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Pubblicato il 01/07/2018

IL MATTINO DI NAPOLI INTERVISTA GIANFRANCO PAGLIA MOVM

FOTO SOPRA: CORTESIA GIANFRANCO PAGLIA- SCATTATA DA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE BRIGATA FOLGORE, scatti a cura cmc par Daniele Mencacci . LA MOVM GIANFRANCO PAGLIA MENTRE SALUTA I NEO BREVETTATI PARACADUTISTI DEL 55MO CORSO IL 39 GIUNO AL CAPAR DI PISA


Il Mattino Circondario Nord
data: 1/7/2018 – pag: 13

 

Valentino Di Giacomo
«Vorrei andare a Mogadiscio per deporre una corona in onore dei Caduti del 2 luglio 1993, ma ancora non è possibile». Venticinque anni fa la vita del tenente colonnello Gianfranco Paglia, medaglia d’oro al valor militare, cambiò per sempre. Quel giorno, negli scontri a fuoco tra le truppe italiane e i ribelli somali, persero la vita tre soldati italiani. Il paracadutista napoletano Gianfranco Paglia fu colpito da tre pallottole mentre cercava di portare in salvo l’equipaggio di uno dei blindati immobilizzati dall’imboscata dei ribelli. Il proiettile che lo colpì al midollo spinale costringerà l’ufficiale alla sedia a rotelle, nonostante questo, il militare ha continuato a partecipare a diverse missioni all’estero ed è attualmente consigliere del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta.
Ancora oggi la Somalia è uno dei Paesi più poveri e instabili del mondo. Lo vive come una sconfitta personale?
«Nessuna delusione, ma va sicuramente aperta una riflessione sull’importanza di svolgere missioni di pace in queste zone del mondo. Oggi c’è un convoglio italiano di circa cento unità in Somalia, tuttavia c’è la necessità che l’intera comunità internazionale valuti un rinnovato impegno su quei territori. Attualmente a comandare la missione Onu è un italiano, questo evidenzia una volta di più l’apprezzamento che riscuotono i nostri soldati ovunque».
Solo pochi giorni fa, a Napoli, due migranti arrivati sui barconi sono stati arrestati per terrorismo. Venivano dal Gambia e si erano addestrati nei campi dell’Isis in Libia.
«La sfida del presente è difficilissima. Il pericolo che insieme a chi fugge da fame e guerre possa nascondersi qualche terrorista è purtroppo alto. Ecco perché serve intervenire direttamente nei Paesi di partenza e di transito, troppi attentati sono avvenuti in Europa compiuti anche da chi era arrivato sui barconi, come ad esempio l’attentatore di Berlino, Anis Amri, che per anni era stato in Italia. È ovvio che non possiamo andare in ogni parte del mondo, ma per rendere più sicure le nostre città e la nostra popolazione servono interventi incisivi».
La Libia intanto non vuole creare hotspot sul proprio territorio. Come se ne esce?
«A settembre il ministro Trenta volerà probabilmente a Tripoli per parlare con le autorità locali. Mi auguro che fino a quel tempo la situazione possa cambiare perché terrorismo e migrazione sono fenomeni che riguardano tutti e ognuno deve fare la propria parte. Per ora la strategia del nostro esecutivo mi sembra vada nella giusta direzione, abbiamo ascoltato il governo libico costruendo un ospedale a Misurata rafforzando il nostro impegno umanitario».
Abbiamo anche un contingente in Niger pronto per essere operativo a Sud della Libia dove passano gran parte dei flussi migratori. Il governo nigerino non ha ancora autorizzato la missione, c’è lo zampino della Francia?
«L’Italia vuole fare la propria parte per prevenire che i migranti possano morire in mare attraversando il Mediterraneo e alimentando i traffici criminali di chi gestisce queste tratte. Se ci sia un’influenza della Francia non so dirlo, ma parliamo di un Paese che ha vissuto il dramma di diversi attentati, credo che cooperare insieme sia indispensabile per tutti in questo momento storico».
Nonostante la sua condizione dopo i tragici fatti in Somalia ha continuato a partecipare alle missioni.
«Siamo l’unico Paese che prevede il Ruolo d’Onore per i militari rimasti feriti, un segnale fortissimo che il Paese non ti abbandona e ti dà possibilità di continuare a servirlo. Una norma invidiata del mondo e che presto sarà replicata anche da altri contingenti. Non hanno posto alcun tipo di limite sul mio utilizzo, oltre ad essere stato in Bosnia e in Kosovo, lo scorso anno ho anche partecipato ad un’esercitazione in Sardegna dove ho potuto addestrarmi a sparare da un elicottero. Fa piacere perché ti senti trattato da soldato e che lo Stato Maggiore della Difesa ti ritiene una risorsa».
Venticinque anni fa veniva sparato, ha visto morire suoi colleghi che da eroe ha cercato di salvare. Eppure ritiene servano altri interventi.
«Sono 25 anni che ripeto di non essere un eroe, ho fatto il mio dovere come lo fanno tutti coloro indossano l’uniforme. Noi portiamo la pace nel mondo e tutte le popolazioni dove abbiamo operato ci vogliono bene. Non odio neppure chi mi ha sparato, ma va compreso che la sicurezza in Europa passa anche dalla capacità di prevenire i pericoli fuori dai nostri confini e oggi non può essere trascurato il fatto che rispetto a quei dolorosi episodi di Mogadiscio i nostri soldati sono equipaggiati con mezzi e protezioni migliori. Noi non andiamo in guerra, anzi, venticinque anni fa evitammo di utilizzare armi pesanti per non fare una strage di civili. Non avremmo mai potuto guardarci allo specchio se lo avessimo fatto».

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