattro granate potenti come cannonate. Poi arriva una coppia di elicotteri Mangusta, che spara almeno un missile Tow "neutralizzando gli avversari". Il primo rapporto del comando italiano sostiene che siano stati uccisi 25 guerriglieri: 20 dai mortai e cinque dal missile. Ma il dossier viene corretto nove giorni dopo: ci sarebbe anche un civile ucciso e due feriti. "Non si sa chi li abbia colpiti. Un'indagine è in corso". Non si può escludere quindi che siano vittime dei talebani.
La base Columbus nel maggio 2009 viene attaccata quasi tutti i giorni. Uno degli assalti meglio organizzati è all'alba del 9, con più gruppi di guerriglieri che massacrano un plotone di soldati afghani mentre razzi piovono sulle postazioni italiane. I parà escono dal fortino per soccorrere gli alleati, ma vengono aggrediti alle spalle. A quel punto i mortai pesanti aprono il fuoco. Si spara per oltre tre ore. Alla fine il bilancio è drammatico: 11 soldati afghani morti, 12 finiti nelle mani dei fondamentalisti, un civile ucciso e uno ferito, tre italiani colpiti in modo non grave. Si stima che 20 talebani siano stati ammazzati e dieci feriti, ma nessuno può confermarlo: queste vittime vengono catalogate con una formula di incertezza. Due giorni dopo un uomo e un ragazzo feriti da proiettili si presentano alla base in cerca di cure: un elicottero italiano li trasporta in ospedale.
I LIMITI DELL'AUTODIFESA Come accade in tutti gli eserciti del mondo, le forze Nato in Afghanistan si comportano in modo molto più determinato quando bisogna salvare commilitoni sotto attacco. L'apocalisse nella zona controllata dall'Italia è l'11 giugno. Una squadra di americani e afghani finisce in trappola nelle viuzze di un villaggio. Una ventina di loro vengono feriti in pochi minuti, anche l'elicottero che li soccorre incassa un razzo. A quel punto si scatena un diluvio di fuoco "in una zona densamente popolata": viene usato tutto l'arsenale statunitense, razzi al fosforo bianco, dieci bombe, 2.300 proiettili da 30 millimetri. Infine l'ordigno più grande: la Bunkerbuster da 2 mila libbre che spazza via un edificio dove i talebani si erano barricati. Nel combattimento muoiono sei americani e 19 afghani. Nessuna informazione sulle vittime civili. Gli italiani partecipano solo ai soccorsi. Ma come fanno poi i civili a distinguere tra noi che amministriamo il territorio con grande rispetto per la popolazione e chi bombarda? Le divise sono pressoché identiche e i reparti vanno in azione sempre più spesso insieme.
DUE MESI DI FUOCO Per rendersi conto di quello che fanno le truppe mandate in Afghanistan per volontà bipartisan del Parlamento basta esaminare i files relativi a due soli mesi. Un campione impressionante della situazione, nonostante si tratti di rapporti parziali. Partiamo dal 16 giugno 2009. La Task Force Lince finisce sotto attacco, risponde usando anche mortai leggeri: si ritiene che i talebani uccisi siano sei. Il 20 nuova sparatoria, tre giorni dopo un blindato finisce su una mina, ma l'equipaggio se la cava. Il 25 una pattuglia combatte a sud, verso il confine iraniano. Il 27 a nord verso Bala Murghab un lungo scontro: cinque guerriglieri uccisi. Quasi contemporaneamente a sud si spara per ore per salvare un convoglio di camion americani. Una colonna italiana interviene, ma viene bloccata dalle pallottole. Dal cielo arriva una coppia di elicotteri, si ritiene Mangusta, che spara 20 colpi da 20 millimetri. A dirigere il tiro è un commando italiano, nome in codice Bardo 5. Si stima che sei aggressori restino sul campo. Poche ore dopo un'altra squadra della Folgore viene centrata: salta in aria un Lince, ma c'è solo un ferito leggero. Il 28 fuoco con mitragliere e mortai: un nemico ucciso. Il giorno dopo bomba contro un convoglio logistico: un italiano ferito e un mezzo danneggiato. Il 30 all'alba razzi contro la base Tobruk, che risponde con i mortai da 120, e poco più tardi ancora un raid per aiutare poliziotti afghani in difficoltà.
Il 2 luglio uno scontro confuso. Ci sono agenti "amici" intrappolati in un edificio. Parà italiani e soldati afghani intervengono, ma sembra che i poliziotti gli sparino contro. Arrivano due elicotteri Mangusta che non risparmiano munizioni: 424 proiettili con il cannoncino e un missile. Nessuna valutazione delle vittime. Il giorno dopo a sud un kamikaze su una moto si lancia contro un blindato italiano: il mezzo si rovescia, due soldati restano feriti. Il 4 all'alba c'è una scaramuccia intorno a un ospedale. Poi nella luce del tramonto i talebani attaccano la cittadella di Herat, dove c'è il comando e vivono quasi 2 mila militari italiani: tirano sette razzi. Due Mangusta decollano e danno la caccia agli incursori, sparando raffiche d'avvertimento. L'indomani una colonna viene bersagliata, ma quando arrivano i caccia americani i miliziani scappano. Il 7 attacco con ordigno e reazione contro gli attentatori in fuga: uno ucciso, uno ferito e uno catturato. Il 9 una pattuglia nei guai risolve la situazione a colpi di mortaio. Il 12 razzi contro le basi Tobruk e Tarquinia. Il 14 a Farah una bomba capovolge un Lince: il mitragliere Alessandro Di Lisio muore, altri due parà all'interno vengono feriti in modo leggero. Il 15 cercano di lanciare un missile contro l'aeroporto di Herat. Il 20 razzi contro la base Tobruk: colpiscono anche una casa, un civile morto e tre feriti. Il giorno dopo a Bala Murghab due bambini finiscono su un ordigno destinato ai parà: uno muore, l'altro viene ferito.
Il nostro mese di fuoco si chiude con una giornata di sangue. Il 25 luglio un autobomba a sud esplode al passaggio di una colonna italiana: il Lince salva la vita di quattro soldati, che riportano solo ferite. Nelle stesse ore a Bala Baluk una compagnia in ricognizione cade sotto il tiro incrociato di razzi, mortai e mitragliatrici. C'è un ferito. Dalla base partono i rinforzi. Ma i talebani sono bene appostati, sparano da case abitate e bloccano la ritirata. I parà rispondono anche con mortai. Arrivano i Mangusta che lanciano un missile "in campo aperto", poi usano il cannone: 210 proiettili contro una casa. C'è pure un bombardiere americano, ma non gli viene permesso di sganciare: si rischiano vittime civili. Anche una compagnia di rinforzi afghani finisce sotto tiro. Nuova battaglia, i reparti si uniscono e si aprono la strada sparando tra le abitazioni fino al fortino. Recita il rapporto: "Il fuoco è stato richiesto per autodifesa, al fine di permettere all'unità di uscire dalla trappola. Non sono stati visti civili dentro o intorno i luoghi da cui proveniva il fuoco nemico". La prima stima è di 45 guerriglieri uccisi "ma non è stato possibile verificarlo perché le case erano presidiate dai talebani". Il bilancio finale è di 25 morti, confermato dalle nostre fonti di intelligence.
CANNONIERE VOLANTI I Mangusta sono attivissimi. Vengono invocati in continuazione: volano a bassa quota, si ritiene che possano mirare con precisione, limitando i danni collaterali. A leggere i rapporti, non si capisce perché il ministro Ignazio La Russa ponga la questione delle bombe sugli aerei: basterebbe aumentare il numero degli elicotteri, che hanno missili filoguidati e cannoni a tiro rapido. E che spesso - come indica il gergo Nato - "go kinetic" ossia fanno fuoco a volontà. Anche gli americani li invocano. Come quando il 16 agosto una squadra statunitense viene imbottigliata nel villaggio di Siah Vashan. I velivoli italiani gli permettono di fuggire con 400 colpi "in un campo aperto".
I talebani cercano in tutti i modi di abbatterli. Il 26 maggio 2008 uno dei nostri elicotteri riceve anche l'allarme laser: il segnale che un missile nemico lo ha inquadrato. Almeno due Mangusta e un Agusta della Marina vengono colpiti da pallottole. Il 9 luglio 2009 i talebani organizzano un agguato su vasta scala. Una mina esplode al passaggio di un convoglio italo-spagnolo: ci sono 4 feriti gravi feriti. Dopo venti minuti arrivano due eliambulanze spagnole e scatta l'imboscata: cecchini sparano dai tetti, altri sono nascosti tra gli alberi. I soccorritori volano via e sulla scena irrompono due Mangusta che "la ripuliscono dagli insorti" a cannonate. Il 18 agosto 2009 i miliziani gli lanciano contro due razzi che esplodono a pochi metri. Poco ore più tardi un'altra coppia di Mangusta soccorre una squadra italo-afghana: appena gli "insorti" li sentono, scappano. Il giorno dopo stesso servizio per liberare una compagnia statunitense. Il 3 settembre i commandos spagnoli sono in difficoltà vicino al Sabzak Pass. Due coppie di Mangusta si alternano per coprirli con raffiche intense: gli vengono attribuiti 19 nemici uccisi e otto feriti.
MA C'È CHI CI AIUTA In diverse occasioni è la popolazione a segnalare agli italiani i pericoli, segno che riusciamo a farci stimare. In un paesino i bambini, normalmente festosi, rifiutano le bottiglie d'acqua offerte dai nostri fanti. I soldati all'inizio sono sorpresi, poi capiscono e danno l'allarme: "Gli insorti ci stanno sorvegliando, possibile presenza nemica nelle abitazioni". Il 23 settembre 2009 una squadra sta percorrendo la strada alle porte del villaggio di Parmakan. Un civile li ferma: "Attenti è pieno di talebani". Ma è troppo tardi. I guerriglieri sono ben piazzati, aprono il fuoco da due diverse posizioni con razzi, mitragliatrici e mortai. C'è un parà ferito in modo grave, gli altri sparano senza sosta. Arrivano due caccia, ma ci sono troppe case per bombardare: sganciano solo scie luminose, che convincono i fondamentalisti a fuggire, lasciandosi alle spalle quattro morti e otto feriti. Ci vuole poco però a perdere il consenso della gente. Quattro giorni dopo americani e commandos afghani cadono in un'imboscata nelle vie di un villaggio. Ci sono cecchini sui tetti, altri tra le case. Poi arrivano gli aerei. I caccia vanno in picchiata con migliaia di colpi da 30 millimetri, due bombe, un razzo al fosforo bianco. Il rapporto indica che "tutte le coordinate colpite sono un'area abitata". Sembra che il governatore e il comando italiano vengano tenuti all'oscuro del volume di fuoco. E all'indomani nei due ospedali di Farah e Balah Baluk si presentano molti civili feriti.
NATALE DI BOMBE La Folgore ha una singolare fantasia nello scegliere i nomi delle operazioni. Quando arriva in Afghanistan lancia l'operazione "Buongiorno", per far capire ai talebani che il clima è cambiato. Poi scatta "Bestia feroce" e con l'avvicinarsi del Natale ecco "Guastafeste". Ma il pomeriggio del 25 dicembre i talebani festeggiano a modo loro: attaccano una pattuglia Usa in un borgo non lontano dal fortino di Bala Baluk. Si muove la compagnia Cobra delle nostre forze speciali: 39 soldati e dieci Lince, in due colonne. I talebani li bloccano. Loro rispondono con 4 mila proiettili. Ma non basta. Dalla base tirano con i mortai da 120. Poi arrivano gli aerei: due bombe e tutti rientrano incolumi nell'avamposto per cena.
Due giorni dopo si combatte ancora nello stesso villaggio, i talebani sparano da tre case. I jet sganciano due bombe su una postazione fuori dal paese, ma viene proibito l'attacco sulle abitazioni. Il raid sembra avere riportato la quiete e comincia il rastrellamento. I Cobra si appostano, gli americani entrano nel paese. Ma dai tetti rispuntano i cecchini talebani. Volano raffiche e razzi. Ed ecco di nuovo gli stormi americani: quattro bombe vengono dirette sugli obiettivi. Quattro le case sbriciolate: si stima che 25 guerriglieri siano morti, ma controllare è troppo pericoloso. Il giorno dopo due bambini feriti si presentano al cancello della base: dicono che la madre è stata ammazzata. Raccontano una storia agghiacciante: la loro famiglia è stata tenuta in ostaggio dai talebani. Il rapporto è laconico: "Si ritiene che la bomba sganciata contro la casa confinante l'abbia uccisa".
CHI CI SPARA CONTRO I resoconti dell'intelligence americana mostrano la sfiducia nei confronti delle forze afghane, spesso addestrate dagli italiani. La diffidenza massima è nei confronti della polizia locale. A Herat, nel capoluogo della regione dove sventola il tricolore, sono ancora più espliciti: "La maggior parte della polizia afghana non può essere giudicata affidabile, perché molti dei poliziotti lasciano i loro posti e spesso si arruolano nelle fila dei talebani. Molti lo fanno perché non vengono pagati. Non è chiaro dove vanno a finire i soldi destinati agli stipendi". Gli agenti arrotondano con i sequestri di persona, a danno di possidenti, un business molto proficuo: "Si pensa che rapitori ed alti ufficiali della polizia siano d'accordo".
Il vicegovernatore di un'area nel nostro distretto si vanta di "avere un fratello nei talebani". Molto spesso sulle informative degli 007 è scritto in evidenza: "Queste notizie non devono essere condivise con il governo di Kabul e la polizia". L'episodio più grave è avvenuto il 29 dicembre nella base Columbus. Un soldato afghano ha fatto fuoco sui suoi alleati occidentali, uccidendo un americano e ferendo due italiani. Pare che l'obiettivo fosse un elicottero appena atterrato. Il 21 dicembre, dopo una lite, scoppia una battaglia davanti all'ingresso principale della cittadella di Herat, comando di tutte le nostre truppe: poliziotti afghani contro soldati afghani. La stessa scena si ripete cinque giorni dopo su un ponte. Spesso gli afghani sparano senza motivo: una pattuglia di bersaglieri descrive come abbiano distrutto un negozio in un villaggio alle porte di Bala Murghab. Persino quattro uomini assoldati per la sicurezza dell'ambasciata di Kabul vengono indicati come complici dei talebani e rimossi. E c'è il sospetto che l'attentato in cui è stato ammazzato un artificiere italiano sia stato organizzato con la complicità di poliziotti. Molti di loro però pagano con la vita il sostegno agli occidentali: due agenti vengono decapitati a Chin. A un altro ufficiale uccidono la figlia e feriscono la moglie. Il 3 giugno i parà italiani scoprono un camion con i corpi di 12 civili, rapiti e assassinati perché lavoravano per gli americani.
I BAMBINI PERDUTI Le informative occidentali e anche quelle italiane evidenziano come i talebani puntino a usare i bambini per i loro piani criminali. Viene descritto l'addestramento di dodicenni, destinati a diventare kamikaze alla guida di autobombe. Ci sono progetti dettagliati per stroncare la campagna di scolarizzazione laica e spingere i piccoli verso le madrasse, le scuole religiose che formano i quadri talebani. Temono il successo delle aule costruite dagli italiani: studiano come avvelenare il cibo donato dagli occidentali ai centri di istruzione e di infiltrare fondamentalisti tra gli insegnanti selezionati dal governo di Kabul. Nelle informative si parla anche di gas e sostanze chimiche per mettere a segno attentati clamorosi contro i fiancheggiatori della Nato. Ci sono stati anche sospetti sull'incendio che ha distrutto l'accampamento della Task Force 45, l'unità speciale di commandos italiani, a Farah: le fiamme hanno fatto esplodere la scorta di munizioni e una granata ha centrato un elicottero americano parcheggiato nelle vicinanze. Ma alla fine la causa è stata individuata in un difetto del gruppo elettrogeno.
L'INTELLIGENCE I files di Wikileaks mostrano un grande attivismo dei nostri servizi segreti, sul campo e nei Paesi chiave per conoscere le mosse dei talebani. Nel 2009 il comando italiano ha ricevuto 255 rapporti su minacce di attentati e movimenti dei guerriglieri. Gli americani sembrano diffidare di molte delle nostre fonti e selezionano questi dossier, dandogli gradi di affidabilità limitati. E sul campo accadono episodi molto oscuri. Un nostro ufficiale alla guida di una colonna spara contro un agente dei servizi segreti di Kabul. Pare che gli 007 di Karzai avessero bloccato una nostra missione sul campo: dopo la sparatoria arrestano tutti gli italiani, rilasciandoli dopo alcuni giorni. Ancora più enigmatica è la consegna al governo di Roma di un prigioniero custodito dagli americani: dovrebbe trattarsi di un terrorista straniero. Lo scambio avviene il 20 dicembre 2009 all'aeroporto di Bagram e l'uomo prende il volo con un Hercules dell'Aeronautica. Chi è? Perché interessava tanto alle nostre autorità? Nel documento ci sono solo codici cifrati, e niente nomi.
Tra tanti files confidenziali, uno è particolarmente suggestivo: ha il titolo "Berlusconi" e racconta la nascita di una protesta popolare anti-americana e anti-Karzai in un distretto del Nord, affidato ai tedeschi, in sostegno del generale Dostum, leggendario signore della guerra. Il dossier fa riferimento a informazioni di un documento del febbraio 2008 con il nome del premier, che in quei giorni era impegnato nella campagna elettorale. Perché chiamarlo proprio con il nome del Cavaliere? L'ultimo mistero di una guerra tenuta nascosta agli italiani, una missione dove la pace è un ricordo remoto. E dove ogni giorno quasi quattromila militari combattono e rischiano la vita per portare a termine il compito che gli è stata assegnato da governo e parlamento. n

 

Wikileaks, il nemico del Pentagono

 

L'ultimo appuntamento è in una grande capitale europea. Al buio, come tutti i contatti lanciati dai suoi ragazzi. Dopo la pubblicazione del primo database di documenti segreti sottratti al Pentagono, Wikileaks è diventato il pericolo pubblico numero uno delle autorità statunitensi. E il fondatore, Julian Assange, una sorta di leggenda, idolatrata e odiata: il capo dei pirati informatici che hanno beffato la più grande potenza mondiale o l'uomo che mette a rischio la sicurezza internazionale.
Dopo il clamore per la fuga di notizie più massiccia mai avvenuta, che ha messo a nudo tutti i lati oscuri della guerra condotta in Afghanistan dalla Nato, Assange si è inabissato. Poi la vicenda oscura delle accuse di stupro, lanciate contro di lui da due ragazze svedesi, immediatamente confermate dai magistrati di Stoccolma e smentite dagli stessi neppure ventiquattr'ore dopo. Il tempo di una veloce autodifesa in pubblico ed è scomparso.
Alla fine "L'espresso" è riuscito a incontrare l'uomo che la Cia e l'Nsa vorrebbero torchiare. "Ecco il mio bagaglio", dice, mostrando una bustina di plastica trasparente, che contiene solo una t-shirt e quattro flaconcini di sapone: è tutto quello che gli hanno consegnato all'aeroporto di arrivo, perché, racconta, la sua valigia si è smarrita. "Strano che si sia persa", commenta: "Per venire qui ho preso un volo diretto". Poi apre una borsa a tracolla e tira fuori l'armamentario su cui tutte le agenzie d'intelligence del mondo vorrebbero mettere le mani: un computer Mac e una valigetta minuscola da cui estrae foglietti di carta tipo pizzini
La sua arma segreta è quella. "Questo computer invece sta sempre con me, non può sparire". Poi si infila le mani nel maglione a collo alto e tira fuori una chiavetta Usb fissata a un cordoncino. "Anche questa sta sempre con me". Un sorriso fugace e si rabbuia di nuovo: "Forse nella valigia vogliono metterci qualcosa?", commenta, "una microspia o materiale pedopornografico?". Eccolo Julian Assange: si materializza lui e, fedele come la sua ombra, si materializza la paranoia. Stefania Maurizi

 

Ecco perché è meglio tornare a casa

colloquio con Giuliano Ferrara di Gigi Riva

Dal riluttante Obama alla missione di pace. Parla l'ex ministro di Berlusconi

 

"In queste condizioni, col comandante in capo Barack Obama che è un soldato riluttante meglio tornare a casa". A Giuliano Ferrara, 58 anni, direttore del "Foglio", non piace come è condotta la guerra in Afghanistan. O la si fa seriamente o è meglio lasciar stare. E il nostro governo farebbe bene a dirlo al presidente Usa.
Ferrara, ma lei se lo vede Berlusconi che va da Obama e gli dice: adesso basta, o affronti seriamente la guerra o noi non ci stiamo più.
"Messa così fa un po' ridere. Però, perché no? Il governo in politica estera e militare ha una certa credibilità, ad esempio nella diplomazia con Israele. Berlusconi racconta barzellette che non dovrebbe raccontare, ma è indubbio che possa e debba affrontare con gli alleati la questione".
Ha discusso di questa sua posizione con qualcuno nell'esecutivo?
"No, è nata nel mio studio ed è il frutto di una certa incazzatura. Perché i soldati muoiono e a uno dispiace. Dunque se fossi Berlusconi ne vorrei parlare a fondo. Perché la guerra è una cosa schifosa. O è illuminata dal suo scopo o è solo brutalità".
Il presupposto da cui lei muove è che Obama non ha molta voglia di farla. Eppure ha concesso più soldati ai generali, ha messo Petraeus, e ha detto che vuole vincere.
"Tecnicamente è vero. Ha fatto tutto questo e ha fatto anche stragi di civili che se le avesse fatte Bush sarebbe stato messo sotto accusa nei tribunali del moralismo. Ma ha tolto alla guerra la carica identitaria. Col discorso del Cairo, col multilateralismo e il soft power ha depotenziato la strategia in Afghanistan. E anche in Iraq avremo delle cattive sorprese per il modo in cui ci siamo ritirati".
Era diverso morire per Bush?
"Sì. Perché aveva una visione chiara che gli avevano costruito gli intellettuali neocon. È andato nel cuore del mondo arabo con un progetto: national building, elezioni, senza portare via una goccia di petrolio".
Ma la guerra in Afghanistan si può vincere?
"No. Neanche quella in Iraq in un certo senso. Trattandosi di una faglia di civiltà che è smottata si può al massimo rafforzare la capacità di colpire e insieme di parlare a questo mondo".
In Iraq forse era più semplice perché è stata la gente a ribellarsi ad Al Qaeda, in Afghanistan i talebani sono una parte della società dunque sono più difficili da combattere.
"No. Questo mi sembra un po' un mito postcoloniale al pari di quello per il quale la democrazia non è esportabile. La guerra è un confronto di valori. Per Bush l'Afghanistan era un accampamento, Obama l'ha trasformato in un fronte di guerra. Ma allora la devi fare 'sta guerra, non puoi essere riluttante".
Sull'ipocrisia della missione di pace campiamo anche noi italiani fin dal 2001.
"La storia della missione di pace è ridicola".
E allora cosa dovrebbe dire il governo agli italiani?
"Dovrebbe dire: voi siete preoccupati per sicurezza immigrazione, economia, globalizzazione. Tutte queste cose le possiamo affrontare solo se viene colpito al cuore un progetto che si chiama islamismo politico ed è contro di noi e i nostri valori. È una battaglia frontale. O vincono loro o vinciamo noi".
Per fare la guerra dovremmo cambiare l'articolo 11 della Costituzione.
"I nostri in Afghanistan già combattono e in un modo molto serio".
All'interno del governo c'è qualcuno, vedi la Lega, che vorrebbe portare i soldati a casa. Per non dire dell'opinione pubblica.
"Fra i sondaggi e la guerra c'è sempre un rapporto malato. Se per fare la guerra si ascolta l'opinione pubblica è la fine della politica".
La sinistra è più possibilista circa la missione rispetto al passato.
"Mi sembra il segno di una maturazione politica che non usino frasi fatte e non si dica per forza che tutte le guerre sono sbagliate".
Lei stesso non vede ora il senso di questa guerra. Come darglielo?
"Intanto smettendola di calendarizzare il ritiro. Perché questo rafforza i talebani. E poi aprendo una vertenza tra alleati in cui ci si dica chiaramente qual è la prospettiva".
Cosa succederà invece?
"Continuerà questo odioso tran-tran e avremo altri morti senza senso. Lo scenario peggiore in assoluto".

 

Ora il problema è come uscirne

colloquio con Arturo Parisi di Gigi Riva

La situazione in Afghanistan analizzata dall'ex ministro della Difesa

 

"È meglio riconoscere che siamo in un guaio e ragionare su come uscirne". Arturo Parisi, Pd, già ministro della Difesa, riconosce che, come prima cosa, bisogna dire la verità agli italiani.
Quale verità?
"Che la situazione in Afghanistan è sempre più difficile. Quest'anno il numero dei caduti della forza internazionale è già ad oggi il massimo registrato dall'inizio della missione. Se aggiungiamo i nostri morti civili, cioè gli afghani che non siamo riusciti a proteggere dai talebani o, peggio ancora, quelli uccisi da mano amica, la situazione appare disastrosa".
E conferma che questa non è mai stata una missione di pace.
"Quando ero ministro provai inutilmente a definirla come una "missione militare per la pace". Nell'accezione comune, "missione di pace" era allora come oggi troppo lontana dai fatti. È vero che tra parole e fatti c'è sempre una distanza. Ma ho idea che in questo caso si stia superando il livello di guardia. Bisogna ristabilire al piú presto un principio di verità".
Poi bisogna uscire dal guaio. Come?
"Non possiamo disinteressarci della sorte dei nostri militari. Siamo noi che li abbiamo portati lì, e noi dobbiamo farci carico della loro sicurezza".
Portandoli a casa?
"Assumendo impegni che siamo in grado di mantenere, sapendo tuttavia che possiamo permetterci tutto fuorché una fuga. Siamo lì guidati da una solidarietà di alleanza. Anche in presenza di comportamenti dell'alleato che non ci convincono abbiamo il dovere dell'amicizia. Che significa stargli vicino ma anche dirgli come la pensiamo. Se la conduzione della missione si va facendo sempre più americana è anche colpa nostra".
Meglio programmare il rientro, dunque, come hanno detto sia Frattini che La Russa?
"Prospettare date sganciate dagli obiettivi mi sembra come minimo imprudente se non controproducente. Non possiamo immaginare un rientro senza farci carico di quello che succederebbe il giorno dopo".
La Russa vorrebbe le bombe sugli aerei.
"Ho sentito che vuole assumere questa decisione in Parlamento. Ottimo. Ma il Parlamento discute soprattutto di fini e di obiettivi, sui mezzi per raggiungerli è meglio che si esprimano gli esperti. Non vorrei un dibattito da bar sport".
Armare gli aerei significa entrare in contrasto con l'articolo 11 della Costituzione.
"Che ci pone dei vincoli strettissimi. Per questo chiamiamo missione di pace ciò che altri, sullo stesso terreno, chiamano guerra".
In Afghanistan si può vincere?
"Se è una guerra è persa in partenza. Se è una guerra americana ancora di più".

 

L'incubo di Teheran

 

L'Italia ha il compito di vigilare su una delle frontiere più calde del pianeta, quella dove si confrontano a distanza forze della Nato e Iran. I rapporti dell'intelligence americana sono zeppi di riferimento alle attività di Teheran nella regione di Herat. Ci sono episodi concreti: quattro cittadini iraniani fermati dalle guardie di frontiera afghane con un'auto carica di armi ed esplosivo. E decine di files su sequestri di munizioni, razzi e mine prodotte nella confinante Repubblica degli ayatollah.
A guardare dal flusso di notizie confidenziali, l'attività iraniana raggiunge il massino tra il 2007 e il 2008, quando i rapporti con l'amministrazione Bush sfiorano la guerra, e poi si attenua gradualmente.
A Herat nel luglio 2007 un rapporto descrive la sorveglianza su un ragazza diciottenne che sta imparando a guidare. Un dettaglio insolito: le donne non sono spesso al volante e questa giovane viene dall'Iran. Secondo gli agenti occidentali in realtà è una kamikaze, destinata a colpire con un'autobomba i convogli italiani o americani nel capoluogo.
Il 27 settembre 2008 vine segnalata la presenza di sette arabi e quattro iraniani che si sono uniti al gruppo Gholam Yahya Akbary. "Si ritiene che i sette arabi siano legati al gruppo di Al Mansour, uno dei vice di Bin Landen e vogliano condurre attacchi suicidi contro americani ed italiani". Gli uomini di Teheran invece sarebbero una cellula dell'intelligence dei pasdaran, che vuole raccoglie informazioni e coordinare le operazioni sul campo delle squadre di Al Qaeda. Gli analisti statunitensi temono che gli assalti scattino uno-due giorni dopo la fine delle festivitò e temono la falsa propaganda iraniana su azioni di autobombe anche contro le moschee.

 

Il tesoro sparito a Kabul

 

Ma i soldi dove sono finiti? Uno dei problemi che affligge l'Afghanistan è la difficoltà nel trasformare le sovvenzioni per la ricostruzione in opere concrete. Gran parte dei fondi infatti si fermano a Kabul e scompaiono nei meandri dei ministeri, dove i dignitati del governo Karzai vengono spesso accusati di corruzione. I file di Wikileaks contengono il verbale di una riunione condotta al ministero delle Finanze per discutere sulle sorti di una strada che dovrà unire Herat, la capitale del distretto affidato agli italiani, e Dowshi. Un'arteria fondamentale perché "attraversa una delle zone più povere del paese". Un rappresentante dell'alto comando Nato sollecita la realizzazione dell'opera: in particolare la reputa importante per scacciare i talebani dall'area di Ghor. Spiega che il governatore locale ha sollecitato le autorità Usa a stanziare i fondi e far partire il cantiere. "Se avete bisogno di denaro potere rivolgervi all'Italia e al Giappone, anche la Corea è interessata a sostenere queste opere". L'Italia poi in quella sede conferma di volere donare i soldi per la strada tra Bamyan e Kabul, attraverso la provincia di Wardak. Ma a quel punto nasce un dibattito su un punto chiave: che fine hanno fatto i fondi già consegnati ai ministri di Kabul lo scorso anno? Il ministero delle Finanze replica: "Lo scorso anno abbiamo stanziato 890 milioni di dollari, il resto servirà per la prossima stagione". Ma solo il 60 per cento delle donazioni occidentali risulta essere stato speso: gli altri quattrini dove stanno? Si tratta di oltre mezzo miliardo di euro. "Sono tornati nelle casse centrali, li spenderemo quando arriverà la primavera", assicurano gli uomini di Karzai.
Gli americani - stando a quanto riporta il dossier - sono soddisfatti della riunione. Ma concludono che bisogna tenere gli occhi aperti e vigilare su quanti soldi vengono realmente investiti per le strade ed è necessario che le arterie non vengano costruite altrove. Perché le opere deviate sono frequenti in Afghanistan: i fondi non finanziano i cantieri utili ma quelli sorti nei territori dei dignitari più vicini al governo. E in questo la cronaca da Kabul somiglia moltissimo alle storia delle cricche italiane.