COSA PENSO DEL CASO SCIERI
 del Serg.Magg.Par E.CAMOZZI
(pubblicato il 13.09.00)

Solo quelli che valgono sono degni di considerazione, oppure, come diceva un nostro onorevole, parlate magari male di me, purché parliate. Io sono uno di voi, un paracadutista della prima ora che tutt'ora è onorato di mescolarsi tra di voi, e, Dio lo volesse, di essere scambiato per uno di voi. Tutto ciò che noi facciamo di bene o di male, è subito dato in pasto all'opinione pubblica, perché noi valiamo. I giornalisti sanno che noi siamo, e lo siamo sempre stati, nel cuore della gente, ed è per questo che appena possono cercano di tartassarci. Anche contro ogni logica, poiché parlare bene o male di noi fa scoop. Lo scoop è il loro pane quotidiano. Se non c'è, lo devono inventare. Vorrei spiegare ai giornalisti come sono fatti i paracadutisti, affinché quando trattano di argomenti che ci riguardano, sappiano come regolarsi. Devo parlare di me, non per propormi come modello, ma perché sono quello che conosco meglio. 

Come al solito, quando si parla di noi ottantenni, è meglio dare una ripassata ai tempi in cui l'azione si svolge, altrimenti il tutto diventa incomprensibile. La televisione non esisteva, la radio era agli albori, i fonografi (così si chiamavano), erano gracidanti marchingeni che davano l'idea della musica che tentavano di riprodurre. Ricordo ancora case dove non esisteva la luce elettrica, ricordo con tenerezza la gioia di mia madre quando fecero in casa 

l'impianto dell'acqua corrente, e, subito dopo aver aperto il primo rubinetto, corse a buttare via ramaioli (secchi che contenevano l'acqua potabile ricuperata nel pozzo comune), tinozze per il bucato, mescoloni e mescolini, insomma tutto l'occorrente per la gestione e la distribuzione famigliare dell'acqua. L'auto era un mezzo di trasporto inventato solo per i ricchissimi. L'aereo era un UFO guidato da extraterrestri i cui nomi erano sulla bocca di tutti. In questo ambiente agli antipodi del mondo attuale e completamente differente da quello che ha sfornato le generazioni successive, crescevano ragazzini che, come quelli di tutto il mondo e di tutte le epoche, esprimevano 

il proprio essere nei modi loro consoni. Chi se ne stava buono e tranquillo presso le gonne materne, chi amava i tranquilli giochi di casa e chi invece 

si mescolava agli altri bimbi sulle strade, allora praticabili, e si scatenavano in bande rivali giocando a guardia e ladri, alla guerra, a nascondino ecc. 

Io avevo a disposizione un bel giardino, dove invitavo i miei amici. Amavo arrampicarmi sugli alberi, ed una delle gare più eccitanti era quella di arrivare più in alto degli altri, là dove i rami sono fini e tendono a spezzarsi anche sotto il peso di un bimbo. Nessuno ne sapeva niente, altrimenti avrei passato i miei guai con i genitori. Il gusto della conquista del rametto superiore era solo mio, e gli alberi da conquistare erano tanti, ognuno con caratteristiche differenti. Avevamo anche una casetta in montagna, un roccolo, adibito alla cattura di uccelli. Era ai piedi di una montagna, la Grona, sul lago di Como. Le pareti rocciose, per la verità non molto difficili, erano la mia meta preferita. I miei genitori, conoscendomi come un ragazzino giudizioso, mi concedevano ampie libertà, e poiché sono sempre arrivato a casa intero e senza ammaccature, non supponevano che i miei giochi consistessero nell'arrampicarmi su roccioni di trenta o quaranta metri. Una volta conquistata una parete, passavo ad un'altra. 
 
 

Eppure ero un bambino carico di paure. Leggevo moltissimo ed in quei tempi le letture per l'infanzia erano infarcite di maghi, fate, orchi, mostri che mangiavano bambini come fossero caramelle, lupi cattivi alla perenne ricerca di bimbi da sbranare e via dicendo. Ero ossessionato da questi personaggi, specie di notte. Evitavo di andare al buio da una stanza all'altra, quando mia mamma spegneva la luce della mia stanzetta ficcavo la testa sotto le coperte e pretendevo che la porta di comunicazione con la stanza dei miei genitori rimanesse sempre aperta. Quando camminavo da solo nei sentieri del bosco, ero terrorizzato. Dietro ogni curva mi aspettavo l'orco malvagio, ogni fruscio poteva essere il serpente boa che inghiottiva interi cavalli, un albero mosso dal vento poteva essere il mago che mi trasformava in rana. Con i temporali raggiungevo poi il culmine delle mie paure. Al primo tuono mi rifugiavo presso mia madre e fino al termine del temporale non la mollavo. Eravamo in montagna, ed una notte, quando eravamo già tutti a letto, scoppiò uno di quei grossi temporali caratteristici delle nostre montagne. Al primo botto di un fulmine caduto nelle vicinanze, mi svegliai. Istintivamente ficcai la testa sotto la coperta. 

Poi mi alzai per andare in camera da mia madre. Avevo dieci anni e cominciai a provare un senso di vergogna. Mi misi i calzoni e le scarpe e, 

facendo molto piano per non svegliare i miei genitori, uscii di casa. La pioggia scrosciava violenta, tuoni, lampi fulmini, si davano da fare per rendere il paesaggio il più infernale possibile. Il primo impatto fu scioccante. Stavo per rientrare ma mi riassalì quel senso di vergogna avuto prima. Infilai il sentiero che portava al paese attraverso un fitto bosco. Completava questa scena da tregenda il vento che fischiava ed urlava fra le piante, spezzando rami, piegando tronchi e alzando foglie. 

Man mano che procedevo, la realtà prendeva la sua giusta forma e la fantasia non mi giocava più brutti scherzi. Il temporale era cessato, ed io tornai piano piano indietro. Era finita l'adolescenza ed entravo senza carichi superflui nella fanciullezza. Inconsciamente però ho acquisito una massima che mi è stata di guida per tutta la vita: se hai paura di qualcosa, affrontala. Forse questa massima mi ha indotto ad entrare nei paracadutisti dove mi sono lanciato forse solo perché ho sempre avuto una paura fregata di farlo, ho eseguito spero discretamente il mio dovere in guerra, dove più sparavano più avevo paura e quindi più mi davo da fare. Ho fatto anche altre cosucce che qui non val la pena di raccontare. 

Quando ho saputo di quel povero ragazzo caduto a Pisa, mi è venuto in mente quante volte avrei potuto fare la stessa fine. A me è andata bene. 

Qualcuno potrebbe domandare:" Ma ne vale la pena?". Per quanto mi riguarda direi di si. Ma io sono vivo, e mi è facile rispondere così. Però se non l'avessi fatto, sarei probabilmente un complessato pieno di ansie e di paure. Ne varrebbe la pena? Forse aveva ragione la buonanima quando diceva: "Meglio vivere un giorno da leoni che cento anni da pecora". 

Emilio Camozzi



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