Storie di Trieste
(EMILIO CAMOZZI 10.07.01)

Eravamo in tre, inseparabili. Nino, ex capodistriano, proveniva dalla divisione Nembo. Era un ufficiale paracadutista di Rizzatti. Una fucina di idee.  Non aveva pace finché non le vedeva realizzate. Paolo, il più giovane dei tre, di notevole stazza, era stato  addetto stampa  alla Decima M.A.S.  e si piccava di essere il beniamino del comandante Valerio Borghese.  Io, ex folgorino, ex 305 P.O.W. mi trovavo bene in simile compagnia. Non é che avessimo molto tempo a nostra disposizione, ma poiché avevo un bar nelle vicinanze del Municipio, e Nino lavorava nella segreteria del Sindaco e non disdegnava ogni tanto un bicchiere di buon vino, era un mio assiduo cliente non pagante. Come fai a far pagare una bottiglia di vino ad un amico!?. Paolo lavorava come corrispondente di un giornale. Il mio bar era piuttosto grande, e lui vi si era trasferito con armi e bagagli per scrivere le sue corrispondenze. Anche il ticchettio della  macchina da scrivere non dava fastidio a nessuno. Nei momenti in cui ci trovavamo tramavamo contro inglesi, slavi e americani e spesso, nei nostri sogni, riuscivamo a sbatterli fuori da Trieste. Il più saggio dei tre ero io, essendo anche il più vecchio  ed avendo alle mie spalle quattro anni di prigionia e qualche combattimento in più. Ed ero anche quello che insisteva perché comunque si facesse qualcosa per far intendere al nemico  che non eravamo completamente alla sua mercé. L'occasione venne. In estate, non ricordo la data, si fa ogni anno sulle rive di Trieste una celebrazione in onore di Nazzario Sauro. Specie in quei tempi, la celebrazione richiamava una folla molto consistente. Qualche giorno prima, mentre parlavamo fra di noi della celebrazione, dissi :"Una festa fatta qui a Trieste lascia il tempo che trova." " Dove vuoi farla, allora?". " Nella sua città natale, a Capodistria.". " A Capodistria!!!???.
"Tu sei matto", affermò Paolo. Ma Nino pensava, pensava. Mi pareva di vedere i pensieri rincorrersi nella sua testa.
Sbottò:" Hai ragione. Ce la facciamo". Nino non era il tipo di usare il dubitativo. Era talmente ottimista che, le ultime parole che mi disse prima di morire furono." Domani andiamo a prenderci una sbornia". E ne era convinto!. Paolo,
il più giovane ma il meno matto di noi tre,tant'é vero che divenne poi comunista, disse che qualunque cosa fosse, lui non ci stava.  Eppure sapeva che se Nino aveva un'idea, non c'era santo di farlo recedere dal portarla  a compimento.
E sapeva anche che se metteva in esecuzione ciò che aveva pensato, nessuno l'avrebbe mollato. Nino ci rassicurò dicendo che l'azione non presentava alcuna difficoltà. Si trattava solo di fare a Capodistria i fuochi d'artificio mentre a Trieste avveniva la cerimonia. Semplice. Solo che non avevamo la minuma idea nè del dove, né del come, né del quando. Decidemmo che il giorno dopo Nino sarebbe partito con un taxì per Capodistria, per eseguire una piccola ricognizione. Nessuno di noi tre aveva l'automobile né la patente. Il taxista era un nostro amico, ed era entrato a far parte di un gruppo che piano piano stava ingrossandosi, così come altri gruppi di estrazione politica o militare differente.Di ritorno dalla ricognizione, Nino era entusiasta, Secondo lui le cose si stavano mettendo nel modo migliore. Come mezzo per trasportare i fuochi artificiali, avremmo usato lo stesso taxì che lo aveva portato a Capodistria. Il sedile anteriore era intero, incernierato, e si poteva alzare. Sotto il taxista ci teneva tutti gli attrezzi necessari alla macchina. Lo spazio aveva un doppio fondo. Sia all'andata che al ritorno i doganieri yugoslavi  e quelli
della nostra parte, avevano ispezionato il vano, ma non si erano accorti di nulla. A Capodistria poi la situazione era ottima. Lungo le rive, una nave aveva scaricato carbone. Una ventina di mucchi alti un paio di metri, si allineavano lungo il mare. Si passava agevolmente tra il mare e il carbone. Il nostro aveva chiesto ad un oste che aveva lo spaccio da quelle parti, il perché di quel carbone e quanto tempo sarebbe rimasto in quella posizione. Non c'era nulla di certo, ma pareva che una piccola nave avesse scaricato a terra il materiale poichè chi lo doveva caricare non era presente e la nave doveva ripartire. Era intervenuta anche la polizia ed aveva sequestrato il carico, che ora era in attesa delle decisioni di un giudice. La nostra cerimonia avrebbe dovuto aver luogo di lì a quattro giorni, quindi  pensavamo di avere a disposizione il tempo necessario per eseguirla.  Se il carbone non ci fosse stato più,avremmo piazzato i fuochi su un'altura appena fuori la città. Preparammo tre  mazzi di dieci fuochi ciascuno uniti fra loro da mezzo metro di miccia rapida . Su ogni inizio di mazzo tre metri di miccia più lenta. Giunse il giorno designato. Io e Paolo partimmo per Capodistria alla mattina con un autocorriera di linea.  Dovevamo tenere d'occhio il posto dell'azione e giudicare se la situazione era favorevole. In caso contrario avremmo mollato. Nino aveva tre figli, io uno e Paolo ci teneva al suo avvenire di giornalista. Avevamo appuntamento nell'osteria che Nino ci aveva indicato.Tutto filava via liscio , al di sopra delle più ottimistiche previsioni. Ogni mezz'ora circa passava un milite armato di sola pistola, dava un'occhiata alla lontana ai mucchi di carbone e se ne andava. Nessuno passeggiava tra il carbone ed il mare. Questa era la cosa che ci preoccupava un pochino, perché noi avremmo dovuto andarci e destare la curiosità di qualche maleintenzionato.
Avevamo occupato un tavolo all'aperto, e ci davamo da fare con  finte accanite partite a scopone. Alle cinque doveva iniziare la cerimonia a Trieste. Alle cinque meno dieci, puntuale come un cronometro, arrivò Nino con il taxì. Si fermò all'inizio dei mucchi di carbone, dove noi eravamo già, come d'accordo Scaricammo il materiale, prendendo ognuno il suo mazzo di fuochi, il taxì ripartì quando eravamo dietro ai mucchi, piantammo le bacchette nel carbone srotolando i mazzi, unimmo con un nodo le miccie lente e demmo fuoco, il tutto in due o tre minuti. La miccia lenta doveva darci il tempo di tornare in osteria. Uscimmo con la massima calma da dietro il carbone, come se avessimo scelto quella strada per una salubre passeggiata e ritornammo in osteria, dove avevamo tenuto i posti lasciando le nostre giacche sulla spalliera delle seggiole. Anche Nino si tolse la giacca ed iniziammo una accanita partita di tersiglio. In momenti come quello, il tempo non passa mai. Facevamo finta di giocare, ma avevamo gli occhi fissi sull'orologio. Mancava un minuto ed eravamo inzuppati di sudore. Al mezzo minuto non riuscivamo più a parlare.  Alle cinque  finì anche la messa in scena della partita. Avevamo deciso che all'inizio dei fuochi saremmo scattati in piedi fingendo terrore e ci saremmo messi sull'attenti. Nulla, nulla, maledettamente nulla. Alle cinque e un minuto Nino dice che vuol vedere cosa é successo. Io da una parte e Paolo dall'altra gli afferriamo le braccia.  Ai due minuti   si divincola  si alza ed a passo deciso si avvia verso il carbone. Giunto a metà strada, comincia il finimondo. I fuochi funzionano, e bene. Nino si butta a terra e comincia ad urlare:" Aiuto! Aiuto!. I me vol copar, i me vol copar!". Il lungomare si riempie di gente,
dalla vicina capitaneria di porto accorrono militi armati, uno di loro si ferma ad aiutare Nino ad alzarsi, accorriamo anche noi, lo spolveriamo, facciamo finta di tranquillizzarlo e ci dileguiamo tra la folla. Più tardi, con l'autocorriera,
ritorniamo in città. Avevamo un pò di batticuore al confine, dove temevamo un maggior rigore da parte dei militi yugoslavi. Andò tutto bene. Altrimenti forse oggi non sarei qui a raccontarlo.
Emilio Camozzi


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