CRONACA AGGIORNATA OGNI ORA

Condividi:

Pubblicato il 16/09/2014

BREGANZE- VICENZA: SI INCONTRANO D0PO 74 ANNI. NAJA E GUERRA INSIEME

Armino Cogo e Italo Rader si sono ritrovati dopo 74 anni. S.D.M.

Hanno fatto insieme la naja, nel 1940, al distretto militare di Vicenza. Uno fra gli alpini, l´altro nei carabinieri. Il commendatore Armido Cogo di Breganze e il cavaliere Italo Rader di Posina, entrambi classe 1921, si sono ritrovati dopo 74 anni al raduno Italo-Austriaco di Posina.

«Mentre attendevo il formarsi del corteo che si dirigeva sul luogo della cerimonia di commemorazione, dove dovevo intervenire come oratore – racconta Cogo, presidente di zona dell´associazione combattenti e reduci nonché socio dell´associazione nazionale ex-internati che oggi ha 93 anni – ho incontrato il mio commilitone, Italo, in vacanza nel suo paese natio. È stata una gioia immensa rivedere un compagno di leva e un amico». Da Vicenza Rader è stato mandato prima in Grecia e poi a Cefalonia. È uno dei pochi superstiti della divisione Acqui. «Nei giorni che abbiamo trascorso insieme – continua Cogo – Italo mi ha raccontato che si è salvato dall´eccidio dopo l´8 settembre 1943, per pura fortuna, in quanto si era allontanato dalla caserma diretto all´interno dell´isola, con altri commilitoni per occultare il materiale del comando della divisione Acqui. Non si è salvato però dal campo di concentramento di Kiev. Rientrato a Posina, dopo essersi sposato ed essere diventato padre, ha deciso di emigrare in SudAfrica». Nel Continente Nero, a Boksburg (città sulla East Rand di Gauteng provincia del Sud Africa) Italo ha lavorato come muratore, fino alla pensione, in una grande impresa. Non ha però mai dimenticato il suo paese d´origine e così ogni anno in estate torna a Posina per un lungo periodo di vacanza. Dopo la capitolazione dell´esercito italiano dell´8 settembre 1943, anche Armido Cogo è stato catturato in Francia dai tedeschi e deportato per due anni in un campo di lavoro a Jemback nel Tirolo. «In quel campo, che dipendeva da Mauthausen, eravamo oltre 280 italiani. Dovevamo fondere la ghisa per costruire i cingoli dei carri armati tedeschi. Stavamo in piedi ogni giorno solo con un piatto di minestra. Ricordo che se qualcuno tentava di ribellarsi, arrivavano le bastonate. Il 29 aprile 1945, sono riuscito a fuggire e a tornare in Italia, a Breganze, dove mi sono sposato con Angelina, ho avuto due figli, Diego e Gianni, ho lavorato alle Fonderie Laverda, poi per 40 anni sono stato impiegato nel Comune del paese. Insomma, tornato in patria, ho avuto una bella vita, ma i momenti terribili che ho vissuto non potranno mai essere cancellati dalla memoria. Ora voglio scrivere la mia storia perché le nuove generazioni possano capire cosa significa perdere la libertà».

Leggi anche