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Pubblicato il 02/07/2021

CHECK POINT PASTA- INTERVISTA AL GENERALE PAOLO RICCO’ . GIA’ COMANDANTE A MOGADISCIO DELLA XV COMPAGNIA DIAVOLI NERI

Classe 1963, ora comandante dell’AVES, l’Aviazione dell’Esercito, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, ha comandato la XV compagnia in Somalia.


Signor Generale,
dopo avere letto il Suo libro , mi rendo conto che quel 2 Luglio 1993 aveva tanti protagonisti sul campo. Pensa che quei fatti siano stati ben narrati?

La storia scritta è quella vissuta direttamente dalla XV^ Compagnia senza fare nessun pensiero o supposizione su quanto vissuto o fatto dagli altri protagonisti presenti, come è giusto che sia! Sicuramente i precedenti racconti sui fatti accaduti il 2 luglio del ’93 non davano assolutamente una chiara visione della realtà, forse perché raccontati da chi quel giorno non aveva partecipato alle fasi più cruente o addirittura non era nemmeno presente. La decisione di mettere per iscritto, insieme ad altri componenti della Compagnia, quanto al tempo già relazionato, vissuto e per lungo tempo ricordato, è scaturita dopo avere compreso che era giunto il momento di poterlo fare. Era giunto il momento perché l’Esercito, oggi di professionisti, poteva comprendere meglio di cosa si stava trattando; l’opinione pubblica, anche a seguito delle molte missioni condotte dalle Forze Armate italiane nei diversi Teatri Operativi, oggi è più “addestrata” a comprendere determinati fatti d’arme; e storie di altri combattimenti erano già stati raccontati. L’onore a quei ragazzi di leva poteva ora essere restituito!


Quei combattimenti cosa hanno insegnato al Militare e soprattutto all’Uomo?
Mi hanno insegnato che ciò che mi aveva fatto leggere mio Padre (Ufficiale di artiglieria) sulle operazioni di guerra dell’allora recente passato (missioni principalmente americane e francesi) mi era tornato utile poiché da quelle letture avevo evinto quanto da quegli eserciti vissuto e raccontato con particolare riferimento agli errori compiuti. Parlo principalmente di ciò che è accaduto agli americani in Vietnam e in Corea e ai francesi in Indocina. Da quelle letture ho appreso che qualsiasi piano si pensi di fare, questo deve sempre cercare di prevedere quello che gli americani chiamano il possibile “worst case scenario”, al fine di rendere tutto il resto dei possibili casi “più semplici”. E’ ovvio che durante l’addestramento bisogna cercare di prevedere ogni possibile variante, portandolo al massimo delle possibilità fisiche e materiali. L’applicazione di tale insegnamento, oggi tradotta in lezione appresa, mi ha dato, insieme ai miei uomini, ragione sul campo. Ancora oggi non ho smesso di farlo!


Cosa Le piacerebbe che l’opinione pubblica ricordasse di quella esperienza dei Militari italiani e dei Paracadutisti così intensa e traumatica per molti?
Secondo il mio punto di vista, manca ancora quella condivisione degli obiettivi comuni come magari avviene in altri Paesi quali Stati Uniti, Inghilterra e Francia, dove i militari vengono visti come uno degli strumenti nelle mani della politica per raggiungere gli obiettivi strategici nazionali e, a volte, comunitari.

Dal suo libro traspare una forma di rammarico: come Comandante di una compagnia di Paracadutisti, cosa avrebbe voluto – o potuto – fare di più, quel giorno?
Avrei potuto cercare di contrattaccare o manovrare anche se le dinamiche e i limiti del momento non me lo consentivano. Forse così avrei potuto evitare che loro prendessero il dominio dell’area dello scontro.


Tre morti e 22 feriti, alcuni gravissimi. Un Sottotenente, Gianfranco Paglia, sulla carrozzina. Ci sono ferite invisibili che si porta dietro?
Evitare la morte di Pasquale Baccaro! Non aver con indubbia chiarezza ordinato a Gianfranco Paglia di non tornare indietro dopo aver portato via i feriti. Ogni Comandante degno di portare quel nome si porta sempre dietro delle ferite nel cuore a seguito di eventi di quel genere.


I giovani militari che incontra ogni giorno, assomigliano a quelli del passato?
Oggi è diverso! Oggi sono militari per propria scelta e quindi inseguitori di una propria passione che con il tempo rischia di sopirsi a causa del progredire del tempo e dell’età, la quale comporta, tra l’altro, il dover affrontare i problemi comuni a tutti gli altri, quali il sostenere una famiglia, seguire i propri figli, garantire uno stipendio sicuro, eccetera. Allora i giovani arruolati si trovavano in quel momento della propria vita dove è molto forte lo spirito di avventura, dove il fisico è al massimo delle sue prestazioni, dove il rischio non fa ancora coppia con la paura. Le unità paracadutisti erano inoltre favorite dal fatto che quei ragazzi di leva sceglievano volontariamente di arruolarsi e di fare la vita da paracadutisti portando con se tutto quello spirito di avventura e, a volte incosciente, volontà di affrontare senza paura il rischio del quale solo le loro mamme si preoccupavano!

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