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Pubblicato il 04/06/2021

IL RACCONTO DI CARLO MURELLI NELLA SUA POSTAZIONE DI EL ALAMEIN di Aldino Bondesan

Il racconto di Carlo Murelli nella sua postazione di El Alamein
Il ricordo di Aldino Bondesan

Carlo cammina al nostro fianco con passo lento e sicuro, ad onta dei suoi novant’anni suonati. Basso di statura, modi cortesi, ti trasmette un senso di forza e di sicurezza.
Dopo settant’anni rimette piede sul Dosso del Bersagliere, così chiamato dai folgorini che lo presidiavano, perché lì un bersagliere di rincalzo aveva perso un piede incappando su una mina inglese.
La lunga dorsale, che fronteggiava le linee britanniche all’estremità meridionale del fronte desertico, collega Naqb Rala, uno dei luoghi simbolo della resistenza della Folgore, con un altro luogo iconico, Quota 105, dove si infransero per sempre le speranze di Montgomery di sbaragliare i paracadutisti con un’azione fulminea nella notte del 23 ottobre 1942.
«No, non è qui. Vedevo la collina dell’Himeimat da un’altra angolazione». Io e Lamberto Fabbrucci siamo impressionati dalla lucidità del ricordo. Consultiamo le nostre carte, frutto di lunghe ricerche e confronti con le foto da satellite: Carlo ha ragione, le postazioni della 17a compagnia, VI Btg. Folgore, di cui lui faceva parte, sono più a nord. Camminiamo ancora un poco. Di fronte a noi un uomo silenzioso scruta l’orizzonte, si confronta con un passato lontano, impresso indelebilmente nella sua memoria.

Ancora qualche passo. «Qui, io ero qui!». Improvvisamente si illumina. Ci troviamo in un avvallamento, una sorta di trincea naturale. Sul rovescio della dorsale scorgiamo il caposaldo della Folgore composto da alcune buche, in parte seppellite dalla sabbia. Carlo si anima, accelera il passo, scende e risale in fretta la breve china. «Qui si trovava un mio compagno, lì avevamo la riservetta» esclama indicando diversi punti attorno a lui.
Ora siamo impazienti di sapere, iniziano le domande, e il racconto lento e preciso ci riporta alla vigilia della Battaglia Grande.
Carlo era mitragliere. Ci parla di quando un caccia britannico scende a bassa quota, mitraglia la postazione facendo saltare in aria la sua Breda e vola così vicino che Murelli ha modo di fissare il volto del pilota, prima di gettarsi al riparo nella scarpata.
La notte del 22 ottobre lui e i suoi camerati odono un rumore assordante di cingoli e motori, uno sferragliare frenetico e minaccioso, e alla mattina del 23 il fronte davanti a loro, che sono in prima linea, è tutto un brulicare di veicoli, carri, uomini e materiali. Nessuno si fa illusioni, a nessuno è sfuggito che l’attacco è in procinto di essere lanciato con una violenza mai vista prima in Nordafrica.
Ci narra del bombardamento notturno, degli scontri, della sconfitta inglese e della ritirata successiva dei reparti paracadutisti verso la linea di Fuka, a ovest. Siamo consapevoli che, in quegli istanti, abbiamo il privilegio di ascoltare un frammento di storia italiana e di storia del paracadutismo militare dalla viva voce di uno dei protagonisti.

Il convoglio di fuoristrada che ci aveva condotto sulle postazioni rientra alla sera a El Alamein. All’hotel, dopo cena, incalziamo Carlo con nuove domande, vogliamo conoscer la sua storia. Lui ci accontenta, usa il tono pacato che abbiamo altre volte ascoltato nei reduci, le rodomontate e la vanagloria non fanno parte del loro stile. «Durante la ritirata non avevamo da mangiare e poco da bere, camminavamo verso ovest, eravamo affamati». Ci racconta del gruppetto che marcia in retroguardia. Incontrano un deposito di derrate abbandonato, grandi forme di parmigiano e tonno in scatola. Ne fanno una scorpacciata, ma la sete a questo punto diventa insopportabile. Restano isolati, e vengono alla fine catturati. Un attempato sottoufficiale inglese prende in consegna i giovanissimi folgorini. Dà loro un po’ d’acqua, lentamente, umettando prima le labbra con una pezzuola. Il sergente ha grosse lacrime che gli rigano il volto, è impietosito dalle condizioni dei ragazzi italiani, forse gli ricordano qualche figlio o nipote in patria.
A fine serata ci alziamo in piedi per accomiatarci, Carlo si avvicina a noi, si vede che è a disagio, quasi imbarazzato, e ci fa un’ultima confessione col suo tono di voce garbato: «Oggi mentre risalivo la scarpata, mi sono girato indietro per cercare i volti dei miei compagni, per un attimo ho creduto che fossero ancora lì, al mio fianco. Poi sono ritornato in me e mi sono detto: “Carlo, ma cosa mai ti viene in mente? Loro non sono più qui…”»
Vogliamo credere che ora siano tornati di nuovo insieme.


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