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Pubblicato il 20/06/2020

IL MAGO COLAO E IL FRULLATORE ANAGRAFICO DEL DOPPIO COGNOME

di Marco Bertolini

RICOGNIZIONI.IT
DOPPIO COGNOME, UN’ALTRA BOMBA SULLA NOSTRA STORIA E SUL NOSTRO FUTURO


I molti commenti sulle invenzioni di Vittorio Colao, il supermanager scelto dal Governo Conte per salvare l’Italia non si sa a quale titolo e per quale merito (accademico, imprenditoriale, politico?), hanno sviscerato le scoperte dell’Alchimista in ogni dettaglio. Diversamente non potrebbe definirsi infatti chi, dal suo laboratorio nella patria di Harry Potter e di Mago Merlino, è riuscito a trovare la formula magica che trasformerà il vil piombo in oro, la depressione attuale in rinascita nazionale. Andando ben oltre la riparazione dei danni causati dalla recente pandemia, infatti, è uscito dal suo laboratorio l’elisir che trasformerà la nostra società da capo a piedi, in tutte le sue mille sfaccettature.


La ricetta della pozione prevede sei ingredienti differenti ma sapientemente interagenti tra di loro (Imprese e lavoro, Infrastrutture e ambiente, Turismo, arte e cultura, Pubblica Amministrazione, Istruzione, ricerca e competenze e, infine, Individui e famiglie) oltre naturalmente alle code di topo e rostri di pappagallo, mentre le ali di pipistrello sono state eliminate perché controindicate col COVID-19.


Ma tornando ai commenti, buona parte si sono concentrati proprio sull’ultimo ingrediente, Individui e famiglie, nel quale l’aspirante taumaturgo che tutti speriamo proiettato verso più alte responsabilità in campo politico nazionale, si è prodotto con sincera passione.


Non per falsa modestia, ma per vera consapevolezza sulla limitatezza dei miei mezzi di comprensione, mi limiterò a mia volta a qualche commento su quest’ultimo argomento, iniziando a osservare che l’uso del plurale “famiglie” al posto della semplice “famiglia” a cui fa riferimento il Nostro è già denso di significati. Da quando il progenitore logico e morale dell’attuale Esecutivo, il Governo Renzi, si produsse infatti nello sdoganamento delle unioni civili con una legge che aveva come prima firmataria Monica Cirinnà, la cellula fondamentale della nostra società – teoricamente tutelata da una Costituzione spesso ridotta ad una coltre elastica capace di coprire ogni fantasia – ha perso la sua caratteristica univoca, aprendosi gioiosa al mondo colorato dei diritti più impensabili. Insomma, da allora non è più sufficiente parlare di “famiglia”, al singolare, e ci siamo arricchiti di famiglie di tutti i tipi e per tutti i gusti, in attesa di ulteriori arricchimenti dell’istituto mediante l’inclusione degli abbracciatori di alberi e dei pet-enthusiast.


La componente “cattolica” della coalizione di allora, come si ricorderà, mugugnò per qualche decimo di secondo, ma fu felicemente rassicurata dai promotori sulla non trasformazione della novità in nuova forma di matrimonio, e se ne tornò tranquilla a pisolare con la benedizione di qualche alto prelato d’assalto. Resta il fatto che da allora è diventato obbligatorio e politicamente correttissimo parlare sempre di famigli(e), essendo la famiglia dei tempi bui insufficiente a comprendere la complessità e la ricchezza della nuova era. Alcuni tra i frutti di questo nuovo spirito si erano già visti a Verona, al World Congress of Families nel marzo del 2019, quando torme di “nuovi familisti” si sono lanciati in sagaci battute che solo un povero di spirito potrebbe considerare blasfeme, come quella sintetizzata nel cartello esibito dalla Cirinnà nel quale il motto mazziniano di “Dio, Patria e Famiglia (appunto)” veniva associato a una “vita di me..a”.


Ciò premesso, appare chiaro che l’ampia portata della rivoluzione colaoniana non si vuole limitare a qualche pannicello caldo ma punta finalmente ad una trasformazione nel profondo della nostra società, proprio per il fatto che associa a proposte di carattere economico ed organizzativo sulle quali si può discutere, un cambiamento sociale profondo che disancori l’Italia dal moletto mediterraneo per portarla tra le brume dei mari del suo amato Nord Europa. Lo si capisce dalla scheda 94 sugli “Stereotipi di genere”, laddove nel descrivere il contesto nel quale il suo auspicato intervento si dovrebbe inserire, cita la “violenza sulle donne” e la percezione della donna come “mater familias” tra i punti salienti del nostro sentire nazional-popolare sui quali intervenire, a partire dall’educazione (o forse rieducazione) dai primi anni di scuola primaria. Poco conta, al riguardo, che Italia e Spagna, le oscurantiste e cattoliche Italia a Spagna, risultino da sempre percentualmente in coda nella classifica dei paesi europei con riferimento alla violenza sulle donne; e pochissimo conta che la Svezia della quale dovremmo invidiare il modestissimo 11%, contro il nostro retrivo 51%, di chi vorrebbe la donna relegata a fare la calzetta sia messa molto peggio di noi in quella graduatoria sanguinolenta. Certamente ci deve essere un errore, o un “misunderstanding” giusto per essere chiari anche oltremanica, e dovremmo vergognarci. Insomma, bisogna intervenire.


E gli interventi che il supermanager propone sono molti in questo campo, anche se personalmente mi sfugge il rapporto di causa ed effetto tra le misure in questione e la crescita economica e generale che dovrebbe essere da esse favorita. Soprattutto, mi sfugge come queste misure possano invertire un trend di denatalità che ci condanna ad un impoverimento inarrestabile da tutti i punti di vista, nonché ad una sostituzione etnica che evidentemente non lo impensierisce.


Su tutto questo, sulle misure censorie nei social per combattere “i termini e le locuzioni discriminatorie”, sull’indottrinamento scolastico, sulla promozione di interventi che propagandino una figura femminile non stereotipata, sulle penalizzazioni per garantire visibilità alle donne in attività non muliebri e viceversa, sulla incentivazione dello sport professionistico femminile, eccetera, si sono già concentrate molte delle critiche dei più attenti. Peraltro, ritengo che meriti maggiore attenzione la misura posizionata perfidamente nell’ultima paragrafo dell’elenco nella scheda, quasi di sfuggita, riferita all’introduzione automatica del doppio cognome dei genitori alla nascita, salvo diverso accordo tra gli stessi.


Nonostante la posizione, infatti, ritengo che si tratti di una misura importantissima, alla quale si conferisce grande importanza. Il doppio cognome era già stato previsto dalla Consulta alcuni anni fa. Parlo della stessa Consulta che ha aperto più di uno spiraglio alla sindacalizzazione delle Forze Armate, cioè alla loro smilitarizzazione di fatto, e che rappresenta l’organismo giurisdizionale di vertice alla cui composizione contribuiscono organismi come il Parlamento, ma anche quel CSM politicizzato che è balzato alle tristi attenzioni della cronaca ultimamente. Non se n’era poi fatto niente, per fortuna, forse grazie alla resipiscenza di qualcuno o alle difficoltà di un provvedimento che si tradurrebbe in una deflagrazione burocratica dagli effetti imprecisabili. Ma la porta era stata aperta, ed ora la si vorrebbe attraversare.


Eppure, si tratta di un provvedimento che non si può ridurre ad un mero accorgimento tecnico, ma che si tradurrebbe in un frullatore anagrafico che inciderebbe profondamente nel sostrato culturale ed addirittura spirituale della nostra società. Il cognome paterno, infatti, è lo strumento che consente di ricostruire abbastanza facilmente i legami familiari tra generazioni successive. Scartabellando alla sua ricerca nei registri delle anagrafi e delle parrocchie, è possibile scavare nei secoli, fino a definire le generazioni che si sono succedute, padri, madri, figli e figlie, e a capire come le varie famiglie si sono incrociate tra di loro, soprattutto a partire dal Concilio di Trento che rimise ordine in materia. E questo, si badi bene, sia per gli uomini che per le donne. Al contrario, un intervento di qualsiasi genere in questo campo priverebbe entrambi i sessi (o i generi come è ora di moda chiamarli) di un mezzo per ricostruire la storia dei propri vecchi, padri e madri, senza difficoltà. E questo è un lusso che il sistema vigente assicura a tutti noi, senza distinzione tra nobili e plebei, tra ricchi e poveri.


Non regge certamente la storia delle pari opportunità brandita come una mazza, in quanto l’eventuale attribuzione del doppio cognome si sostanzierebbe nell’associare al nome paterno il nome del nonnO materno, almeno per la prima generazione. Dalla seconda, invece, caos completo! Che cognome avrebbero i nipoti, insomma? Ne userebbero quattro (e otto i loro figli)? Si userà il primo (quello del padre)? O il secondo (della madre)? Si tirerà a sorte? O si lasceranno liberi i novelli genitori di iniziare la serie delle loro liti familiari su un argomento sul quale non c’erano divisioni, in nome di quel “salvo diverso accordo tra gli stessi” nascosto in calce all’ultimo paragrafo?


Insomma, attraverso un provvedimento del genere passerebbe come neutra misura di “giustizia” sociale una bomba antropologica destinata ad alterare irrimediabilmente il rapporto tra noi e il nostro passato. Le famiglie si ridurrebbero all’istantanea del momento attuale, senza alcuna possibilità di individuare da chi veniamo anche solo mediante una semplice ricerca, coi fiori in mano, tra le lapidi dei cimiteri. Fatte le debite proporzioni, si tratta di un’operazione simile a quella degli attuali abbattitori delle statue di Cristoforo Colombo in America o di quanti vorrebbero rimuovere i monumenti e i reperti di civiltà nelle quali hanno deciso di non riconoscersi. Lo stesso facevano, in nome della vera religione, i talebani abbattendo i Buddah di Bamian e i miliziani dell’ISIS coi monumenti di Palmira ritenuti sconvenienti.


La rimozione di un passato che non si ama o che si vuole “cambiare”, mediante l’eradicazione delle sue tracce nel presente, è stata sempre lo strumento di tutte le damnatio memoriae praticate dai regimi più liberticidi, in ragione del fatto che chi non si sente parte di un flusso che attraversa tutte le epoche non avrà neppure la volontà di progettare un futuro che non lo riguarda, e comunque diverso da quello che gli verrà servito su un vassoio da chi esercita il potere.


Il sogno del Grande Fratello, insomma, passa anche e forse soprattutto dalla riduzione del tutto al presente, senza illusioni escatologiche e senza speranze di sopravvivenza nel ricordo di chi seguirà. L’aspettativa della fine dei tempi, che si vorrebbe far coincidente con la fine della vita di ognuno di noi, toglie quindi significato a sacrifici e progetti, a speranze ed sogni riposti nel destino dei propri successori. Un popolo che così si concentri solo sul godimento del poco o del tanto che gli verrebbe assicurato per i suoi bisogni sarebbe la mandria perfetta da mungere; senza temere incornate da parte del toro.

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