EL ALAMEIN

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Pubblicato il 20/06/2013

2 LUGLIO 1993- 2 LUGLIO 2013 . LA FOLGORE RICORDA LA MISSIONE “IBIS” IN SOMALIA.

PARMA Pubblichiamo il racconto del 2 Luglio 1993 del generale di divisione ( aus) paracadutista Alessandro Puzzilli. Un ricordo lucido, sebbene talvolta amaro, che fa intravedere il carattere di quel giovane Ufficiale, coinvolto negli scontri. Alessandro è padre di un Incursore della Folgore e di una Ufficiale di Marina. La Sezione che conduce come presidente è giunta al terzo corso di paracadutismo ed ha messo a segno diverse iniziative di sezione, dalle escursioni in montagna alla partecipazione alle cerimonie meno conosciute.


2 LUGLIO 1993
“FOLGORE”…E SI MORIVA

Di Alessandro Puzzilli *



Venti anni fa, a 51 anni dall’epica battaglia di El-Alamein, i Paracadutisti della “Folgore” affrontano, ancora una volta, il fuoco nemico in terra d’Africa.

A distanza di tanto tempo i ricordi sbiadiscono; molti fatti, sepolti nel profondo della memoria, stentano a riaffiorare.

La concitazione di quei momenti non aiutava ad annotare in maniera meticolosa gli eventi, che, nel loro incalzare, imponevano continue decisioni e cambiamenti di priorità. La ricostruzione della sequenza temporale dei fatti è difficile e molti episodi, sicuramente tragici e importanti per coloro che vi si trovarono coinvolti, sono andati invece persi nella mia memoria. Me ne scuso con tutti quelli che non si ritroveranno nel mio racconto.

Il ricordo di tutti quei ragazzi, però, è sempre vivido. Sono gli stessi ragazzi italiani di vent’anni che si batterono ad El-Alamein, le stesse facce, un po’ più in carne forse, il cibo a mensa non manca nel ’93, mentre scarseggiava nel ’42; si sono sbarbati e fatta la doccia, nel ‘42 l’acqua era troppo preziosa per “sciuparla” in frivolezze del genere, i ragazzi di stanza a Balad portano addosso l’odore dei bottiglioni di shampoo/doccia dello spaccio, del dopobarba “denim” invece di quello aspro del sudore, della dissenteria e della paura che avevano portato addosso i loro nonni nelle sabbie, oggi “non più deserte”, del Nord Africa. Ché, fino a quel tragico 2 luglio, in Somalia ce l’eravamo passata abbastanza bene e non si pensava di dover combattere; dopo tutto eravamo andati lì per aiutare. Ma le uniformi sono lacere lo stesso, anche nel ‘93, il Commissariato militare non cambia mai e per essere intonati all’ambiente ci avevano distribuito una, dicesi una, “desertica”, non ne erano state ancora approvvigionate in quantità sufficiente per permetterci almeno un cambio e l’uniformità andava salvaguardata, quindi quelle tipo jungla, che invece abbondavano, non si potevano indossare.
La prima volta ero atterrato all’aeroporto di Mogadisho – se si poteva chiamare aeroporto quell’ammasso di rovine con la pista piena di buchi, interamente ricoperto di una specie di borotalco maleodorante, che ti riempie gli occhi, le orecchie, la bocca e le narici – il 23 dicembre del ‘92 e non c’era nessuno ad aspettare me ed i miei uomini, allora c’erano solo uomini. Mentre aspettavo che qualcuno dell’advance party si facesse vivo, un caporale pakistano di “UNOSOM 1” mi offrì una tazza di the, probabilmente non era mai stata lavata e ci aveva bevuto prima di me l’intero contingente pakistano, ma mi sembrò brutto rifiutare. Era la mia prima volta in Africa e anche la prima volta che venivo impiegato in un’operazione. L’Africa era l’avventura, ci sentivamo dei Livingstone, anzi dei Bottego, novelli conquistatori, ma non lo potevamo dire, anzi nemmeno pensare.
Eravamo lì solo per soccorrere quei poveri bimbi somali che la CNN ci aveva fatto vedere ogni giorno, inesorabilmente, all’ora di pranzo e di cena nei suoi servizi ripresi dai tiggì nazionali – denutriti, urlanti, coperti di mosche, che invano cercavano di suggere latte da i seni avvizziti di madri che sembravano avere 100 anni. Cercavano di farci sentire colpevoli, loro i liberatori targati a stelle e strisce a noi biechi colonialisti. Partimmo alla volta dell’Africa, gli americani volevano fermarci, gli davamo fastidio e di noi non si fidavano, in quella che era pur sempre stata una nostra colonia, ma non ci fu verso. Il governo Amato, con Andò Ministro della Difesa e Colombo agli Esteri, non si sarebbe fatto fermare da niente e da nessuno pur di salvare i fratelli somali; anche perché i socialisti avevano la coda di paglia e qualche scheletro nell’armadio da seppellire a causa dei loro traffici con Siad Barre, amico intimo di Craxi.
Sveglia alle 03.00, come al solito in occasione delle “Canguro”, è la notte sul 2 luglio del ’93, entro le 06.00 dobbiamo aver occupato le nostre posizioni nella periferia nord di Mogadisho a est dell’imperiale, un lascito dei biechi colonialisti, ma tuttora l’unica via rotabile della Somalia. Le operazioni di incolonnamento sono, come al solito, lunghe e complesse, ma indispensabili per evitare ingorghi, rallentamenti e pericolosi incroci sia di mezzi e reparti sia, eventualmente, di traiettorie di tiro amiche. C’è tutto il raggruppamento (rgpt.) “Bravo”, che si ricongiungerà con il rgpt. “Alfa”a Mogadisho.
Sono passati più di 6 mesi dal nostro intervento militare (dic. ’92) nell’ambito dell’operazione “Restore Hope”, che intanto è passata sotto comando O.N.U. ed è stata denominata “UNOSOM 2”. Però la situazione in Somalia non è migliorata, anzi va di male in peggio. Io di bambini affamati, tipo CNN, non ne ho mai visti, anche se non escludo ci fossero. Di milizie armate, invece, ne ho viste tante all’inizio di “Restore Hope”, quando avremmo potuto disarmarle senza tanti problemi, visto che eravamo circa 30.000 uomini. Allora però non eravamo autorizzati; e adesso, visto che noi non ci decidevamo a combatterle, si sono defilate ed ora non le controlliamo più e non sappiamo dove siano. Non li troviamo mai nei rastrellamenti e le armi, di cui vantiamo gli ingenti sequestri sono in maggioranza ferri vecchi, arrugginiti: quelle buone se le tengono loro.
A dicembre ’92 ero arrivato in teatro al comando degli uomini del mio battaglione (btg.), il 5° “El-Alamein”/186° reggimento (rgt.)“Folgore”; costituivamo, assieme a reparti di altre unità, il rgpt. “Bravo” – una parte del 5° era rimasta in Patria; il sistema di alimentazione a blocchi di compagnia e l’addestramento per cicli, allora c’era ancora la Leva, non consentivano di avere battaglioni operativi al 100%. Eravamo stati dislocati a Balad, dove ero arrivato per primo con la 14^ compagnia (cp.) per costituire la nostra base; era il 26 dicembre. Il cenone di natale l’avevamo fatto a lume delle torce in Ambasciata, dove avevamo festeggiato, seduti sulle brande, con spaghetti alle alici, preparati dal nostro cuoco di Siena.
Il 20 giugno del ’93 – il 5° era in Patria, avendo terminato il suo turno – io venni inviato dal Comandante della Brigata “Folgore” ad assumere il comando del 1°/183° “Nembo” di Pistoia, che era venuto in teatro senza il proprio comandante di btg.. A dicembre era estate, ora, a giugno, è la stagione delle piogge e la temperatura è più fresca, fossimo ai Caraibi andrebbe bene, ma qui è una gran rottura, ci mancavano l’umidità e la pioggia.
Conoscevo già alcuni degli Ufficiali ai miei ordini per averli avuti con me in Sicilia, durante l’operazione “Vespri Siciliani”, ragazzi giovani, approdati da poco nei paracadutisti, così come da poco il rgt. “Nembo” si era unito ai ranghi della “Folgore”; il rgpt. comprendeva la 15^ cp. del 5° con il suo nuovo Comandante. Mi riproponevo di migliorare l’amalgama e di verificare il livello di addestramento nei giorni seguenti, ma il Fato, sempre dispettoso, aveva disposto diversamente.
Prendiamo posizione, siamo a qualche decina di metri dall’imperiale, fronte a nord e dobbiamo rastrellare un quartiere controllato dagli uomini del generale Aidid.. Il battaglione si schiera su una linea con due cp. avanzate, la 12^ cp. fucilieri e la 15^/5° cp. fucilieri mec., dobbiamo procedere ad un rastrellamento, la cp. Armi di sostegno (ar. sos.) copre un settore di quella che veniva definita la cinturazione dell’area. Il Posto Comando (PC) di rgt. al centro con la sua AR76 con le radio, è collegato con il PC di B., e io, dal mio PC di btg., altra AR76, a pochi metri, sono collegato con i Comandanti di cp.. Il cielo è grigio, tutto sembra tranquillo, è presto e la città ancora dorme. Davanti a noi, a poca distanza, la linea degli Incursori del 9° btg. ass. par. “Col Moschin”.
“Canguro 11” prese il via in un periodo critico, carico di incognite. Avevo espresso alcune perplessità sugli aspetti esecutivi, come mia abitudine, in maniera professionale, aperta e leale al mio Comandante, ma, da soldato, mi apprestavo ad eseguire comunque gli ordini.

Iniziamo il rastrellamento, le compagnie procedono allineate, il coordinamento è buono, i rapporti dai comandanti di compagnia giungono puntuali e precisi. Regoliamo la nostra velocità di progressione su quella del 9°. Non ci sono eventi particolari da segnalare. Avanziamo per qualche centinaio di metri. Nessun problema. Alla nostra destra, il rgpt. “Alfa” procede allineato. Sull’estremità del fianco destro dello schieramento c’è il PC della B..
Erano circa le 0800LT quando si sentono provenire dal lato destro alcuni spari, sono AK47, facilmente riconoscibili; tiri sporadici. All’improvviso si sentono partire raffiche lunghe e continue, sempre dal lato destro, ma questa volta è l’inconfondibile urlo stridulo di alcuni SCP 70 5,56. Penso: “qualcuno ha perso la testa”. Poi torna la calma. Nel nostro settore non ci sono problemi. Passa qualche minuto e riceviamo l’ordine di sospendere l’operazione e rientrare alle basi. Penso: “è un errore gravissimo, i somali penseranno che abbiamo paura di loro e si sentiranno incoraggiati ad attaccarci”. Ma ormai stiamo già ripiegando. Durante il ripiegamento, uno dei nostri mezzi resta indietro a causa dell’ingorgo creatosi tra i nostri mezzi, diretti a nord, e i mezzi del rgpt. “Alfa”, che vanno a sud, passando per “lo stesso pertuso”, e devo mandare un Ufficiale a recuperarlo. Ci incolonniamo sull’imperiale in direzione Balad.
Terminato l’incolonnamento il Cte di rgpt. mi chiama e mi informa che dalla Brigata gli hanno ordinato di tornare indietro perché ci sono stati dei disordini e bisogna sgomberare la strada dalle barricate erette dai somali. Dopo un breve rapporto con i Cti di cp., ci organizziamo per tornare verso Mogadisho. Avremmo fatto colonna con i soli mezzi protetti caricati con tutto il personale possibile, si pensava di dover fronteggiare più che altro delle sassaiole, come quelle avvenute qualche giorno prima, da parte della popolazione sobillata dai miliziani di Aidid. Noi Cti avremmo preso posto sulle nostre AR76, scoperte, qualcuno si lamenta del fatto che così avremmo corso il rischio di essere colpiti dai sassi o da qualcos’altro, ma senza le radio, che erano a bordo, non avremmo potuto assolvere al nostro compito fondamentale: il C2 (comando e controllo). Il Cte della cp. ar. sos. rientra a Balad con il resto dei mezzi e del personale.

Ci avviamo, in testa avevo disposto una blindo “Centauro”, io ero sulla AR subito dietro. A seguire la lunga colonna di VCC e blindo. Non avevamo adottata una formazione di combattimento, perché non si riteneva ci fosse da combattere e procedemmo speditamente verso sud. Poco dopo arriviamo davanti ad una barricata, ma non c’è nessuno a presidiarla, rimuoviamo qualche pezzo di lamiera per liberare la strada e proseguiamo. Procedendo verso sud, prima di entrare nel tratto del così detto “mercato della carne”, riceviamo l’ordine di girare a sinistra e prendere la parallela, per evitare di incappare in qualche miliziano esagitato, ma la strada che ci indicano non è che sia meglio. Comunque dal Cdo B. inviano un elicottero a scortarci ed a fornirci informazioni. La situazione non è chiara, le informazioni, come al solito, scarseggiano, ma non ci sono scontri e la strada pare deserta. All’altezza del S.O.S. rientriamo sull’”Imperiale” e raggiungiamo il checkpoint “Pasta”.

Arresto la colonna per avere informazioni dal Sottufficiale che comanda il checkpoint. Mi riferisce che lì era tutto tranquillo e non c’erano stati, fino ad allora, problemi particolari, conviene con me, però, sul fatto che sia strano che non ci sia un’anima in giro, in un posto solitamente affollato, come quello. Potrebbe essere un segnale di qualche evento minaccioso in preparazione. Comunque, noi dobbiamo proseguire per raggiungere il checkpoint “Ferro”.
La strada verso “Ferro” è libera per un tratto, ma è deserta ed è esposta al fuoco dalle costruzioni che la fiancheggiano, in fondo alla discesa, poi, si vede una barricata piuttosto consistente. Prima di riprendere il movimento, quindi, chiamo a rapporto i comandanti di cp. per valutare il da farsi ed assumere una formazione, se non d’attacco, che ci fornisse almeno una maggiore protezione e capacità di reazione. È in quel momento che si iniziano a sentire gli spari, erano circa le 1000LT. Mi trovavo ad una cinquantina di metri dal bunker del checkpoint, quando un SU della 15^ mi raggiunge e mi informa che dalla sinistra stavano sparando e che da un loro VCC il capo-carro aveva avvistato un folto gruppo di somali, alcuni dei quali indossavano le uniformi della polizia, quelle che gli avevamo date noi. La decisione del Comandante del contingente di impiegare nella “Canguro 11” un elevato numero di poliziotti somali, che avrebbero dovuto collaborare con noi, aveva sollevato alcune perplessità in tutti noi, in quanto appartenevano a gruppi etnici diversi da quelli della popolazione del quartiere controllato da Aidid, ed ostili al cosiddetto “signore della guerra”. Sembrava una mossa propagandistica destinata ad avere effetti negativi.

La situazione era già abbastanza tesa, tanto che, il giorno prima, le donne del quartiere avevano rifiutato di ritirare i viveri ai nostri punti di distribuzione, nonostante ne avessero bisogno, perché minacciate dai miliziani; inoltre, gli “anziani” del quartiere ci avevano riferito dell’intenzione di Aidid di uccidere qualche italiano, per dimostrare che nessuno poteva sentirsi al sicuro se non trattava con lui. Era noto, infatti, che l’autorità di Aidid in quel periodo era messa in discussione dai suoi stessi uomini e che lui aveva bisogno di dare una prova di forza. Queste informazioni e le relative valutazioni erano state fornite al G2 della Brigata, che, evidentemente le ha considerate di scarsa importanza.
La 12,7 sparava con entusiasmo verso gli assalitori. Raggiungo l’angolo della casa, al riparo della quale un paracadutista, sdraiato a terra, sta facendo fuoco contro gli assalitori. C’è anche il Cte di cp., mi riferiscono quello che hanno visto, ma io non sono convinto. Stento a credere che ci stiano attaccando in forze, penso ad uno dei soliti tiratori che ci spara qualche colpo e poi scappa, era capitato spesso in precedenza, senza mai avere conseguenze. E poi, nonostante gli incidenti dei primi di giugno, il clima che si respirava al comando Brigata era quello della missione umanitaria, noi eravamo lì per aiutare i nostri fratelli e “a noi i somali ci vogliono bene”. Sembrava che il Comandante avesse più fiducia nei somali che nella catena di comando O.N.U., da cui dipendeva, e negli alleati – senza dubbio questo suo sentimento ci aveva contagiati un po’ tutti. Semplicemente non credevo ad un’imboscata vera e propria, non avevamo avuto informazioni in tal senso dal Comando Brigata, la nostra missione era quella di liberare la strada. Dopo essermi affacciato per guardare nella direzione da cui mi avevano riferito provenivano gli spari, che però in quel momento erano cessati, e non aver visto nessun somalo, decido di andare a verificare di persona, assieme al mio Ufficiale alle Operazioni (UO). Entriamo nell’edificio e ci dirigiamo verso la posizione dove avrebbero dovuto essere gli assalitori. Arriviamo più o meno alla fine del gruppo di edifici, che stavano tra l’imperiale e la strada parallela ad est – i tramezzi erano stati tutti aperti durante la guerra civile, per consentire ai combattenti di sfruttare gli edifici come ripari e vie di movimento protette – proprio come noi insegnavamo ai nostri ragazzi a Villafranca in Lunigiana – quando, da un’apertura in un muro, vedo un somalo che, riparandosi dietro un albero, stava sparando contro i miei, i ragazzi, quelli della 15^, che mi avevano avvertito del pericolo. Punto l’arma e faccio fuoco. Poco dopo anche il mio UO spara contro un attaccante. Ero convinto che quelli fossero gli unici somali che quel giorno avessero deciso di passare la giornata a fare il tiro agli italiani. Quindi prendo la “Motorola” e do ordine di cessare il fuoco, perché il pericolo, per quanto ne sapevo io in quel momento, era cessato; e, per essere sicuro di riprendere alla mano la situazione, mi affretto a raggiungere l’imperiale.

Come esco dall’edificio, seguito dal mio UO, sento un’esplosione molto vicina, la cui onda d’urto lo scaraventa a terra. Io, sulle prime, l’avverto di meno, forse perché attutita dal VCC dietro cui mi trovavo, penso ad una bomba a mano, mi guardo intorno per vedere chi l’avesse lanciata e punto l’arma per reagire all’attacco, mentre con una mano mi pulisco la guancia da un qualche cosa che sembrava essermi arrivata in faccia, era un lembo di pelle: la mia; la mano è sporca di sangue, però non sento dolore né mi accorgo delle altre ferite che avevo riportato in varie parti del corpo, sono in piedi e mi muovo, perciò va bene così. L’unico pensiero che, per un istante, mi turba è di quante me ne diranno mia madre e mia moglie perché mi sono fatto una ferita in faccia. Ma non c’è tempo per amenità del genere.

Valuto la situazione, mi rendo finalmente conto che non si tratta di un’azione sporadica ma di un attacco coordinato: un imboscata! Ci sparano da tutte le parti. Anche dall’alto dell’ex-pastificio. Bisogna predisporre una difesa temporanea. Verosimilmente i miliziani intendevano assaltare il checkpoint isolato per conseguire una vittoria eclatante, ma non si erano accorti del nostro inaspettato rientro a Mogadisho. Se non ci fossimo trovati li in quel momento i ragazzi di presidio al checkpoint sarebbero stati massacrati.

Ci sono problemi con le comunicazioni. Mi reco a piedi presso il bunker del checkpoint ed utilizzo la radio sul VM per informare il Comando Brigata di quello che sta succedendo. Aiuto un paracadutista leggermente ferito a ripararsi nel bunker, poi incarico il Ca. Uf. OA del 183° rgt., che mi aveva raggiunto, di occuparsi dei feriti. Suppongo ce ne siano altri, ma al momento, non ho una situazione chiara. È urgente predisporre una difesa a 360°, perché, intanto, gli aggressori hanno preso coraggio e continuano a martellarci con il fuoco. Un razzo RPG esplode a pochi metri da me; mi auguro non abbiano anche dei mortai, perché ce la vedremmo brutta.

Arrivano i rinforzi, elementi del 9° rgt. Ass. par. “Col Moschin” ed un VCC del “Tuscania”. Con il Comandante degli Incursori concordiamo che noi li avremmo appoggiati con il fuoco mentre loro avrebbero tentato di rompere l’accerchiamento. Entrano in azione e riescono a penetrare nelle linee dei miliziani, ma sono un pugno di uomini, benché valorosi e preparati, e dall’altra parte c’è gente che è in guerra da tre anni. I somali si ritirano davanti agli incursori, ma non mollano, e, forti del numero, sono pronti a richiudere il cerchio alle loro spalle e ad isolarli. Desistiamo da questo tentativo ed iniziamo a consolidare le posizioni, preparandoci a sostenere l’assalto, in attesa dell’arrivo dei nostri. Il Cte della B. avrebbe a disposizione il rgpt. “Alfa” con alcuni M60 da impiegare per un contrattacco.

L’ufficiale che avevo incaricato mi riferisce circa i feriti, e mi informa che c’è stato un morto: è il Par. Baccaro della 15^, il VCC in cui si trovava era stato colpito dallo stesso razzo, le cui schegge avevano ferito me, scatenando l’inferno dentro il mezzo, io al momento non mi ero accorto di nulla. L’Ufficiale, con grande grinta ed una notevole immaginazione ha coordinato lo sgombero con il Cdo B. ed inizia ad evacuare i feriti verso una ZAE organizzata in prossimità di “Ferro”.

Dal Cdo B. non arrivano né ordini né informazioni. Riesco solo a parlare con il G6, che sembra essere l’unico presente in sala operativa, mi chiede se ho bisogno dell’appoggio degli elicotteri americani della QRF; gli rispondo che dalla nostra posizione posso solo vedere gli edifici dentro i quali sono appostati i somali, ma che sono troppo vicini a noi per garantire una distanza di sicurezza dal fuoco degli elicotteri. Ringrazio, ma preferisco evitare di farmi sparare dai cowboy.

Ricevo una chiamata via radio, è un SU del 183°, di quelli che stavano rientrando a Balad al termine del rastrellamento. La colonna, lungo la via del rientro, era incappata in una delle tante rapine che avevano luogo sulla via imperiale, a danno di uno dei tanti camion stipati di persone che percorrevano quella strada e, dopo aver messo in fuga i rapinatori, il Comandante della cp. ar. sos. aveva disposto lo sgombero di due somali feriti con un’ambulanza ed un VM di scorta sull’ospedale di Mogadisho. La chiamata del SU era dovuta al fatto che, ignari di quanto stava accadendo, lui ed i suoi erano entrati nel mercato della carne ed erano stati assaliti dai miliziani ed erano in grave pericolo. Individuo nel Comandante dello squadrone del 8° rgt. Lanceri di Montebello, un Capitano, l’elemento più idoneo ad attuare l’operazione di recupero; mi avvicino alla sua blindo, muovendomi con difficoltà a causa delle ferite riportate alla gamba, e gli dico cosa bisogna fare.
Il Cap. con i suoi uomini era giunto in teatro da soli 4 giorni e non aveva ancora avuto il tempo ed il modo di familiarizzarsi coi luoghi e con le tattiche. Anche per questo, la sera prima, avevo suggerito che si evitasse di far partecipare il reparto di Cavalleria alla “Canguro 11”, perché in caso di incidenti, si sarebbe potuto trovare in difficoltà, ma il Cte della B. aveva deciso che i cavalieri partecipassero per fare “deterrenza”, ancorché senza il munizionamento da 105. Ricevuti gli ordini, il Cap. si muove con rapidità con la sua “Centauro”, secondo le più belle tradizioni della nostra Cavalleria, e recupera gli uomini in pericolo facendoli affluire al checkpoint.

Nel prosieguo degli scontri, un carro M60 del 132° rgt. cr. “Ariete”, che faceva parte del presidio del checkpoint, avvistata una delle “tecniche” dei miliziani, apre il fuoco, con lodevole iniziativa, con il suo cannone da 105. Un VCC si avvicina alla mia postazione, è uno di quelli che ha provveduto a sgomberare i feriti sulla ZAE organizzata nei pressi di “Ferro”, uno dei paracadutisti mi riferisce che il loro Comandante, S.Ten. Paglia, è stato ferito; il pilota abbassa la rampa e vedo il corpo dell’Ufficiale accasciato ai piedi del seggiolino, ne dispongo l’immediato sgombero, sperando che non sia stato ferito gravemente, ma invano: resterà paralizzato. Scoprirò solo al mio rientro al porto che, nel corso della stessa azione, anche il S.Ten. Millevoi dei Lanceri è stato ucciso.

Siamo accerchiati, ma teniamo le posizioni. Inizio a pensare che l’assedio durerà ancora e comincio a predisporre una difesa più efficace. L’intensità del fuoco nemico, comunque, non aumenta; i miliziani non si fanno vedere, sparano alla cieca al riparo delle costruzioni e dei containers, non sembrano disporre di armi pesanti, anche se ogni tanto si vede sfrecciare una “tecnica” in distanza, ma non si avvicinano per assaltarci. Penso che, se sarà necessario, potremo resistere, magari occupando posizioni più protette all’interno dei fabbricati, fino a che il Comando Brigata lancerà il contrattacco, che ritengo sia ormai prossimo: ma mi sbaglio e di grosso.

Mentre mi muovo tra le postazioni, con una gamba sempre più irrigidita a causa della perdita di sangue, sento il il Cte del 183°, con cui avevo perso ogni contatto dall’inizio del combattimento, che ordina a tutti, gridando e gesticolando, di ripiegare. L’azione diviene convulsa, l’ordine di ripiegamento, impartito direttamente a tutti, genera il caos, personale e mezzi si affollano al centro dell’incrocio. Mentre nessuno pensa più a tenere a bada i miliziani. Il personale di presidio al checkpoint non riceve ordini, se dovesse rimanere sul posto, isolato, sarebbe massacrato, così ordino loro di ripiegare assieme agli altri, assicurandomi che tutti abbiano capito. C’erano alcuni mezzi senza conduttore che rischiavano di essere abbandonati, il mio UO riesce a trovare dei conduttori ed a farli recuperare. Aspetto che tutti defluiscano verso il porto e lascio la zona per ultimo con la mia AR, sotto una pioggia di fucilate.

Al mio arrivo al porto, chiamo a rapporto i miei Comandanti di Cp. per ricevere un aggiornamento sulle perdite e per assicurarmi che nessuno fosse stato lasciato indietro. Quindi riferisco al Cte di rgt., il quale, vedendomi coperto di sangue, mi ordina di andare a farmi medicare. Il rgt. per quella notte resterà al porto, non c’è molto altro che io possa fare. Mi reco in infermeria e, poco dopo, vengo sgomberato, assieme agli altri feriti, sull’ospedale militare a Johar. Dopo 3 giorni, a causa del fatto che le mie ferite si stavano infettando nel clima mefitico della Somalia, vengo inviato al HM Celio di Roma. Sarei tornato in teatro un mese e mezzo dopo, per poi lasciare il comando del 5° btg. il 16 settembre e rientrare definitivamente in Patria.

Quel giorno a Mogadisho caddero, nell’adempimento del dovere, il S.Ten. Andrea Millevoi, il Serg. Magg. Stefano Paolicchi ed il Par. Pasquale Baccaro; il S.Ten. Gianfranco Paglia rimase paralizzato, altri, come il Serg. Giampiero Monti, furono gravemente feriti, in totale i feriti furono 36.

Per quei fatti mi è stata concessa la Medaglia d’Argento al Valore dell’Esercito, ma ancora oggi mi chiedo se ho svolto al meglio la mia azione di comando o se avrei dovuto agire diversamente, se avrei potuto evitare che i miei uomini cadessero sotto il fuoco nemico. Non so darmi una risposta. Credo di aver fatto il possibile, nelle condizioni date, ma il dubbio mi tormenta e mi tormenterà.

Certamente il 2 luglio mi ha insegnato che le operazioni di pace, come vengono ipocritamente definite in Italia, vanno affrontate con la consapevolezza di poter diventare un inferno, dove i Soldati muoiono. Pace e guerra sono termini fuorvianti, quando un contingente militare conduce operazioni militari, anche di supporto alla pace (PSO), in un qualsiasi teatro operativo deve essere mentalmente orientato, ben addestrato ed amalgamato e tatticamente organizzato a passare con immediatezza da una situazione di calma apparente ad una di combattimento ad alta intensità senza preavviso.
L’insegnamento di Mogadisho non è andato perduto, nelle missioni successive l’Esercito, oggi costituito da militari di professione, ha saputo affrontare sfide assai più impegnative. Il personale di tutti i gradi, professionalmente molto preparato, dispone oggi di una grandissima esperienza, di gran lunga superiore a quella che avevamo noi, ed anche gli equipaggiamenti di cui oggi sono dotati i reparti che si avvicendano nei teatri operativi sono all’altezza di quelli degli eserciti più moderni. La vita di guarnigione, che caratterizzava l’esercito di leva, è un lontano ricordo. Dopo la Somalia sono intervenute sostanziali modifiche alle procedure operative ed ai cicli di preparazione cui i reparti vengono sottoposti prima delle missioni. A coloro che hanno aperto la strada all’ammodernamento delle Forze Armate, sacrificando la propria vita, deve andare la riconoscenza di tutti i militari.

Ancora una volta i Paracadutisti della “Folgore”, assieme ai CC Paracadutisti del “Tuscania”, agli Incursori del 9° “Col Moschin”, ai Carristi dell’”Ariete”, agli Elicotteristi ed ai Lanceri di “Montebello” hanno onorato la Patria con il loro estremo sacrificio, mostrandosi degni dei “Ragazzi della Folgore” di El-Alamein.
Sarebbe ora che anche il Soldato italiano venisse riconosciuto per quello che è: colui che serve lo Stato in armi ed esercita la forza legittima in nome dello Stato italiano a difesa della Patria, della sovranità e dell’indipendenza nazionale e dei legittimi, superiori interessi nazionali; per garantire che anche coloro che in Italia sono “contro” lo possano essere liberamente. I nostri Soldati vanno in missione perché comandati dal Governo e dal Parlamento nazionale, eseguono gli ordini, se necessario, fino all’estremo sacrificio, combattono quando necessario. Fanno il loro mestiere con dignità ed orgoglio. Qualunque sia la ragione che li ha spinti ad arruolarsi, una volta indossata l’uniforme, dopo avere superato durissime selezioni ed essere stati sottoposti ad un lungo ed impegnativo iter formativo, diventano dei professionisti appassionati del proprio lavoro. Il Parlamento italiano ha deliberato che le Forze Armate debbano essere formate da volontari professionisti, arruolarsi è un dovere civico che qualcuno deve assolvere, in ottemperanza alle leggi. Ci riflettano coloro che definiscono i nostri Soldati dei mercenari. I nostri Soldati cadono oggi come, prima di loro, sono caduti tutti i Soldati italiani che dal 1861 hanno servito la Patria sotto il Tricolore: con Onore. Consapevoli di adempiere al proprio dovere e di onorare il Giuramento prestato, si riconoscono in una sola parola: Soldati. Gli italiani dovrebbero andarne fieri, conoscere la Storia d’Italia e le infinite storie di coloro che per essa hanno dato la vita e provare orgoglio nel considerarli propri fratelli, invece di conoscere ed appassionarsi alle storie di soldati stranieri con cui veniamo bombardati e influenzati dai film di Hollywood. I nostri ragazzi se lo meritano.

Gen. D. (aus.)
già in serizio alla Brigata Paracadutisi Folgore
Presidente fondatore, della Sezione
A.N.P.d’I
Guidonia Montecelio -Tivoli -Valle Aniene

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