BENVENUTO CAPRONI
(EMILIO CAMOZZI 18.05.01)
Sono quei nomi e quei fatti che ti entrano dentro quando sei giovane, e, belli o brutti, non ti escono più dalla zucca. Da quando ho saputo che un Caproni 133, affettuosamente soprannominato "vacca", rimesso in sesto dall'amore di paracadutisti e quindi più bello che da nuovo, stà per essere messo nel piazzale della caserma Gamerra, non stò più nella pelle. Devo andare a vederlo. Spero che abbia anche il motore e lo possano mettere in moto. Sì, perchè ho nostalgia di quel tanfo particolare emanato dall'olio di ricino usato per la lubrificazione, di quei tiranti che facevano sì che le due ali si proteggessero a vicenda, di quei motori da cui, in volo, distoglievi gli occhi per non vederli precipitare nel vuoto. Lo dico con orgoglio: io sì che ho volato. Perchè col Caproni si aveva la sensazione di volare: e tutto contribuiva a far sì che questa sensazione ti segnasse l'anima per sempre.  Il loro curriculum aveva la possibilità di acquietare le tue ansie. Si era fatto tutta la guerra dell'Africa Orientale, nelle scuole di paracadutisti della Libia se ne era strafregato del ghibli che fermava tutti i motori. Lui no, perché era fatto per volare e volare doveva. A Tarquinia lavorava più di un ascensore in un centro commerciale. Avevamo anche due Caproncini. Uno, ridotto a solo motore e carlinga, serviva per l'insegnamento del trascinamento. Era sistemato su una striscia di terra battuta larga un paio di metri. L'aspirante martire si metteva dietro la carlinga attaccato al paracadute disteso, l'istruttore tirava la manetta del motore ed il disgraziato si sentiva lanciato a velocità sostenuta sul terreno, dove, usando strani contorcimenti, doveva dimostrare di avere capito come funzionava il trascinamento. Le escoriazioni si sprecavano e le botte pure.Qualche volta  riusciva anche ad alzarsi in piedi. Era per questo che non nutrivamo un amore sviscerato per la Capretta, come usavamo chiamarla. Mentre invece avevamo una specie di adorazione per il Caproncino di Sua Maesta il colonnello Baudoin, Signore incontrastato della scuola di paracadutismo. Nemmeno il Duce aveva potere su di lui. Vacca e Caproncino furono anche i protagonisti di una quasi tragedia a lieto fine. Come spesso usavano, gli istruttori si giocavano a pari o dispari la possibilità di un lancio. Il tenente Renzo Baggioni, a digiuno di lanci da parecchio tempo perchè o non ci sapeva fare o aveva dei conti in sospeso con la fortuna, quella volta ce la fece. Felice come una Pasqua, si guadagnò anche il posto di primo alla porta. Al claxon si lanciò  a volo d'angelo, come si usava, con un entusiasmo forse eccessivo, che lo portò più in alto del necessario.  Non sentì l'apertura ammortizzata del paracadute, ma uno strappo secco e poi un serie di schiaffi  vibrati con un certo vigore. Si rese conto che gli schiaffi gli arrivavano dall'apertura dei paracadute di quelli che si erano lanciati dopo di lui. Guardò in alto ed invece della calotta vide il suo paracadute attorcigliato ai  piani di coda dell'aereo. Fu un momento terribile: si rese immediatamente conto che nessuno poteva fare nulla per levarlo da quella posizione e che il suo destino era tragicamente segnato. Non gli restava che chiedere perdono a Dio dei suoi peccati, di mandare un saluto ai suoi cari ed ai suoi amici, di rassegnarsi ed aspettare. Si rese anche conto di essere un paracadutista. Nell'ambiente giravano molte massime, una era: "Non tollerare prepotenze, perché subirle é indice di vigliaccheria".  Si fece forza e quando vide il caproncino di Baudoin che volava vicino a lui, si rinfrancò ancora di più. Il comandante gli faceva strani gesti che non riusciva a decifrare. A bordo della Vacca gli amici che erano rimasti si sbracciavano anche in gesti strani. Tutti gli gridavano qualcosa, ma lui per l'urlo di motori, la sferza del vento e le sberle subite non riusciva a sentire. L'ereo volava verso il mare. Si rese infine conto di ciò che volevano dirgli. Sganciò i cosciali  e giunto a pochi metri dal pelo dell'acqua, mollò anche i pettorali. L'aereo, al limite del sostentamento, magistralmente guidato dal sergente Dallara, ce la fece a tenere una velocità talmente bassa da evitare grossi guai al malcapitato che, fatti sei o sette salti
sull'acqua, svenne. Si ritrovò in ospedale da dove, dopo qualche settimana, fu dimesso e riprese le sue mansioni di istruttore. Con qualche esperienza in più!. 


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