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Pubblicato il 17/02/2020

IL MESSAGGERO VENETO RICORDA L’INGEGNER LARDINELLI – PARACADUTISTA ED AVIATORE- COMBATTENTE FOLGORE MONCENISIO 1945

Il Messaggero Veneto del 17 Febbraio ricorda oggi l’ingegner Giorgio Lardinelli (nella foto in alto a destra, ndr), combattente della Folgore sul Moncenisio , pioniere del paracadutismo estremo.
Giorgio Lardinelli, udinese , ingegnere e collaudatore collaudatore di paracadute. Iniziò nel 1959 con un paracadute con fenditure denominato il “Tulipano”, disegnato da Giuseppe Lisi. A freiburg quell’anno fece una caduta libera sino a pochew decine di metri dal suolo. In Francia fu soprannominato “L’homme tulipe”, in Germania, “L’uomo che venne dalle nubi”. Il 7 ottobre del 1963, a Kulmbach, aprì giuto in tempo, toccando terra dopo due secondi dall’apertura. Fu insegnante all’istituto tecnico Malignani a Udine. Morì nel febbraio 2005 precipitando a Precenicco con un ultraleggero da lui costruito. Il velivolo biposto era dotato di un unico motore posto davanti alla cabina di pilotaggio.

Per il nostro giornale scrisse un articolo che ricordava la sua esperienza sul Moncenisio:
Eccolo:

LA FOLGORE NEL 1945 SUL MONCENISIO
2 Aug 2001
Autore: G.LARDINELLI

5 Aprile 1945. Un’alba livida schiariva il cielo delle Alpi Occidentali nella zona del Moncenisio. Babacci ed io, ultimato il turno di sentinella, venivamo rilevati dalla postazione da due commilitoni e rientravamo in una baracchetta di legno definita impropriamente “bunker”. Ci eravamo appena sdraiati sulle tavole del pavimento per riposare un po’ quando il silenzio che avvolgeva le montagne veniva bruscamente interrotto da alcune cannonate. Pensavamo fosse qualche colpo di disturbo, ci eravamo abituati e non ci facemmo gran caso.


Nei minuti successivi, però, i colpi si intensificarono fino a che una grandinata di proiettili martellava con cinica precisione tutta la zona del fronte che si potesse abbracciare con lo sguardo. Alcune bombe facevano schizzare verso l’alto lapilli di fuoco che ricadevano al suolo come inverosimile cascata luminosa. Pensavamo trattarsi di granate al fosforo. Il veneziano Luise, mitragliere della squadra, osservava con espressione sbigottita dalla finestrella del bunker, il cui vetro si era spaccato per le vibrazioni conseguenti agli scoppi, lo scenario da inferno dantesco nel quale venivamo coinvolti. Gli sfuggì, con spontanea ingenuità , un commento: “ostrega! par de esser al Redentor”, la grande festa Veneziana che culmina con spettacolari fuochi d’artificio. Ma non si trattava di una festa. Dopo circa quaranta minuti le artiglierie allungarono il tiro. Era evidente trattarsi della preparazione che preludeva un attacco. Quasi contemporaneamente le sentinelle, con un rudimentale ma efficace marchingegno costituito da un campanaccio fissato all’interno del bunker e collegato con un lungo cavetto al posto di guardia, davano l’allarme.

Il caporal maggiore Casadei, romagnolo, che comandava la squadra, ci ordinò di occupare le postazioni che ci erano state precedentemente assegnate. Lui sarebbe andato a rilevare le sentinelle, troppo isolate, perche raggiungessero anch’esse i loro posti di combattimento.
Casadei era un camerata leale e generoso ma possedeva un carattere paragonabile ad un cactus. Era sempre rude e scontroso e non chiedeva ne voleva favori da nessuno. Rimasi quindi molto sorpreso quando, nel separarci, mi chiese in prestito l’elmetto che avrei sostituito con il suo. Forse aveva un presentimento. Su di esso, infatti, sia pure in modo del tutto scanzonato, si era intessuta la leggenda di procurare invulnerabilità al suo possessore da quando, in un precedente scontro a fuoco, mi aveva salvato la vita deviando una pallottola giunta inclinata ma che avrebbe trapassato il cranio. Ne portava le tracce consistenti in un’accentuata scanalatura striata di piombo. lo comunque ne ero molto geloso ma, pensando al grande rischio che Casadei stava per affrontare da solo, non ebbi il coraggio di negargli il favore. Molto più tardi quando ci ritrovammo all’Ospedale di Torino dove eravamo stati ricoverati per le ferite riportate in quella battaglia seppi, e me ne rallegrai, che il mio mitico elmetto aveva salvato la vita anche a lui.

Infatti, raggiunte le sentinelle che non si erano mosse dalla loro posizione e stavano sparando su un gruppo di avversari che le attaccava, coprendole con il fuoco del suo mitra, ordinò loro di attestarsi sulle rispettive postazioni molto più adatte alla difesa. Mentre le sentinelle si “sfilavano”, un isolato colpo di mortaio gli esplose vicino ed una scheggia lo raggiunse spaccando l’elmetto e ferendolo gravemente alla testa, ma proprio la robustezza del copricapo aveva evitato il peggio. Quell’ elmetto aveva salvato due vite. Mentre cadeva fu raggiunto da una raffica che gli spaccò l’arma fra le mani, ferendolo di striscio, ed inoltre fu investito al volto da minute schegge, provocate da bombe a mano che la truppa d’assalto nemica, ormai a brevissima distanza, gli aveva lanciato contro. Poco dopo gli passarono accanto. Lo ritennero morto e non era difficile crederlo, tutto coperto di sangue ed immobile come era.
Continuò a fare il morto tanto più che quel ruolo non doveva risultargli ormai troppo difficile. Solo più tardi, trascinandosi sulla neve, potè raggiungere il bunker dove rimase fino a notte quando fu trasportato in retrovia. Frattanto Babacci, Luise, Raia ed io avevamo preso posto nella postazione che ci era stata assegnata. Un modesto rilievo che però ben si prestava alla difesa del passo. Carli, Gorzigli, Bonaccina, che sarebbe caduto da valoroso il giorno successivo, ed un quarto paracadutista erano arroccati in un’altra postazione. Del nostro gruppo, il più anziano, era Babacci, aveva diciannove anni, poi c’ero io con diciotto anni e qualche mese, quindi Luise che non aveva ancora compiuto i diciotto e infine Raia, genovese, che con i suoi quasi diciassette anni era la mascotte della compagnia ma combatteva come gli altri. La maggior parte dei difensori del Moncenisio, esclusa una modesta percentuale di “vecchioni”, aveva età compresa tra i diciotto e vent’anni. Di fronte a noi, in posizione più elevata, potevamo notare un brulichio di truppa nemica che si apprestava ad attaccare mentre tutt’intorno si udivano le pallottole con il loro inconfondibile sibilo metallico mentre trapanavano l’aria o colpivano, alcune rimbalzando, la nostra altura. Il “concerto” era accompagnato dal crepitio di armi automatiche. La nostra mitragliatrice era rimasta sul cocuzzolo. Si trattava di una Safat 7.7, di quelle montate sugli aeroplani, alla quale era stato sistemato un “calciolo” da appoggiare sulla spalla ed un bipiede anteriore. Era pesante ma sgranava colpi con rapidissima frequenza. Luise non aveva potuto trascinarsela dietro con le due cassette di munizioni. Era stato “inquadrato” allo scoperto e solo con molta fortuna riusciva a buttarsi dentro quella specie di trincea naturale.
Non potevamo comunque rinunciare a quell’arma, almeno come deterrente. Fu così che, senza pensarci, schizzai fuori per recuperarla. Io vedevo chiaramente gli avversari e loro vedevano me e mi scaricavano contro le loro armi. Con buona fortuna riuscii ad afferrare la mitragliatrice ed arraffai anche le cirighie delle cassette di munizioni rotolando al coperto, in un groviglio con il tutto, ma incredibilmente incolume. Con un pezzo della camicia di qualcuno di noi ripulii, quanto meglio potevo, il meccanismo di alimentazione poi che era molto facile che si inceppasse. Era un’arma delicata, nata per gli aeroplani e lassù non c’è sudiciume.


Volli prendermi una rivalsa sparando un paio di raffiche prima di riconsegnarla a Luise. L’ effetto offensivo fu certamente irrilevante ma almeno si poteva sentire l’esistenza di una mitragliatrice anche da parte nostra. In quel settore eravamo solo in otto poiche uno era ormai fuori combattimento. Costituivamo la punta avanzata ed avevamo una grossa responsabilità . Infatti i rinforzi, sul cui avvicinamento non avevamo dubbi ma il cui numero era drasticamente inferiore a quello degli avversari, se noi avessimo ceduto, sarebbero stati intercettati allo scoperto in una insostenibile sperequazione di forze e massacrati. Quindi non avevamo scelta. Dovevamo bloccare il nemico li dov’era. Su questo eravamo decisi con una determinazione e una serenità che, a ripensarci oggi, si potrebbe definire sconcertante. La spiegazione comunque c’ era. Non si trattava di fanatismo ne tanto meno di montatura. Certi atteggiamenti melodrammatici si possono avere nei comizi o allo stadio, non certamente in prima linea quando si ha di fronte truppa combattente del proprio stesso livello alla quale non si concede e dalla quale non ci si attende di avere sconti. E’ che a quel tempo esistevano ancora valori morali dei quali si era consapevoli.


La Patria non si considerava un concetto astratto o retorico ma quella terra dove vivevamo, dove c’ erano le nostre famiglie, i nostri amici, la nostra gente. La sentivamo nostra e la difendevamo. Poi c’era il dovere, rappresentato in quel momento, dalla lealtà verso i commilitoni che non potevamo mettere: in una situazione critica solo per un istinto di vile tornaconto. Combattemmo da soli per diverse ore. Sparavamo con calma mirando colpo su colpo come ad un’ esercitazione. Le canne dei nostri fucili scottavano ma il nostro fuoco si dimostrava molto efficace. Per tale ragione, penso, che il nemico non avesse realizzato di avere di fronte così pochi difensori del passo, diversamente, con il loro schiacciante numero, avrebbero sferrato un attacco a fondo. Si sarebbe, comunque, concluso in modo molto cruento poiche di lì, vivi, non ci avrebbero “scollato” di sicuro. La nostra puntigliosa resistenza aveva permesso frattanto ad un plotone di paracadutisti di arrivare a breve distanza da noi. Quando udimmo il grido di guerra “Folgore” rimanemmo in un primo momento increduli. Non si potrebbe in alcun modo esprimere con le parole il nostro stato d’ animo in quel momento. Ormai non ci speravamo più.

Eravamo rimasti, fra tutti, con un solo caricatore di fucile e avevamo già deciso come alternarci alla mitragliatrice perchè la nostra eliminazione durasse il più a lungo possibile per dar modo ai rinforzi di potersi attestare e contrattaccare il nemico da una posizione accettabile. Purtroppo, l’ultimo tratto che ci separava era completamente allo scoperto ed il fuoco avversario creava una cortina di morte. Munari, il mitragliere del gruppo, puntò deciso verso una posizione da dove avrebbe potuto contrastare con efficacia il fuoco avversario permettendo ai nostri di superare la zona critica, ma in quel micidiale percorso venne mortalmente colpito. Raggiunse comunque l’ obbiettivo, piazzò l’ arma e vi morì sopra.

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