Pubblicato il 08/11/2024
9 NOVEMBRE 1971 – DIO MIO , DOBBIAMO MORIRE OGGI?

Il racconto immaginario di un Paracadutista di Gesso 4, frutto della fantasia dell’Autore
di Walter Amatobene
La sveglia me la danno le urla di due caporali che accendono le luci, sbattendo i palmi delle mani sugli armadietti e urlando “giù dalle brande! pronti in 15 minuti. Forza! Forza!”. Sono le due del mattino.E’ il 9 Novembre. Fuori è buio. Non fa freddo; allora il mio tremore da dove viene? Lo so, lo so. Mi conosco. Poi passa. Ieri sera mi sono fatto la barba e ho controllato zaino e FAL. Mi tocca il contenitore B, con la MG.Sono mitragliere. Gli armieri ci hanno detto che li troveremno allineati in piazzale. Sono Pronto! Staremo via pochi giorni, equipaggiamento leggero. Il Tenente non può dirci di più. “Ci faranno un aviorifornimento con quello che ci servirà”, taglia corto. Non mi interessa nemmeno saperlo. Ci hanno detto che voleremo su C130 inglesi. Andiamo in Sardegna a fare due assalti e diverse imboscate. Ci saranno attivatori sul terreno. L’ultima volta erano Sabotatori con la mano pesante. Stavolta , oltre a loro, che si lanceranno per primi, ci saranno anche Carabinieri paracadutisti. Ce la giocheremo e non sarà una passeggiata. La mia compagnia, la 6^ Draghi, è quasi tutta a bordo dei C130. I miei anziani mi guardano dall’androne.Come siamo belli, con tuta la lancio che calza perfettamente, cinturone, baionetta alla caviglia, foulard, maglione a collo alto. “Come siamo belli”, dico ad alta voce e i due caporali rispondono ” vedi di salire sul ciemme rapido. Azione!” Sempre i soliti sgorbutici , stì bergamaschi. Eppure se me lo chiedessero, ammetterei che gli voglio bene. Sono bravi paracadutisti, a parte le decine di pompate che mi fanno fare ogni giorno.
Sento i camion in moto. Gli appelli, le urla del tenente, dei caporali, una confusione ordinata, ognuno sa cosa fare, ognuno sa dove salire. Distribuiscono caffè e buondì Motta con marmellatine. Non voglio mangiare adesso. Lo farò in aereo se lo stomaco starà al suo posto. Mi infilo il dolce nel tascone. Sono le tre. Si parte per l’aereoporto di Pisa. Tutti zitti nel cassone, un pò per l’arietta fresca, un pò per il rumore dei camion, un pò per… avete capito. Siamo tanti. Dietro di noi c’è una lunghissima fila di fanali. Mi dicono che saremo dieci decolli: assaltatori, artiglieri paracadutisti, carabinieri del Tuscania, logisti, trasmettitori. Quasi 500 baschi amaranto in movimento. Noi siamo sul quarto. Un inglese dell’equipaggio ha scritto a gessetto sulla fusoliera del nostro C130 un “quattro”. Siamo “Gesso 4”. Ritiriamo i paracadute. Ripeto automaticamente tutti i gesti previsti. Siamo ordinati, veloci, silenziosi, concentrati. Gli ordini si susseguono. Ci imbraghiamo aiutandoci.
Il paracadutista davanti a me mi aiuta con le diagonali. “non stringere troppo i cosciali, chè dobbiamo volare un’ora abbondante e i gioielli di famiglia ti faranno male!”, mi dice il mio “coppio” con l’accento romano. Ha ragione. Mollo un pò. Voglio godermi tutto il volo tattico senza distrazioni. Saliamo in aereo dalla rampa in due file indiane. Odore di kerosene. L’equipaggio inglese ci saluta sorridendo. Camminiamo goffamente, così imbragati e con zaini e contenitori. Sono decimo, porta di destra. Usciremo in unico passaggio per porta.
Gli ultimi scarpineranno di più una volta a terra. Incrocio lo sguardo del mio caporale , che è davanti a me. Mi sorride con una bella espressione che non gli avevo mai visto. Siamo bei guerrieri di venti anni. Ripeto tra me e me: “come siamo belli!” . Mi piacerebbe che mi vedessero Eleonora, la mia fidanzata e mia Mamma, sarebbero orgogliose di me. Su Gesso 1, primo a partire, so che c’è Aquila 1, il Generale Ferruccio Brandi, eroe di El Alamein. Andrei all’inferno per lui. Gli sguardi si incrociano, per farci coraggio oppure per capire se anche gli altri della mia compagnia hanno la stessa tensione che ho io. Siamo stretti, gomito a gomito, zaino contro zaino. E’ ancora buio. Guardo l’orologio. Sono le 5 e 45, l’aereo inizia a muovere. Sento i motori, sento le vibrazioni, sento la spinta. Prendo sottobraccio chi mi sta a fianco per contrastare l’angolo di decollo. Siamo in volo. Sorridiamo. Pollici alzati.Tutto bene! Ci aspetta una bella settimana da guerrieri paracadutisti. Quello che volevamo fare lo stiamo facendo. L’aereo sobbalza violentemente, come se avesse colpito un oggetto. Vedo un bagliore vicino alla cabina del pilota, poi capisco che il muso sta puntando verso il basso. Qualcuno urla dal dolore. La cintura di sicurezza mi sale fino alla pancia e non mi fa respirare.
Non riesco a muovere le gambe.Cerco di slacciarla. Non ce la faccio. Devo avere un braccio spezzato. Non sento dolore. Sono lucido. Sento acqua negli stivaletti, poi sulle ginocchia. Non vedo nulla. L’aereo si deve essere spezzato. L’acqua entra violentemente dalla rampa e dal muso. Capisco che la fusoliera è sott’acqua. Nella bocca ho il sapore del sangue. Un oggetto mi colpisce il volto, sciabolando insieme all’acqua che mi schiaffeggia. Sento le gambe del paracadutista di fronte sulle mie ginocchia, in una in posizione innaturale. Non posso far nulla. Sono schiacciato dall’acqua, dallo zaino, dalla posizione, impedito dalla cintura. Sono lucido. Non ho paura. Ora l’acqua fredda mi entra nella schiena, poi mi sommerge la testa. Dio Mio, devo morire oggi? C’è silenzio adesso. Solo il rumore dell’acqua che invade violentemente la carlinga spezzata. Buio. Saranno passati meno di due minuti.Siamo sul fondo. Lo capisco perchè siamo tornati orizzontali. Ho trattenuto il respiro, ma ora non ce la faccio più. Apro la bocca che si riempie di acqua e mi scende nei polmoni , mi invade il corpo. Non ho paura. Non sento dolore. Una mano mi accarezza il volto. Mamma sei tu? Non vedo nulla ma intravedo la sua sagoma inconfondibile di quando veniva a baciarmi a letto da bambino. Cosa ci fai qui? Non hai freddo? Dio mio: allora devo morire oggi? Chi mi sta sussurrando non avere paura?
Ora vedo il mio corpo riverso su un fianco. Lo zaino tra le gambe, il FAL che mi ha ferito una coscia ed il mio piede in una strana posizione. Non sento dolore. Sto salendo verso la superfice. Una mano tiene la mia e mi porta verso l’alto. Non ho paura. Ragazzi, anche voi siete riusciti a slegarvi? I miei Camerati mi guardano, pallidi e silenziosi, con lo sguardo profondo e triste. Avete già riconsegnato i paracadute? Io l’ho lasciato in aereo. Lentamente ci stiamo riordinando e ci siamo tutti, ma non capisco dove. Non vedo bene, distinguo solo la sagoma del loro corpo ed i volti luminosi nell’inchiostro del mare. Come siamo belli. Adesso l’acqua è sotto di noi, sempre più lontana. Sento l’aria sul volto e vedo il sole che sta sorgendo. Come è grande. Come è vicino. Non capisco dove siamo, ma ci siamo tutti. Dio mio, grazie! Allora non siamo morti!
Non si disperano. Non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano dritti, pallidi si, ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato.