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Pubblicato il 30/11/2019

ASSALTO DAL CIELO A PISA- CONFERENZA SULLE MISSIONI MILITARI DEI PARACADUTISTI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

PISA- A San Rosore il Centro Studi di storia del paracadutismo militare ha dimostrato la capacità organizzativa ed il livello culturale di divulgazione che si prefigge di raggiungere, attraverso studi e conferenze preparate cvon rigore ed obiettività scientifica. Nella bella sala posta all’ interno del parco, davanti ad un pubblico numeroso , l’ANPDI e la Brigata Folgore , che sono gli sponsor del Centro Studi, hanno dato prova di come il paracadutismno militare abbia dignità di materia di studio e in quale formula deve essere approfondita e divulgata.

Il generale Carlo Lamanna, comandante della Divisione Vittorio Veneto , di cui fa parte la Folgore, ha salutato gli intervenuti, rallegrandosi per il ruolo dei paracadutisti all’interno dell’ Esercito e della Divisione al suo comando.
Molto ricca di spunti la “lectio magistralis” del generale di Brigata Beniamino Vergori, che ha trattato con grande capacità di tenere alta l’attenzione del pubblico, la figura del Paracadutista.

In apertura il generale Marco Bertolini ha illustrato le caratteristiche che contraddistinguono il combattente paracadutista. Inizieremo dalla sua relazione, riservandoci di dedicare alle altre singolarmente lo spazio che meritano. Ognuno di quegli interventi è una lezione di stria che rimarrà nel già ricco archivio del centr e sarà divulgata anche elettronicamente.
I relatori hanno trattato ognuno una operazione portata a termine da un reparto d’assalto dal cielo con documenti e filmati anche inediti.

IL COMBATTENTE PARACADUTISTA
intervento di Marco Bertolini

Parlare dei paracadutisti significa trattare di una realtà nuova ma dalle radici antiche. Nuova perché basata sull’impiego dell’aereo che, con il computer, è il protagonista assoluto della globalizzazione nella quale le distanze vengono abbattute; antica perché nata dai miti guerrieri e un po’ feroci della nostra storia nazionale, iniziata con Roma, la captale dell’Impero per antonomasia, passata attraverso la lunga fase di gestazione del Medioevo e delle lotte tra realtà autoctone e le molte invasioni del Bel Paese, arrivata fino all’epopea degli Arditi, tra gli artefici assoluti della vittoria di 100 anni fa.
E’ una specialità che si inquadra molto nell’indole italiana, proprio per come si è sedimentata nei secoli, caratterizzata da individualismo, spinta all’impegno estemporaneo e violento (la va o la spacca!), permeata dello spirito volontaristico favorito da una cattolicità interiorizzata per la quale ognuno si sentiva portatore di una missione che trascendesse se stesso.
Non per niente, i primi esempi di lancio con paracadute per finalità militari, in quelle che potremmo definire Operazioni Speciali, ebbero luogo in Italia, durante il primo conflitto mondiale ad opera di 3 Ufficiali (Alessandro Tandura, Ferruccio Nicoloso, Pier Arrigo Barnaba) seguiti da una infiltrazione tramite aerotrasporto da parte del Ten.Antonio Pavan, anch’egli inizialmente destinato al lancio. Insomma, già dalla prima guerra mondiale l’Italia che si affacciava prepotentemente tra le prime potenze mondiali senza nascondere le sue ormai ripudiate ambizioni, dimostrava un grande interesse per l’impiego spregiudicato della forza militare, col ricorso al mezzo aereo del quale diede dimostrazione di grande operosità negli anni successivi, con le imprese di Italo Balbo. Balbo, lo stesso che volle inizialmente la creazione di una Scuola paracadutisti a Castel Benito, in Libia, per poi replicarla a Tarquinia dove nacque la Folgore. Era certamente una Formula 1 Balbo, alla quale mancò una squadra che consentisse di passare dalla produzione di qualità, sufficiente per imporsi all’ammirazione degli addetti ai lavori mondiali, alla quantità, necessaria per vincere le guerre.
Si potrebbe parlare a lungo delle “qualità” dei paracadutisti, delle loro caratteristiche prima etiche e morali che fisiche, ma non si farebbe altro che pescare nell’ampio contenitore delle illusioni e dei pregiudizi nei loro confronti, essendo le virtù vizi per chi disprezza per partito preso le nostre caratteristiche nazionali. Proprio per questo, i paracadutisti sono protagonisti di un complesso di sentimenti contrastanti da parte dell’opinione pubblica, che spaziano dalle infatuazioni superficiali ma avvampanti di quanti dall’esterno sperano di avere in essi la soluzione riposta, segreta, di un riscatto nazionale che non debba scomodarli personalmente, all’odio profondo e radicato di chi, sul lato opposto, li vede al centro di mille fantasiose trame volte a frenare l’inarrestabile putrefazione del tessuto nazionale al quale tendono. Infatuazione e odi per una realtà che spesso viene a connotarsi come “immaginaria”, nel bene e nel male.

Ovunque – nel mondo – i paracadutisti abbinano alla fama di soldati scelti quella – in parte consequenziale – di teste calde che li espone, spesso, ai sospetti di tutte le opinioni pubbliche (civili e militari stesse). In altre parole, il “mito” del paracadutista piantagrane e anche un po’ violento costituisce lo sfondo culturale con il quale molti considerano la Specialità, spesso senza andare troppo per il sottile nel distinguere tra quelle che sono semplicemente le proprie sensazioni (magari indotte da una lettura superficiale degli avvenimenti) e la realtà dei fatti. Ma tant’è.
A onor del vero, questo approccio socio-culturale è caratteristico soprattutto delle società che si potrebbero definire del “benessere rassegnato” come quella italiana, che hanno rinunciato a svolgere un ruolo attivo al di fuori dei loro confini e che ritengono definitivamente acquisita l’era della “pace innanzi tutto” in cui non è più necessario (né corretto) battersi, neppure per la propria libertà, per la giustizia o per l’indipendenza. Gioca in questo contesto la fallace corrispondenza, nella testa di molti, tra il concetto di pace e resa, essendo quest’ultima la pace dei servi sulla cui indiscutibile priorità mi permetto di dissentire.

Ovvio che, in un contesto del genere, il paracadutista venga percepito come estraneo ed addirittura ostile.
Infatti, benché debba la sua stessa natura all’uso del mezzo aereo, protagonista assoluto della modernità ed artefice principale della globalizzazione, resta l’archetipo del soldato tradizionale, ancorato ai politically uncorrect miti del sacrificio, del coraggio e del sangue e ai precetti retrò dell’impegno fisico non mediato in misura sostanziale da strumenti tecnologici.
Rimane, in sostanza, un soldato all’antica che percepisce fortemente questa sua caratterizzazione anomala fino a fare del suo anacronismo formale e della sua diversità un elemento qualificante ed un valore da tutelare.
Fino all’esplosione della moda dei tatuaggi etnici su tutti i fondo schiena della nostra pasciuta gioventù, ad esempio, condivideva in splendido isolamento con pochissimi altri gruppi sociali chiusi all’esterno (carcerati e marinai) l’uso di abbellirsi (?) la cute con orrendi disegni (indelebili) graffiati con mazzetti di spilli intrisi nell’inchiostro e tracciati da artisti improbabili e incredibili, come i suoi stessi compagni di camerata.
Il frutto di questa sua caratterizzazione era una sorta di spocchiosa chiusura nei confronti degli altri (i non paracadutisti, o i “soldati” come si diceva alla Folgore, dando una connotazione negativa al nostro più alto titolo nobiliare), esibita non senza ostentazione assieme ad una un po’ forzata fraternità trasversale con i paracadutisti di tutto il mondo che si voleva fortemente considerare propri pari, in quanto animati dallo stesso sentire.
Questa impostazione generale che riguarda i paracadutisti in quanto tali (quasi come categoria dell’essere, quindi, e non solo quale semplice Specialità presente in tutti gli Eserciti moderni) è poi da inserire in un contesto di maggiore complicazione connesso con la realtà italiana.
Infatti, gli effetti della sconfitta italiana nel ’43 hanno portato ad una frustrante negazione di tutte quelle virtù belliche che, al contrario, erano state esaltate nel periodo precedente e che continuano ad essere irrinunciabili punti di riferimento per soldati che basano la loro principale ragione di identità nell’aver affrontato e superato una prova di coraggio pura, il lancio. Da allora, infatti, se proprio di militarità si doveva trattare, ci si limitasse a quella vignettistica e cialtrona narrata da una certa nostra cinematografia, incentrata sulle storie incredibili e fantozziane del “Colonnello Buttiglione” e sulle novelle scollacciate della “Dottoressa del Distretto Militare”.
Il termine Naja assumeva solo significati negativi e guai a tentare di conferirle maggiore dignità facendo leva sulla nostra storia patria e militare e sui valori di riferimento delle Forze Armate.
Quindi, ottimo l’Esercito pompiere che interviene a favore delle popolazioni colpite dalle calamità naturali. Bravo il fantaccino che si presta a servizi a costo zero a favore delle Comunità locali. Bravissimo, inoltre, il militare che, con la sua semplice esistenza, giustifica quella della sua negazione (l’obiettore di coscienza) che ha assicurato una mano d’opera disponibile e a buon mercato (e a pie’ d’opera – e vicina a casa) a tante Amministrazioni ed Enti vari.

Da qui alla retorica del “Soldato di pace” dei nostri giorni, che – seppur in mezzo alle cannonate – riesce a vivere solo di pulsioni umanitarie, in un mondo moralisticheggiante nel quale il Bene (partito al quale lui ovviamente appartiene per definizione) è in costante lotta contro il Male, il passo è breve.
Un Soldato “santo”, che dal provincialismo spirituale della semplice disponibilità al sacrificio per la Patria (quindi per casa propria, per gli interessi e la sicurezza di persone che conosce, vede e ama) dovrebbe sapersi proiettare nella dimensione più pura ed elevata dell’amore universale e della disponibilità al sacrificio per popolazioni lontane e diverse dalla sua, che spesso non ha mai sentito nominare e che a malapena saprebbe posizionare su un mappamondo.
Un Soldato internazionale ed internazionalista, che spende anni per imparare a parlare l’inglese (per capirlo, invece…), che non è più all’antica ma, al contrario, moderno, iperefficientista e tecnologicamente evoluto, attento all’immagine frutto del successo, anche se non sempre è altrettanto preoccupato dell’Onore, in quanto spesso risultato di sonantissime sconfitte.
Un Soldato che, pur di sfumare i toni della sua natura, preferisce definirsi “Volontario”, accettando così di buon grado la concorrenza con il volontarismo a giro d’orizzonte dell’attuale retorica sociale e che non riesce a riconoscere la nobiltà e la bellezza del suo antico nome.

A queste considerazioni di carattere generale riferite all’ambiente nazionale in senso lato, per quanto attiene ai paracadutisti italiani ne sono da aggiungere altre riferite alla specifica situazione socio politica italiana, con particolare riferimento a quella delle sedi stanziali tradizionali. Queste, infatti, sono concentrate per lo più in Toscana, in aree a forte connotazione politica di sinistra. Per le parti più politicizzate di queste realtà locali, soprattutto qualche decennio fa, i paracadutisti erano visti come la personificazione del loro nemico più aborrito, il militarismo di stampo fascisticheggiante protagonista di mille incubi golpistici.
Anche a causa della storia della Specialità, infatti, i paracadutisti – che dopo l’8 settembre del ’43 non si sbandarono e continuarono a combattere su entrambi i fronti – erano ritenuti agli antipodi del mito partigiano che, nell’immaginario collettivo, rifiuta l’uniforme e si basa sul precetto della guerra di popolo e di liberazione, senza comandanti formali, con un supposto spontaneismo che si oppone all’aborrita guerra di élite e di sopraffazione del passato. In questa dimensione bellica, ovviamente, non poteva esserci spazio per alcun tipo di professionismo militare (eticamente accettabile) e, a parte il “Partigiano” e la sua corrispondente femminile, la “Staffetta partigiana”, chiunque portasse armi era un criminale da eliminare (il milite fascista) o un male necessario (il soldato delle formazioni del Sud e l’alleato) con cui fare i conti più tardi.
Peraltro, l’evoluzione del dopoguerra – imposta dal Patto di Yalta – rese necessaria, con la spaccatura del mondo in due parti contrapposte, la sopravvivenza di un sistema militare regolare con, in aggiunta, una buona dose di professionismo. Questo fatto, almeno per i più oltranzisti, non poteva quindi che essere considerato come un vero e proprio oltraggio ai valori del mondo moderno emerso dalla Resistenza, da condannare senza esitazioni.
In questa nuova-vecchia realtà, i paracadutisti della Folgore ricoprivano un ruolo particolare e privilegiato, in quanto unici Volontari in Forze Armate composte a stragrande maggioranza da coscritti, tradizionalmente tutt’altro che entusiasti di vestire l’uniforme.
E’ più che plausibile che in questa situazione generale siano da ricercare alcune tra le ragioni implicite dei disordini che negli anni ’60 e ’70 videro spesso paracadutisti in libera uscita fronteggiare giovani e meno giovani pisani in varie scaramucce tra coetanei, cosi come è da ritenere certo che in tale brodo di coltura maturò la scritta criminale che una mano anonima traccio sul muro dello Stadio di Livorno all’indomani della tragedia della Meloria (“46 paracadutisti morti, 46 fascisti in meno”).
Da allora è passata molta acqua sotto i ponti e il clima tra paracadutisti e le comunità locali nelle quali vivono con le loro famiglie e nelle quali sono nati e cresciuti i loro figli è decisamente cambiato. Ma sono stati molti gli episodi sfruttati ad arte anche negli anni successivi da pochi mestatori nel torbido per vocazione, rosi da un odio inestinguibile per la Folgore e i militari in generale. Ma il tempo è gentiluomo ed ora nessuno metterebbe in dubbio l’importanza delle nostre aviotruppe, tra gli strumenti più affidabili di cui disponga l’Italia.


SCARICATE GLI ARGOMENTI TRATTATI


GLI INTERVENTI

Italia
Il lancio di Cefalonia. Grecia, aprile 1941

Col. Alessandro Borghesi
Anglo americani
Operazione “Husky”. Sicilia, luglio 1943

Prof. Andrea Ungari.
Anglo americani
Operazione “Varsity”. Germania, marzo 1945

Gen. B. (ris.) Enrico Pollini
Anglo americani
Operazione “Neptune”. Normandia, giugno 1944

Ten. Col. Fabio Riggi
Germania: Operazione “Merkur”. Creta, maggio 1941
Gen. B. Ivan Caruso
Colpi di Mano e Raid
Anglo americani
Operazione “Biting”, febbraio 1942

Gen. Ispettore Capo Genio Aeronautico Basilio Di Martino
Germania: Operazione “Festung Holland”.
Belgio e Olanda, maggio 1940
Prof. Gastone Breccia
Germania: Operazione “Rösselsprung”. Drvar, maggio 1944
Prof. Federico Ciavattone
Operazioni abortite e Operazioni di Interdizione
Italia. Operazione “C 3”. Malta, luglio-novembre 1942

Col. Cristiano Maria Dechigi
Alleati: Operazione “Giant II”. Roma, settembre 1943
Dott. Paolo Formiconi
Italia: L’Operazione “Herring” N° 1. Emilia e Lombardia, 20 aprile 1945
Prof. Carlo Benfatti

Immagini: cortesia Brigata Paracadutisti Folgore ( 1° cmcs Daniele Mencacci) e Alfio Pellegrin (www.congedatifolgore.com)

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