OPINIONI

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Pubblicato il 19/09/2009

EROI DI IERI EROI DI OGGI

PARMA- 18 Settembre 2009 – Pubblichiamo un articolo di archivio (risale al Febbraio 2007), per parlare di EROI.

Lo fece Framer, nella sua rubrica Osservatorio, rilevando che la carica ideale di questa parola si stava pericolosamente affievolendo.

Ecco cosa scriveva e chi gli rispondeva con un articolo illuminante:

PARLIAMO DI EROI
di Framer

Un tempo, nemmeno poi così lontano, avevamo un concetto di “eroe” molto preciso : il Pietro Micca che lancia la torcia accesa nell’ Arsenale di Torino e nella deflagrazione trova consapevolmente la morte, il nostro “ folgorino” Tenente Ferruccio Brandi che ad El Alamein si lancia dalla trincea contro i carri inglesi con una “molotov” in mano, il Salvo d’Acquisto che per salvare gli ostaggi presi dai tedeschi si offre unico responsabile di un attentato da lui non commesso…e così via!
Oggi, per meglio dire da un po’ di tempo, qualcosa è cambiato e questo concetto, a nostro parere, si sta annacquando.

Infatti sentiamo parlare e leggiamo …..di eroi del pallone, eroi delle fictions, eroi dei realitys, eroi dei cartoons…e così via, quotidianamente citati magari insieme agli eroi dissacrati di Nassirija! Niente di meglio per confonderci le idee, di per se stesse già non chiare.

Abbiamo dunque pensato che occorra fare un po’ di chiarezza, per noi sicuramente e forse per altri, ed allora ci siamo rivolti al nostro ex Ufficiale di complemento della Folgore, oggi professore ordinario di Filosofia del diritto presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, appunto il Prof. Maurizio MANZIN, la cui disponibilità a collaborare con noi ci onora fortemente.

E chi meglio di lui ci può illuminare sul tema “eroi di oggi ed eroi di ieri”?

EROI DI OGGI ED EROI DI IERI


di Maurizio Manzin

“Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti in quel film. Ed è vero: vi sono parole che possono diventare vere pietre dello scandalo, poiché si portano appresso contenuti di senso che suscitano polemiche, innalzano o abbattono destini, alimentano sedizioni…

Non poteva mancare all’appello, di questi tempi la parola “eroe”, che, un po’ come “patria” o “bandiera”, è stata tolta dai polverosi armadi in cui Brecht e i suoi epigoni sessantottini l’avevano cacciata. Ricordate? “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”, e via dissacrando.

In fondo è curioso che una società così poco “normale” come quella attuale, dove anche termini come “vita”, “famiglia”, “uomo”, “donna” hanno ormai assunto dei confini incerti, una società dove la trasgressione sembra la cifra dominante, aspiri a una normalità senza eroi.

“Eroe” richiama pugna, combattimento, sacrificio e quasi sempre –orrore!– guerra. Facile immaginare che si aspiri a sbarazzarsene. Ora, questo può avvenire in due modi principalmente: eliminando del tutto la parola a causa della sua impresentabilità, oppure desemantizzandola, cioè collegandola a significati del tutto diversi da quello originario (un eroe dei fumetti, un super-eroe, un eroe della comicità, un eroe del campionato, ecc.)

Qual è dunque questo significato originario?

Come tutti sanno, il concetto è di derivazione mitologica: l’eroe è il frutto di una congiunzione fra un essere divino e uno umano, un semidio. Ma già presso i Greci e i Romani il termine passa rapidamente a designare chiunque, uomo o donna, sia capace di gesti prodigiosi, di coraggio e tenacia tali da rischiare e – quasi sempre – offrire il sacrificio supremo della propria vita per condurre a termine un’impresa virtuosa. Anche nella tradizione biblica compaiono degli eroi: figure di profeti, re o condottieri che manifestano fra gli uomini la grandezza divina.

Direi però che l’aspetto più rilevante è quello pedagogico e didascalico: l’eroe, con il suo comportamento coraggioso e la sua abnegazione, diventa un modello per tutti gli altri uomini, sino al punto di assurgere a simbolo di un intero popolo (l’eroe eponimo). Forse il primo esempio di questo tipo di eroe nazionale è Gilgamesh, nel VII sec. a.C.

L’eroe porta dunque con sé riferimenti di un mondo – quello classico – che vedeva incarnate in lui le virtù civili della fedeltà alla stirpe, del coraggio, dello spirito di sacrificio. Egli è un semidio, un “oltreuomo” (non necessariamente nel senso nicciano) perché è capace di vivere e morire per ciò che supera la dimensione della finitezza, del qui-e-ora: una bandiera, una stirpe, un ideale… tutti elementi che oltrepassano la vita dei singoli e si proiettano virtualmente nell’eternità. Ecco perché all’eroe è associata la fama, intesa appunto come gloria imperitura. In definita, l’eroe rivela qualcosa d’immortale, la parte non caduca dell’uomo.

La civiltà borghese non ha ripudiato la figura mitologica dell’eroe, ma si è limitata a “secolarizzarla”, collegandola al suo universo di valori: patria, bandiera, servitù in armi e simili. L’eroe ha mantenuta intatta la sua funzione pedagogica e morale, semmai unita a doti di modestia, care al modello del cittadino, “uso obbedir tacendo” al cospetto della maestà dello Stato.

Nell’Italia dell’era Ciampi, dove termini quali “patria” e “tricolore” hanno riottenuto ufficiale cittadinanza, e nel mutato contesto delle Peace Support Operations, la parola “eroe” è stata rispolverata per tributare omaggio ai nostri Caduti nelle missioni d’Oltremare, soprattutto con e dopo Nassirya. Nell’occasione, il termine “eroe” ha ripreso il suo senso antico, collegato cioè al coraggio, al sacrificio, alla condizione militare.

Sotto questo aspetto, giudico positivamente l’impiego del termine, poiché addita un valore nello status militare: cosa che da lungo tempo era caduta nell’oblio. Nel momento dell’estremo sacrificio, la figura del soldato in armi torna ad essere segno di virtù civili e di decoro per la nazione. In parole povere, la sbornia hippy degli anni Sessanta e Settanta e quella pacifista dei Novanta, benché ancora politicamente rappresentata, non ha più l’esclusiva nei cuori delle persone.

Per altro verso, tuttavia, mi pare che l’uso corrente del termine rispecchi in parte il politically correct e la tendenza della società post-moderna ai “pensieri deboli”.

I nuovi eroi, infatti, non seguono più il modello romantico (quello, per intenderci, alla Enrico Toti: cuore e stampella oltre l’ostacolo, e via!, incontro a gloriosa morte), e neppure quello novecentesco (l’eroe silenzioso, l’umile folgorino di El Alamein o il taciturno alpino della ritirata di Russia), ma piuttosto il modello politicamente più presentabile del “volontariato”.

I soldati caduti nelle missioni di stabilizzazione sono “morti per cause di servizio”: su una mina, colpiti da proiettili vaganti, in incidenti stradali o di volo, in attentati. La loro condizione militare è scarsamente rilevante: sono considerati “eroi” anche le vittime delle Torri Gemelle o della stazione Atocha. Sono eroi perché, innocenti, sono morti o gravemente feriti. Ma ciò è sufficiente per considerarli tali?

È la situazione che fa l’eroe? Così sembra di capire. Il soldato, il poliziotto, il pompiere, il missionario, il volontario dell’ONG, il giornalista ecc. hanno accettato, per motivi considerati moralmente elevati, di porsi consapevolmente in una situazione di potenziale rischio. Sono “eroi” per una scelta previa. Qualcuno li ha definiti “eroi passivi”.

In passato, invece, l’eroismo comportava un atto subitaneo e irriflessivo, al limite irrazionale, segno – come dicevo prima – dell’irruzione del divino nell’umano. Come un innamoramento, come un’ispirazione poetica, come un’ebbrezza ( mania, la chiamavano i Greci ).

Oggi nel divino chi ci crede più veramente? In un mondo svuotato di riti e di miti, in cui gli stessi ministri del culto somigliano piuttosto a degli operatori sociali, in cui l’invisibile è bandito e la tecnica sembra imporre ovunque le sue ferree regole di efficienza, che spazio può avere il “bel gesto”, la “divina follia”, la stessa bellezza priva di ricadute concrete?

Direi, dunque, che l’“eroe passivo” esprime al meglio una visione del mondo, appunto, “debole”, incapace di sorreggersi se non su motivazioni razionali e “politicamente corrette”, su ideali che possono essere accettati solo se socialmente condivisi e opportunamente “tiepidi”. Eroi per un mondo che non ha bisogno, brechtianamente, di eroi.

Di fronte a quest’accezione del termine “eroe” possiamo assumere, a seconda delle inclinazioni personali, due atteggiamenti: quello del bicchiere mezzo pieno o quello del bicchiere mezzo vuoto. Possiamo dire: meglio così che niente; meglio un eroe per cause di servizio che una totale piattezza morale, meglio questo modello che quello dei calciatori e delle veline. Oppure possiamo ribellarci all’idea che un “eroe attivo” sia per forza di cose un pericoloso fanatico, e continuare a credere che le medaglie debbano decorare il petto (o il feretro) di chi davvero ha “superato se stesso” mostrando che l’uomo può essere una creatura di Terra e di Cielo, impasto – come ha scritto il filosofo Sergio Cotta – di finito ed infinito. Sono entrambi atteggiamenti rispettabili, a mio modo di vedere.

Quanto a noi, paracadutisti, che volete che si dica? Si sa, siamo quelli un po’ matti. A noi, con la terra ed il cielo, ci è sempre piaciuto avere familiarità!

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