EL ALAMEIN

Condividi:

Pubblicato il 07/11/2010

IL RACCONTO DI UN PARACADUTISTA “COOPERATORE”

PARMA- Ammiriamo e stimiamo profondamente i Paracadutisti che non cooperarono con gli inglesi e furono sottoposti al durissimo trattamento dei Fascist Criminal Camp: Emilio Camozzi, Gaetano Pinna, Andrea Fiumi,Glauco Vigentini e tanti, tantissimi altri Leoni indomabili che ho avuto ilprivilegio di conoscere.

Non possiamo tuttavia far finta di non sapere che Vi furono anche Paracadutisti della Folgore che -per avere condizioni di vita migliori- accettarono una prigionia dove lavorarono per gli inglesi in mensa, ai servizi, in cucina oppure all’esterno dei campi.

Erano i “cooperatori” che -ironia della sorte- furono traditi dal nemico con un trattamento per moltissimo tempo di poco differente dagli altri. Solo in alcune rare occasioni furono privilegiati e goderono del rimpatrio 12 o 16 mesi prima degli altri.

Alcuni di loro furono spediti in India “per premio”.

Queste poche righe servono per introdurre il racconto di Gino Compagnoni, IV Battaglione, catturato il 25 Ottobre a El Alamein. Leggiamolo con benevolenza: non tutti ebbero la forza di continuare la sofferenza di una prigionia durissima, ma ad El Alamein furono Leoni come gli Altri, e non spetta a noi, indegni eredi, giudicarli.

PRIGIONIERI di GUERRA
di Gino Compagnoni

24 OTTOBRE 1942:: è l’alba, una decina di bren-carrier e autoblindo
si muove in cerchio intorno alle nostre postazioni, dalle torrette emerge il mezzo busto dei carristi. Sono fissate alle antenne radio dei mezzi corazzati bandierine triangolari giallo rosse che sventolano lentamente a destra ed a sinistra. Chiedono la nostra resa. I componenti la mia squadra stanno uscendo dalle buche . Due “ tommy “sul ciglio della mia trincea: urlano “come on, hand up” inutilmente tento di far capire che un ufficiale è ferito gravemente e deve essere aiutato. Sono chinato sul Tenente Brandi ( per questa azione è stato decorato della M.O.V.M. ) che non dà segni di vita e subisco colpi violenti sulla schiena. Esco dalla postazione convinto che non lo rivedrò mai più.

Uno dei due “tommy” mi toglie la pistola e l’orologio, l’altro mi prende il pugnale e mi strattona, vuole il binocolo mi spinge in terra e quasi mi strangola. Infatti mi è veramente difficile fargli capire che prima si deve togliere la cinghia della borraccia, poi la cinghia della borsa tattica ed infine la cinghia dell’astuccio che contiene il binocolo. Uno dei due mi indica l’autoblinda incendiata (subito però bloccato dall’altro) e mi percuote violentemente con il suo Thompson che usa come una clava , sull’elmetto, sul petto e sulla mia schiena dolorante.

Un soldato ( “Francia Libera” ? ) si avvicina e, sorridendo davanti a me, apre una lattina, me la offre e mi fa capire che posso bere, che è per me. Sono sbigottito e commosso dal gesto imprevedibile. Grazie. Rifiuto. Non vedo nessuno dei fucilieri del IV battaglione che erano vicini a noi (morti, catturati …?).
Al riparo dietro a un autocarro Piossini è stato sommariamente medicato e si lamenta per il dolore che gli provoca la ferita alla gamba destra, causata dal un cingolo di un bren-carrier che è passato sulla sua buca.
Attorno a noi bruciano alcuni carri centrati dalla nostra artiglieria; gruppetti di inglesi si sono rifugiati sotto gli innumerevoli mezzi che hanno portato in linea. La nostra artiglieria ha ripreso un intenso bombardamento. Sento le urla dei soldati inglesi feriti, due autocarri vicini a noi sono stati centrati dai colpi dei nostri cannoni e ardono simili a due grandi falò. Io ed i miei compagni rimaniamo in piedi a braccia conserte incuranti delle schegge che sfarfallano e cadono vicinissime, i soldati britannici sono appiattiti sul terreno ci guardano stupefatti. Ricordandolo – oggi – questo atteggiamento mi appare una inutile e stupida esibizione, ma in quel momento mi sembrava giusto farlo… Ritengo anche di dover sottolineare il generoso “buon senso“ dei britannici.
Quella notte avrebbero potuto fare una strage.

CAMPO 309 – P.O.W. AD ALESSANDRIA D‘EGITTO- ottobre 1942

Due soldati ci prendono in consegna e ci guidano verso le retrovie. Piossini non può camminare, a turno, lo portiamo a braccia. Camminiamo nel varco del campo minato ed incrociamo un reparto di soldati inglesi che va in prima linea, sghignazzano e sembrano ubriachi. Uno di loro mi sputa addosso, un altro mi dà uno schiaffo, un terzo allunga un calcio a Siracusa. Gli schiaffi ed i calci della lunga colonna si scaricano su di noi con effetto domino per alcuni minuti, poi la pista si allarga e ci possiamo allontanare dalla colonna. Arriva una Jeep che carica i tre feriti.
Al tramonto arriviamo in una valletta; in uno spazio aperto, delimitato da un solo filo di ferro spinato, ci sono una decina di paracadutisti e fra questi i bresciani Severino Stabilini e Ottorino Pagani, che mi informa che fra i caduti c’è Peppino Reggiani (mio amico d’infanzia, volontario con me in Albania). Degli amici del IV Battaglione che erano con noi non rivedrò più nessuno nel corso degli anni di prigionia. Soffro di un forte dolore alla schiena e sono costretto a chiedere aiuto per togliermi la giacca ed il maglione che indosso. Stabilini mi dice: “sei stato fortunato, la tua sahariana è strappata in più punti sulla schiena mentre la scapola destra della tua spalla ha un colore blu ed è gonfia, un proiettile, un sasso od una scheggia ti ha sicuramente preso di striscio”. Soffro tutta la nottata, per il freddo e per il dolore.

Il mio numero è 355288.
Per qualsiasi adempimento o necessità, sono solo un numero. Al mattino non si mangia; a mezzogiorno formiamo code interminabili per ricevere 4 biscotti (simili agli attuali crackers) e una tazzina di un liquido che sembra tè.
Alle 17.30 aprono per mezz‘ora l’unico rubinetto che dà acqua ai 600 prigionieri del mio recinto. Assisto a scene vergognose e risse furibonde. È più l’acqua che finisce nella sabbia che quella che può essere bevuta. Alle 18.00 la cena, ed il menù non cambia.

Il lavatoio è sempre disponibile, ma dai tre rubinetti e dall’unica doccia esce un filo d‘acqua di colore verdastro; lo stanzone non è illuminato, il pavimento è coperto da fango viscido, anche per gli escrementi che lo ricoprono. Sul muro qualche inglese, con poco senso dell‘umorismo, ha scritto – la calce è ancora fresca – a caratteri cubitali: “ lavati ! “La latrina è una fossa lunga circa dieci metri, profonda tre, larga, due, ed è attraversata da cinque travi larghe circa 30 cm. Questa fossa serve per 600 persone; diventiamo tutti equilibristi e fortunatamente, non mi risulta che qualche malcapitato sia mai caduto nella fossa.
Le prime due settimane trascorrono senza che avvenga il minimo miglioramento. Trascorriamo le giornate in silenzio. La fame e le sete non possono essere descritte. Nessuno fa movimenti inutili, rimaniamo il più possibile immobili, per risparmiare energie, distesi nella sabbia. Tutti i giorni arrivano colonne di soldati ed ufficiali catturati durante la ritirata. Camminano a testa bassa trascinando i piedi. E’uno spettacolo triste e deprimente.

Dopo due settimane all’alba la sveglia, poi l‘appello e la conta, mi consegnano un cucchiaio, una tazza ed una coperta. La zuppa è lievemente migliorata, Ogni due giorni una scatoletta di carne di cento grammi ed un filone di pane da un Kg. per due persone, alla sera quattro biscottini ed il tè. Ho capito la differenza tra il ricevere il mescolo preso in superficie e riceverlo, invece, preso dal fondo. Da qui la necessità di gareggiare, arrischiando di rimanere digiuno, per arrivare fra gli ultimi alla marmitta della “brodaglia”. Sono passati circa due mesi e tutti i giorni arrivano centinaia di prigionieri, gruppi di ufficiali e fra questi vedo un generale.
Gli Stati Uniti sono entrati in guerra e le loro truppe sono sbarcate in Marocco.

CERCANO FABBRI E CARPENTIERI

Gli amplificatori del Campo comunicano una notizia interessante: secondo la “Convenzione di Ginevra” chi vuole può uscire dal campo per lavorare. Si cercano operai specializzati in lavori di carpentieri. Il nostro gruppetto rifiuta e la sera stessa con un centinaio di prigionieri, arrivati in mattinata dalla Libia, lasciamo il campo e prendiamo posto su un autocarro. A notte fonda arriviamo nel delta del Nilo al


Campo 308
Gennaio 1943

Il campo ospita circa 20.000 prigionieri; un grande viale divide due file di gabbie; Ogni gabbia ospita 600 prigionieri ed è sorvegliata da soldati indiani posti di guardia su torrette a tre metri da terra. Su ogni lato, oltre ad una siepe di reticolato alta due metri, vi è anche una seconda fila di reticolati.
Da una piccola costruzione in muratura esce un delizioso profumo di rape e cavoli. Inoltre non dovrò più ricorrere (senza mutande per evitare possibili cadute nella fossa) ad esibizioni di equilibrismo. Infatti, in un angolo del campo vedo un muretto di mattoni d‘argilla che delimita e separa le latrine dal lavatoio dotato di una decina di rubinetti. Qui l‘acqua viene erogata, per un‘ora, due volte al giorno.

Volontari per decreto legge

Sono assegnato ad una tenda che ospita nove sergenti sono studenti universitari, (allievi ufficiali) che mi salutano con fredda cordialità e diffidenza, parlano a bassa voce fra loro ignorandomi. Sono volontari per “decreto legge”. Un giorno avevano letto sul Popolo d’Italia, organo del Partito Nazionale Fascista. “ … il governo, accogliendo il desiderio degli studenti universitari impazienti di indossare la divisa grigio verde aveva abolito la concessione del rinvio del servizio militare per far sì che tutti avessero l’onore di battersi contro il nemico” e si erano pertanto trovati, quasi senza rendersene conto, in divisa ed imbarcati per la Libia. Nella tenda vado solo per dormire e le giornate le passo con Stabilini ed il gruppo dei paracadutisti.
Ogni settimana riceviamo alcune monete egiziane che possiamo spendere in uno spaccio interno e due pacchetti di sigarette. D’intesa con Stabilini e Pagani, investiamo tutte le nostre piastre nell’acquisto di qualche Kg. di riso e di datteri essiccati. Una grossa latta, che in origine conteneva sugo di pomodoro, è stata trasformata in pentola; versiamo acqua, datteri e riso e facciamo bollire il tutto, quando l’impasto giunge al giusto punto di cottura lo lasciamo riposare alcune ore affinché aumenti di volume.

Achille compagnoni a Tel Aviv

Nel campo le giornate trascorrono tranquille, non si fa nulla durante il giorno. Alla sera ognuno racconta gli episodi più significativi che hanno caratterizzato la sua cattura:
Piossini, parla della sua ferita, descrive gli interminabili attimi del bren-carrier che stava per schiacciarlo e miracolosamente lo ha ferito fortunatamente in modo non grave alla gamba destra; Bottazzi, un altro bresciano, sottufficiale dell’aviazione ustionato al torace, alle braccia ed al viso, si è salvato lanciandosi dall’aereo in fiamme con il paracadute;
il sottocapo Tognon del sottomarino “ Perla “, racconta della navigazione con il mare a forza sette, del siluro che lo ha colpito, dello schianto delle mine di profondità, degli scricchioli delle pareti del suo sommergibile, degli spruzzi violenti dell’acqua che entrava dalle incrinature della struttura, la “rapida” della immersione, la fortunosa emersione ed il salvataggio dopo ore di paurosa attesa in mare.
Stabilini il quale, pochi istanti dopo la fine del bombardamento del 23 ottobre, si è trovato gli inglesi nella buca e non ha potuto sparare nemmeno un colpo.
Ottorino Pagani è rimasto miracolosamente illeso accanto al Serg. Magg. Dario Pirlone capo pezzo ( M.O.V.M ) , mentre il suo cannone 47 / 32 centrato in pieno è stato distrutto, il mio amico Pepino Reggiani e i suoi compagni serventi al pezzo, colpiti a morte…

LA SQUADRA di CALCIO

Sono state formate squadre per ogni singola gabbia e fra le varie compagini si svolgono incontri incandescenti; questi confronti servono per selezionare la squadra rappresentativa del Campo 308 la quale, non solo si confronterà con squadre di altri campi, ma anche con squadre dell‘esercito britannico. Ai giocatori viene riservato, dal Comando del Campo, un trattamento alimentare particolare: dopo l’allenamento del giovedì ed alla fine di ogni partita i titolari ricevono due piatti di pasta asciutta, abbondante. Un giorno, un bel giorno, prima dell‘inizio di un incontro mi unisco al gruppo delle riserve, scambio qualche passaggio ed effettuo alcuni fortunati tiri in porta. Il capitano che mi osserva dice, “oggi ti faccio giocare per una decina di minuti, poi vedremo”. È fatta, gioco quasi tutto il secondo tempo; mi sono assicurato un paio di piatti di pasta asciutta alla settimana.

LE LENTICCHIE

Ogni giorno, a turno, sei prigionieri vanno alla gabbia n° 1 per prelevare i viveri per la giornata; quando arriva il turno della nostra tenda riusciamo a ”prelevare” dal magazzino un sacco di lenticchie ed a portarlo nel campo. Gli interrogatori e le ispezioni accurate della sorveglianza inglese non trovano nulla. Infatti le lenticchie sono state seppellite nella sabbia sotto i giacigli della nostra tenda. Dopo alcune settimane, decidiamo di integrare il rancio con le lenticchie e, di notte, procediamo alla cerimonia della riesumazione del “tesoro”. Dopo circa una trepida attesa, la sorpresa: le lenticchie con il caldo del giorno e l’umidità della sabbia sono sbocciate e sono diventate erbetta verde. Le mettiamo ugualmente nella pentola ed anche se un po’ amare le trangugiamo

CERCANO SARTI E LAVANDAI

Passano altri interminabili mesi senza far nulla, Sono sempre affamato.
Un giorno, durante la “conta” del mattino, chiedono sarti capaci.. Mi propongo e vengo accettato. Ogni mattino in camion arriviamo all’interno di un capannone ben riparato dalla sabbia e dal sole. In un primo tempo mi assegnano un lavoro alla macchina da cucire, ma rompo troppi aghi, allora mi danno ago e filo per rammendare i buchi delle zanzariere. Il lavoro richiede grande pazienza e io non ne ho, mi pungo continuamente e il buco, frequentemente si allarga durante la lavorazione. Invento un nuovo modo per risolvere il problema: prendo i vari lembi del buco, li riunisco, li arrotolo e con ago e filo cucio il tutto. La zanzariera non ha più buchi, è diventata solo un po’ più corta, ma è migliorata esteticamente per i fiocchetti che ho cucito. Gli inglesi che lavorano con me sorridono, ma il sottufficiale responsabile del reparto non gradisce la mia trovata e ancora meno i sorrisi dei suoi compagni di lavoro. Come una furia mi strappa dalle mani la zanzariera e mi aggredisce a pugni e calci; mi difendo con un calcione ben posizionato. Non finisco la giornata perché mi fa rientrare al Campo di corsa sotto il sole rovente (una decina di chilometri) e dalla Jeep mi sprona con la lunga asta di un’antenna radio che fa sibilare dall’auto sul mio capo ad ogni mio accenno di fermata. Sono quindi “licenziato” e con me un compagno di tenda che è intervenuto in mia difesa ed al quale, almeno, è stata risparmiata la corsa nella sabbia perché ospitato sulla Jeep..
La fame sta diventando sempre più insopportabile, solo chi è ammalato veramente può trascorrere alcune giornate in infermeria mangiando a sazietà. Chi si taglia o si ferisce un dito, oppure si graffia a sangue sul filo spinato del reticolato, viene inviato in infermeria e per quel giorno mangia a sazietà.
Anche chi si fa togliere un dente può saziare la fame per una giornata.

IL VARIETÀ E LE PROCACI BALLERINE
Agosto 1943

Alcuni intraprendenti attori, professionisti e dilettanti napoletani, hanno costruito sul retro delle cucine, con il materiale fornito da un ufficiale inglese, un palcoscenico sul quale si
esibiscono recitando e cantando pezzi classici di poeti e scrittori napoletani, ( la livella, la patente, le sceneggiate, siparietti di varietà ).
Gran successo ricevono le ballerine. Le donne sono, ovviamente, uomini ma sul palcoscenico sembrano ragazze vere. In principio le difficoltà del travestimento provocano vero divertimento. Ma parecchi spettatori dopo poche esibizioni, dimenticano che sul palcoscenico ci sono loro commilitoni; visti a distanza, appaiono donne bellissime capaci di far sognare. Alcune attrici si sono immedesimate nelle parti ed hanno assimilato gli atteggiamenti ed anche la mentalità della donna. Tutti gli spettacoli si concludono con uno scatenato can – can e le “6 girls 6” raccolgono un rumorosissimo successo. Con fettucce di panno nero hanno realizzato giarrettiere provocanti; ma è, soprattutto, la soubrette che ha il fisico del ruolo, le lunghe gambe e le calze da donna (tinte di nero fornite dall’ ufficiale inglese) provoca turbamenti, litigi e gelosie morbose. La scena che precede il gran finale è il “ballo dell‘apache”. La coppia danza accompagnata dal un suggestivo coro in sottofondo. La ballerina si struscia appassionatamente al “ maschio “ e, la coppia è subissata da applausi e da lanci di datteri e sigarette.
Tra alcune coppie sono nate amicizie intense; si vedono coppie passeggiare sempre insieme, seduti sempre vicini, sempre insieme anche ai servizi igienici. Una coppia colta in “flagrante” è stata separata con il trasferimento del partner in altra gabbia. Il separato, rimasto nel campo, è stato ricoverato gravissimo in ospedale: da circa un mese a causa della separazione dall’amico ha smesso di toccare cibo.

Un giornale
che vedo posato su un sacco all’ interno della tenda richiama la mia attenzione. Inizio a sfogliarlo, ma due sergenti universitari, miei compagni di tenda, mi sono addosso e me lo tolgono bruscamente dalle mani.
Al mattino Vergnano ( il capitano della squadra di calcio ) mi prende da parte e mi dice che i suoi colleghi non si fidano di me perché i paracadutisti, a loro parere, sono tutti fascisti; lui con i compagni di tenda sono contrari al fascismo e lo combattono sin da quando erano in Italia. Mi raccomanda di non parlare con nessuno perché in altri campi si sono verificati pestaggi nei confronti di antifascisti. Lo tranquillizzo e racconto a lui ed ai compagni di tenda di mio padre fuoriuscito, morto in Francia perché perseguitato dal fascismo; dico loro che quella figura in prima pagina del giornaletto ( è l’On. Giacomo Matteotti assassinato dai fascisti ) io l‘ho già vista a casa mia in una fotografia nascosta dietro un quadro del Sacro Cuore di Gesù nella camera da letto dei miei genitori. Diventiamo amici, l’equivoco è chiarito e nella tenda, finalmente, si crea un clima di reciproca simpatia e amicizia. Mi dicono che sono in contatto sia all’interno che all’esterno con antifascisti di altri Campi di P.O.W. e con militari inglesi del nostro Campo. Assicurano che mi considereranno uno dei loro e che mi terranno informato delle eventuali iniziative e delle novità relative agli sviluppi della guerra in Italia.
Dopo una quindicina di giorni nel cuore della notte, Vergnano mi sussurra: “prepara il tuo sacco, domattina il nostro gruppetto ed alcune decine di “compagni “ di altre gabbie lasceremo il 308 per essere utilizzati in Palestina”.
Sono le ore tre, tutti dormono. Una ventina di soldati indiani entra nel Campo.
Urlano: “adunata ! ”. Tutti gli ospiti della gabbia n° 20 sono raggruppati nel piazzale.
Sono le ore sei, tutti dormono. L‘orario è insolito e il fatto non si è mai verificato prima; solamente quando tutti sono riuniti ed irrigiditi sull’attenti per la “conta“, il nostro gruppo lascia la tenda e, fra gli schiamazzi ed i fischi, si avvia verso l ’uscita della “gabbia”.
IL “TRADIMENTO”
Il tam-tam del Campo 308 però ha funzionato e la notizia del tradimento si è sparsa fra i 20.000 prigionieri. Non tutti i responsabili inglesi hanno avuto l’attenzione che è stata usata per il nostro gruppo. In alcune gabbie sono in atto risse furibonde.
La mia gabbia è la n° 20 ed il cancello d’uscita è lontano. Ci ripariamo con i nostri fagotti dal lancio di pezzi di mattoni d’ argilla che fioccano su di noi come grandine.
Assisto alla “liberazione” da parte delle guardie indiane, di un amico di un’altra gabbia che è stato calpestato e buttato sul reticolato dai suoi compagni ed ha una gamba fratturata. È portato a braccia , il viso, le braccia, le gambe sanguinanti.
Sento le urla dei miei amici e le loro minacce relative al trattamento particolare che, dicono, mi riserveranno al mio ritorno a Brescia.


CAMPO 322 – LATRUM ( PALESTINA )
Agosto 1943

Attraversiamo la cittadina abitata in larga maggioranza da ebrei. Diamo uno sguardo, approfittando di una lunga sosta, al grande Monastero ortodosso che appare maestoso davanti a noi e, nel tardo pomeriggio, nei pressi di un insediamento dell’esercito britannico, ci vengono assegnate due baracche decorose e bene attrezzate. Dormiremo su brande con materassi e coperte; i servizi igienici sono ottimi ed è possibile fare la doccia con acqua calda a volontà; ci danno indumenti puliti e un asciugamano.
Le sorprese non sono finite. Ci accompagnano ad un altro gruppo di baracche occupate dagli uffici di alcune unità inglesi. Nella baracca della mensa osserviamo i soldati ed i sottufficiali che stanno ultimando la cena. L’ R.S.M. con una mimica molto efficace ci fa capire che dobbiamo aiutare a sparecchiare e pulire i tavoli, subito dopo potremo prendere il vassoio e prelevare il nostro pasto al self-service. Ci saluta con un cordiale :“bon petitto“. Altra sorpresa: i militari inglesi si rivolgono a noi con cordialità.

Al mattino successivo ha luogo una riunione nel corso della quale ci informano che le truppe inglesi ed americane hanno occupato tutta l‘Africa Settentrionale e la Sicilia, nonché della attività dei partigiani nel nord Italia.

Un ufficiale che parla italiano, descrive il tipo di lavoro che ci verrà affidato. Dovremo collaborare alla sistemazione di un campo per altri P.O.W. Opereremo con tecnici civili all‘installazione dei servizi igienici, delle cucine e successivamente alla manutenzione delle baracche sia del comando che nel nuovo Campo per P.O.W. In un secondo tempo costruiremo le vie di accesso al campo, i viali interni e la recinzione di tutto il complesso. Siamo suddivisi in quattro gruppi coordinati da squadre formate da nostri compagni che nella vita civile erano elettricisti, idraulici, giardinieri, muratori, camerieri, cuochi. Ci presenta l’R.S.M. che sarà il nostro superiore diretto. L’ufficiale conclude la riunione con una domanda rivolta a tutti i presenti: “chi voi parla inglese?“. Alzo subito la mano e dico: “Yes, I do. Good morning sir.”
Dopo di me altri alzano a mano, ma Ernest Broucklabank ha già deciso: “come here ! “ e mi fa cenno di avvicinarmi. Mi è andata bene, diventerò il suo collaboratore per i rapporti fra gli italiani e gli inglesi. Avrò una scrivania nell’atrio che precede il suo ufficio, dovrò verificare le presenze al lavoro, l’aggiornamento degli elenchi, la consegna dei materiali e degli attrezzi da lavoro.
Sir Ernest ha 52 anni e mi dice che gli ricordo i suoi figli. Mi parla della sua famiglia: è padre di due gemelli, maschio e femmina di 17 anni; vive a Blackpool, una nota città balneare inglese ed è militare di carriera. Mi ha regalato una grammatica inglese unitamente a sette volumetti di esercizi che conservo tuttora; inoltre ha incaricato un caporale di correggere i miei compiti. Non potevo essere più fortunato.

IL RE HA ABBANDONATO ROMA
Ottobre 1943

Il Maresciallo Badoglio (nuovo Capo del Governo Italiano ) ha dichiarato guerra alla Germania e Mussolini è stato arrestato; poche settimane dopo, con un avventuroso blitz, è stato liberato dai tedeschi ed ha costituito la Repubblica Sociale. L’Italia ha due eserciti: uno al nord con il gen. Graziani; un altro al sud con il generale Badoglio che combatte con gli Alleati.

Dopo poco più di due mesi il nuovo Campo è agibile e cominciano ad arrivare i primi gruppi di P.O.W. Fra questi tutti quelli che ci hanno insultato, minacciato e lanciato sassi. Non sanno nulla di quanto è avvenuto in Italia. In un primo momento vi è grande imbarazzo, ma la gioia di rivederci è sincera. Riabbraccio Stabilini e Pagani.
È stata ricostituita la squadra di calcio sostenuta dal Comando inglese e gli incontri all‘interno ed all’esterno sono frequenti. Incontriamo rappresentative di prigionieri e squadre di varie unità britanniche. Gli spostamenti in autocarro mi consentono di vedere, sia pure in modo molto approssimativo: Gerusalemme, Tel Aviv – Jaffa, Rehovot e di conoscere numerosi giovani ebrei che vivono nei Kibbutz.

Il nostro gruppo (quello che per primo ha lasciato, in un momento difficile, il Campo “308“) integrato da altri prigionieri (camerieri e cuochi nella vita privata) è stato trasferito in una Scuola di allievi ufficiali britannici con gli stessi compiti svolti al 322. Dovremo, anche qui, operare nelle mense e nelle cucine oltre a collaborare ai lavori di manutenzione dell’insediamento. Saluto e ringrazio l‘ R.S.M., anche per aver acconsentito ad inserire nel mio gruppo gli amici Pagani e Stabilini.

Febbraio 1944
Mi consegnano due paia di pantaloni e due camice; sulle spalline si legge ( rosso in campo bianco) “ ITALY ”. Siamo coordinati da un ufficiale inglese che parla correttamente sette lingue. Sono assegnato in qualità di cameriere alla mensa della truppa britannica addetta ai servizi del Campo. Gli orari, il lavoro ed i rapporti con i soldati britannici sono ottimi.
Dopo alcuni mesi il primo incidente. Noi e gli inglesi, armati di mescoli e forchettoni distribuiamo il menù del giorno ai soliti commensali. Alla fine, il servizio dovrebbe proseguire anche per un centinaio di soldati di colore provenienti dal Ceylon i quali, davanti alle marmitte fumanti, sono in paziente attesa con i loro vassoi. Mentre sta per iniziare la distribuzione i “colleghi” inglesi abbandonano il lavoro. Chiedo al sergente responsabile della mensa per quale motivo noi dovremmo continuare mentre loro lasciano. La sua arrogante risposta è questa: “noi non serviamo i negri ”. Dopo una breve consultazione, questa è la risposta, provocatoria, del nostro gruppo: “ non abbiamo nulla in contrario a continuare il lavoro, ma noi, italiani, discendenti da quegli antichi romani che hanno portato la civiltà nel vostro Paese, senza di voi non lavoriamo.”
Arriva la Polizia Militare e dopo un breve tafferuglio gli inglesi riprendono il servizio e due MP (Military Police) ci accompagnano nella prigione del Campo. Siamo in cinque chiusi in una stanza di otto metri quadrati e lì ci lasciano per un giorno e due notti senza cibo, senza acqua e senza coperte. Non ci consentono di uscire dalla stanza per utilizzare i servizi e “tutto” deve essere fatto, ( in equilibrio, accucciati su una sedia ) nel “bidone” senza coperchio, introdotto nella stanza solamente dopo “rumorose” richieste. La stanza è dotata di un solo finestrino quadrato con inferriata di mezzo metro per lato.
I soldati del Ceylon (oggi Stato indipendente, Sri Lanka ) sono partiti e noi riprendiamo il solito lavoro. Quel Sergente arrogante non lo vedremo più, dicono i suoi colleghi che è stato inviato in Italia.
Il Tenente interprete che coordina la nostra attività, mi consiglia di perfezionare la conoscenza della lingua inglese e mi regala una guida utile per un turista che entra in un ristorante: “Studia, ti sarà utile”.

TRASFERITO ALLA MENSA UFFICIALI

Il Tenente Najib Tual è un arabo, ha studiato in una scuola cattolica a Gerusalemme, si è laureato in Inghilterra ed è figlio di madre cristiana (una delle tre mogli) di un ricco beduino ( i figli sono educati secondo la religione delle madre). Dopo una settimana mi chiama e mi comunica il mio trasferimento alla mensa ufficiali. L’ambiente non mi piace proprio, per una giornata osservo dalla finestrella del magazzino come lavora il cameriere inglese il quale dopo cena, mi insegna le basi necessarie per operare validamente, Mi dice che agli scozzesi devo servire il “porridge” con il sale, mentre agli inglesi deve essere servito con lo zucchero, mi fa vedere come si apparecchia la tavola, imparo a porgere i piatti da sinistra ed a toglierli da destra. Quasi tutti sono ufficiali in carriera, boriosi, altezzosi, sempre insoddisfatti del menù e di tutto quel che facciamo noi italiani; alcuni mi insultano e mi provocano. Rimpiango la genuinità e l’amicizia dei soldati che lavoravano con me alla mensa della truppa e, dopo aver sopportato per quindici giorni insulti e pesanti cattiverie, inevitabilmente reagisco.

Un maggiore che ha partecipato allo sbarco in Sicilia e dovrà ritornare in Italia nei prossimi giorni, durante la cena, racconta le sue avventure in terra di occupazione. Capisco che sta parlando con disprezzo del mio Paese, ma continuo il mio lavoro. Quando gli porgo il piatto mi dice: “ no tomatos “. Vado in cucina e ritorno senza pomodori, mi dice,“ no cabbices “, non batto ciglio; vado e ritorno senza cavolfiori; “ no potatos “ , tolgo le patate, ritorno e, lui, nonostante sia disapprovato dai suoi colleghi, sghignazzando mi urla: “It is to cold “; è troppo freddo. Torno in cucina, prendo un piatto fondo, metto un pezzetto di carne a galleggiare in un mescolo di sugo bollente e ritorno da lui; lo guardo fisso negli occhi; una breve pausa e sorridendo gli verso il tutto sulle ginocchia esclamando: “ I’m very sorry. sir “ Alcuni secondi di silenzio ed arriva, con mia grande sorpresa, la risata generale dei suoi colleghi. Lascio la sala mensa di corsa e vado direttamente verso la prigione dove mi consegno al sott‘ufficiale di servizio. Due notti e un giorno di prigione con un solo litro d’acqua e mezza pagnotta, durissima.
Verso sera del terzo giorno arriva sorridente il Tenente arabo che mi dice:“ Tutto è finito. Il Maggiore che hai maltrattato è partito per l’Italia ed a me serve uno che sappia capire la lingua. Sono certo di potermi fidare di te. Preparati perché domattina ti accompagnerò al nuovo posto di lavoro.
Najib Tual mi ha affidato un lavoro particolare : sarò quotidianamente a contatto con gli ufficiali britannici. Il tenente interprete mi dice: “ … dovrai riordinare il salone, i due salotti, la biblioteca fornita di libri, giornali, riviste e confortevoli poltrone. Inoltre, poiché la “Scuola“ è divisa in due sezioni, nord e sud, dovrai aiutarmi a migliorare il collegamento fra gli italiani ed i britannici che operano nelle due distinte parti distanti circa un chilometro una dall’altra”.

Nel mio tempo libero dovrò studiare la lingua inglese. Najib Tual mi raccomanda riservatezza e prudenza nei rapporti con gli ufficiali. Ma, dopo un paio di mesi, mi capita un altro infortunio. Alcuni ufficiali che non brillano, certamente, per la loro educazione, lasciano per terra, ovunque, mozziconi di sigarette, non si puliscono le scarpe nonostante gli zerbini, i cestini ed i portacenere che io ho sistemato nei salotti e nel giardino. Sono solo e posso fare – bene – la pulizia, spostando all‘esterno della sala mobili e tappeti solo alla domenica. Durante la settimana, anche per la presenza degli ufficiali, non trovo il tempo sufficiente e mi limito a scopare sotto i tappeti i mucchietti di polvere. Conseguentemente, in alcuni punti del salone si sono creati dei rigonfiamenti; ed e proprio in uno di questi che va ad incespicare l‘anziano claudicante Colonnello Comandante della Scuola con inevitabile rovinosa caduta: clavicola fratturata.

Najib Tual provvede alla mia sostituzione e non solo non vengo punito, ma, a causa di certi suoi “impegni personali“ esterni al Campo, mi nomina suo aiutante. Devo ritirare ogni mattino dall‘ “Orderly-Room” le disposizioni di servizio che riguardano gli italiani, e informare, conseguentemente i vari gruppi delle sostituzioni ed integrazioni necessarie al funzionamenti dei servizi.

IL RITORNO ITALIA

La guerra con il Giappone è finita.

Siamo Bombay da circa un mese senza incarichi e attendiamo con ansia notizie circa il nostro rimpatrio. Arriva un treno e ritroviamo gli italiani forzatamente imbarcati con noi circa un anno fa a porto Said in Egitto. Nessuna informazione ci viene fornita. Siamo stati separati dai britannici che continuano il loro viaggio. Il nostro gruppo si imbarca su un lungo convoglio che viaggia in senso contrario per tutta la notte attraversando boschi e paludi; nel tardo pomeriggio del giorno successivo il convoglio si ferma per alcune ore in una piccola stazione. Assistiamo ad un brutale pestaggio degli M.P. (Military Police) impegnatissimi a respingere senza pietà una folla di civili indiani che vorrebbero salire sul treno con noi.
Il mattino successivo scendiamo dal treno ed un Maresciallo dei Carabinieri assume il comando del gruppo ed, in fila indiana, dopo circa mezz’ora di marcia, arriviamo davanti ad un Campo di “Prisoner of war.” Siamo un centinaio, poco meno di quelli partiti dall’Egitto nell’aprile scorso.. Entriamo in una “gabbia” e prendiamo posto in quattro baracche ben attrezzate: brande (provviste di zanzariera) coperta e materasso, un sacchetto con piatti e posate. I servizi igienici sono puliti e decorosi; la cena, ottima, viene prelevata ad un self-service al quale è collegata una sala ritrovo con tavolo da ping–pong, libri, riviste e giochi da tavolo. Nessuno parla con noi, solo un ufficiale indiano ci sorride, ma non dice nulla. La sorpresa, clamorosa, arriva il mattino successivo.

Il recinto è chiuso fra reticolati,
ai quattro angoli guardie armate indiane ci osservano dall’ alto delle torrette. Il cancello è sbarrato. Poco lontano, da altre gabbie prigionieri di guerra italiani ci salutano festosamente, in un’altra invece, urlano al nostro indirizzo: “venduti, traditori!“. Nessun britannico si fa vivo ed immediatamente diamo luogo ad una rumorosa protesta. Urliamo e percuotiamo piatti, lamiere e quant’altro può far rumore.
Verso mezzogiorno arriva, scortato da sei guardie, un ufficiale indiano che legge una comunicazione: “siete stati qui riuniti perché il vostro ritorno in Italia è imminente“.
Il Maresciallo dei Carabinieri che comanda il nostro gruppo chiede, a nome di tutti, che il cancello venga aperto e, data la nostra posizione di cobelligeranti, ci sia permesso di uscire dal Campo.

L’equivoco dopo un paio di giorni è superato:
– siamo a Bairagarh, in provincia di Bhopal;
– il comandante del Campo sapeva della nostra condizione, ma non aveva ordini circa la nostra libertà di movimento;
– da subito, il cancello sarà aperto durante il giorno, e chiuso e sorvegliato, per ragioni di sicurezza, durante la notte. Una gabbia vicino alla nostra ospita qualche centinaio di fascisti irriducibili.
– potremo partecipare ad incontri di calcio, di palla a volo, di pallacanestro con i prigionieri di altri campi.
L’ufficiale indiano conclude l’incontro e sorridendo dice: “ queste baracche erano destinate ad ufficiali italiani, ma penso possano andar bene anche per voi“.

All’esterno della baracca c’è una piantagione di banane; per coglierle devo solo aprire la finestra ed allungare la mano.
All’esterno del nostro recinto decine di indigeni sono curvi dall’alba al tramonto, impegnati nel lavoro dei campi; sono schiavi -compresi i neonati – di proprietà del Marajà. Per noi le regole sono semplici: gli orari sono solo quelli del breakfast, del lunch e del dinner. Per il resto della giornata siamo liberi di uscire e fare quello che ci pare.
Il clima è torrido ed il termometro tocca i 30/35° di notte, 45/50° di giorno. Il bosco che confina con le nostre baracche fa si che la calura tropicale possa essere un po’ attenuata. È un susseguirsi di temporali e di ondate di caldo asfissiante. Il sole non si vede quasi mai, sembra coperto da un enorme “tendone” grigio, l’umidità è attorno al 90%. Presto arriveranno le grandi piogge ed altri saranno i problemi.

LA DIVISIONE DEI PRIGIONIERI ITALIANI A BAIRAGARH

Le autorità delle Forze Armate Alleate sembra favoriscano le iniziative che, più o meno spontaneamente, si determinano nei campi. Praticamente la popolazione dei prigionieri italiani è considerata divisa in tre gruppi:

 I neri, (gli irriducibili fascisti) quelli che dopo l‘8 settembre 1943 non hanno aderito alle decisioni del Governo italiano. Sono stati isolati dalla maggioranza dei prigionieri;
 i grigi, (o papalini) la maggioranza, quelli che hanno deciso di non scegliere;
 i bianchi (noi) coloro che hanno deciso di collaborare con gli “Alleati”, prima dell‘otto settembre 1943.

Dopo circa una settimana, all’alba, ci sveglia all’improvviso lo scoppio di un petardo lanciato sul retro della nostra sala ritrovo. Dall’indagine svolta dagli inglesi, lo scoppio è attribuibile ai fascisti del campo vicino al nostro.
Il mattino successivo, d’intesa con il Comandante indiano del Campo, il nostro Maresciallo si presenta nella loro gabbia al momento della “conta” mattutina e parla a questi nostri compatrioti informandoli sugli scenari della guerra e degli sviluppi della situazione politica italiana. Con questo coraggioso intervento l‘episodio è considerato chiuso. Dopo un paio di settimane, anche gli “irriducibili” partecipano, con le loro squadre, alle gare ed ai tornei programmati.
La sabbia e le mosche del deserto, la fame, la sete, gli amici feriti, i caduti, la nostalgia della mia mamma e della mia casa sono un ricordo che diventa ogni giorno sempre più angoscioso. Alla sera, ci riuniamo all’esterno della sala ritrovo e diamo vita a nostalgici cori. Oltre alle immancabili: “ mia bela Madonnina, Marechiaro, la Montanara, ecc.” cantiamo le canzoni dei film interpretati da De Sica, Buscaglione, Luciano Tajoli, ecc. “Mamma … “ Parlami d ‘ amore Mariù …” Non dimenticar le mie parole…, “ “Come delizioso andar sulla carrozzella” … Dai film in lingua inglese, che due volte alla settimana vengono proiettati nel campo, ho imparato alcuni brani delle colonne sonore…….

when they begin the beguine
it brings back a sound music so tender ,
…..till you whisper to me darling, I love you ……
….when they begin the begin…..
You are always in my heart
Even when you are far away
… I don’t know exactly when, dear
but I know will meet again…

je suis seul ce soir avec mes rèves, “je suis seul ce soir sans ton amour…
….tout se brise dans mon coeur lourd .
né me lasse pas seul sans ton amour
I walk in the moonlight, the silver moonlight,
I talk with my echo, I walk with my shadow
the star above, ……
We three always for you, till eternity,
my echo, my shadow and me….
Kiss me again, Kiss me my darling
each time i cling to your kiss i hear music divine, .
besame, besame mucho
hold me for ever and say that you always be mine….

CHIEDIAMO NOTIZIE RELATIVE AL NOSTRO RIMPATRIO
Settembre 1945
I giornali e la radio parlano dell’Italia e del nuovo Governo Italiano. Nel mese di luglio l’Italia ha dichiarato guerra al Giappone. Sono partito da Brescia nel gennaio dell’anno 1940 e fra pochi mesi è Natale. Salvo una settimana nel gennaio 1942, sono quasi sei anni della mia vita ed è il quarto Natale che trascorro lontano da casa.
. Siamo tutti in angosciosa attesa del nostro rimpatrio. Alle nostre sollecitazioni e proteste, la risposta degli inglesi è monotonamente ripetitiva: “ ship is not available”. Un ufficiale indiano che ha fatto la guerra in Egitto ed è decisamente contrario alla permanenza degli inglesi nel suo Paese, coglie ogni occasione per parlarne con noi; senza alcun timore egli afferma che molti suoi compatrioti – ora che la guerra è finita – sono pronti alla ribellione per scacciare gli inglesi dall’India. Dice che fa parte dell‘Armata Nazionale “Jai Hind “ (India libera), che è discepolo di Gandhi. (nessuno di noi sa chi è Gandhi). Da questo amico apprendiamo alcune informazioni in merito alle sempre più insistenti voci del nostro rimpatrio.

Sembra che per primi partiranno i cobelligeranti: (noi) coloro che hanno lasciato i reticolati, per una scelta prima dell’otto settembre 1943. (gli inglesi ci chiamano il “gruppo di Italia Libera”) Unitamente a noi partiranno i veterani catturati nel 1941 e gli over fifty.
Il secondo scaglione – i grigi – Coloro che hanno accettato di collaborare dopo l’otto settembre, che partiranno secondo un rigoroso ordine di cattura e di età.
Nessun accenno viene fatto circa il rimpatrio dei “neri “per i quali “ship not available “ sarà l’ unica risposta che riceveranno per oltre un anno.
Una notte sotto una pioggia che solo in India è possibile vedere, si spalanca la porta della baracca e si accendono tutte le lampade. Sono le ore due. Dopo aver ascoltato i primi rumorosi e risentiti commenti per la sveglia imprevista, l‘ufficiale indiano, discepolo di Gandhi, sale su un tavolo ed urla con entusiasmo:

Domani tutti voi parte Italia
Da sotto le brande compaiono bottiglie di birra, di “grappa artigiana “; una bottiglia di whisky l‘ha portata l’ ufficiale indiano. Abbracci, baci, canti, pianti di gioia.. È una storica sbornia collettiva. Mi sveglio alle dieci del mattino successivo..
Si parte: la conta e l’appello nominativo vengono effettuati nel campo di calcio allagato; l‘acqua arriva alle caviglie. Cammino con grande sforzo sotto una pioggia torrenziale carico del mio sacco e della valigia. La strada, trasformatasi in un torrente di fango, mi ricorda le montagne d‘Albania. Alle ore 22.00, ansimante arriva l‘ultimo gruppetto. Dopo due giorni di viaggio, dando la precedenza agli interminabili convogli addetti al trasporto dei militari (impressionante lo spettacolo dei tetti dei vagoni letteralmente gremiti da famiglie di civili) arriviamo alla periferia di Bombay. Alcuni giorni di sosta all’ interno del porto, praticamente abbandonati come una mercanzia qualsiasi sul molo, all‘addiaccio senza nemmeno una coperta per la notte, finalmente ci imbarchiamo. Viaggiamo nella stiva, al buio, quasi tutti dormiamo sul tavolato uno addosso all’altro. Alcuni, i più anziani, in preda a crisi depressive urlano e litigano senza motivo; rimangono sdraiati per terra con gli occhi fissi nel vuoto. Il freddo è intenso. Tempeste e mal di mare sono il solo ricordo del mio ritorno..
Sorpassiamo Massaua, Suez, ed entriamo nel Canale; poi Porto Said e il mar Mediterraneo. Siamo tutti sopra coperta, fra poche ore vedremo la costa italiana; nessuno sorride, si parla a bassa voce, una gran tristezza avvolge tutti. Cosa troverò in Italia, come troverò mia madre e mio fratello ? Troverò lavoro ? Sono le domande che ognuno sussurra a se stesso.

LA NAVE È ENTRATA NEL PORTO DI TARANTO
14 gennaio 1946

Sin dalle prime luci dell’alba, sono sul ponte addossato al parapetto con tanti altri; il rimorchiatore prende a rimorchio la nostra nave; il mar Grande, il mar Piccolo, la banchina del porto. Inizia la manovra dell‘attracco; si sente il cigolio dell‘ancora che scende in mare. Il momento è inquietante ed angoscioso. Sul molo ci sono alcuni soldati italiani ed inglesi, nessun civile, nessuna autorità, nessun parente, nessun curioso, nessuno, nessuno !?
Hanno gettato la passerella; un sottufficiale britannico occupa la via d‘uscita e urla con enfasi : “ The first one ! … go on ! “ ed inizia a contare ad alta voce; di sotto, in territorio italiano, fanno la stessa cosa un ufficiale italiano ed alcuni funzionari della Croce Rossa. Il carico umano è stato sdoganato.

Un sacerdote è l’unico italiano che ci regala un sorriso; avvicina una decina di noi sdraiati sul nudo pavimento del porticato della Caserma e ci invita nei locali della parrocchia. Ci offre un abbondante minestrone caldo (sono le ore 23.00) e ci consente di dormire in un’aula della scuola di catechismo.

Le procedure: l’interrogatorio, la verifica dei dati personali, i timbri e le firme richiedono alcuni tormentati giorni di angosciosa attesa. Il rancio oltre che disgustoso è insufficiente. Dopo tre giorni, unitamente ad una pagnotta, al foglio di licenza in attesa del congedo mi consegnano il prospetto delle spettanze da me maturate dal 23 ottobre 1942 al 14 febbraio 1946 Sono senza una lira, ed ho fame, e non ci pagano. Potrò ritirare detta somma a Brescia solo il 23 marzo 1946.
Non sono previsti treni o altri mezzi di trasporto per il ritorno alle nostre case. Ognuno dovrà arrangiarsi. Il viaggio di ritorno (scacciato a pedate dai treni riscaldati riservati ai soli militari alleati) lo effettuo prevalentemente sistemandomi nella cabina del frenatore dei treni merci.
Un centinaio di ex prigionieri di guerra infreddoliti e avviliti, attendono di trovare un posto sul primo treno diretto a nord. Riesco a salire su un merci che terminerà la sua corsa a Napoli. Al posto militare di ristoro non è possibile entrare: è affollato di civili che chiedono cibo. Sono scene penose che, purtroppo, ho visto tante volte in Albania in Grecia.
Non avrei mai immaginato di rivederle in Italia.

NEVICA, rincorro un treno che si è fermato per pochi minuti, mentre si rimette in moto con una manovra spericolata riesco a salire sull’ultimo vagone. Sono semi addormentato rannicchiato sul pavimento vicino alla toilette; arrivano due soldati che urlano qualcosa nella loro lingua. Faticosamente riesco a dire: “ I’m a Prisoner of war. I’m coming from India I have left Italy six years ago. I’m going home…”. I due sono americani sorridono, mi aiutano ad alzarmi da terra, mi danno manate sulle spalle e mi invitano
entrare nel loro scompartimento; mi rifiuto e fermo sulla soglia dico: “ No shower, no bath, I’ m dirthy, filthy. My dresses are full of louses” .
Mi siedo sul seggiolino nel corridoio, mi portano una tazza di caffè caldo, pane e una scatoletta di formaggio. Altri soldati nel frattempo si sono avvicinati, mi offrono birra; dimostrano una cordialità veramente inattesa. Non capisco quasi nulla di quello che mi dicono, ma i loro atteggiamenti esprimono tutto quello di cui in questo momento ho bisogno: un po’ di calore umano. Mi addormento seduto sullo sgabello nel corridoio e poco dopo ( 2 / 3 / 4 ore ? ) mi svegliano. “ Get ready . Next stop is Rome….. Good luck ! “. Stringo alcune mani, mi danno un sacchetto che contiene due filoni di pane bianco, tre pacchetti di sigarette, una bottiglia di birra. Mi vogliono dare del denaro che rifiuto. Ho le lacrime agli occhi, sono commosso, ma riesco a trattenermi. Il treno si è fermato fuori dalla stazione e dopo pochi minuti riparte. Sono solo in piedi, in mezzo ai binari. Per la prima volta piango.

UN TRENO RISERVATO

alle truppe alleate si ferma. Lo tengo d’occhio e dopo circa mezz’ora riparte. Sono le ore 23.00 e decido di tentare. Lo rincorro e, anche se ostacolato dalla mia valigetta di legno e dal sacco, riesco a salire sull’ultimo vagone; mi chiudo nella toilette. Bussano, ma io non rispondo, esco solo quando il treno aumenta la velocità. Un soldato inglese con la mano nella patta dei pantaloni slacciati, entra furioso. Quando esce mi chiede “tu tagliano ?” rispondo affermativamente. Mi dà uno schiaffone
( la sua mano, mi sembra grande come un badile ) che mi scaraventa nello scalino della porta d‘uscita del vagone. In posizione fetale, non mi muovo e non rispondo alle sue invettive.
Siamo ad Orte, poche decine di chilometri dopo Roma; il treno rallenta e si ferma. Arriva un M.P. (Military Police) urla parole incomprensibili, ma il suo gesticolare e le espressioni del suo volto sono inequivocabili; non mi alzo da terra, anche per evitare un probabile calcione, in ginocchio apro la porta e mi lascio scivolare sul marciapiede. Sono le quattro del mattino e c’è un traffico intenso di treni affollati di truppe alleate; alcune carrozze possono ospitare anche i civili, ma è impossibile salirvi, sono prese d’ assalto. Dopo un paio di tentativi rinuncio e decido di attendere un altro treno. Trascorro la notte in un sotterraneo della stazione al caldo su una branda con coperte, non ci sono docce e tanto meno acqua calda, ma dopo tanti giorni dormo bene; anche i pidocchi, mi sembra, si sono presi una vacanza.
La Polizia Ferroviaria non consente a nessun italiano di salire sui treni riservati ai militari alleati. Annunciano una “tradotta” in partenza alle 22.00. Passa un treno merci con una decina di vagoni scoperti, è gremito all’inverosimile da ex prigionieri e civili. Sembra il tetto di quei treni affollatissimi che ho visto in India.
Rinuncio al piatto caldo perché è impossibile avvicinarsi al pentolone del rancio a causa dei tanti civili che fanno la coda.. Dopo alcune ore un altro treno merci rallenta, lo prendo al volo. I vagoni sono chiusi, ma riesco a sistemarmi nella cabina del frenatore in un pianale senza sponde. Arrivo a Firenze quasi congelato. Su un altro marciapiede è in sosta un treno “riservato alle truppe alleate” diretto al Brennero, la porta dell’ ultimo vagone è aperta, salgo e mi chiudo nella toilette; quando parte esco e constato che l’intero vagone è riscaldato ed è completamente vuoto, mi sdraio sul pavimento fra due sedili, non solo per non sporcarli, ma anche perché sotto i sedili c’è il radiatore che riscalda lo scompartimento
Mi sveglia un calcio replicato varie volte con rabbia. È un sergente italiano della Polizia Ferroviaria. Tento di dirgli chi sono ed egli mi dà uno schiaffo in pieno viso; inferocito mi avvento contro di lui, lo abbraccio, è molto più robusto di me, lo graffio con rabbia in viso e riesco a mordergli un dito; lui urla, sento il sapore dolciastro del sangue in bocca, ma non lascio la presa; ho perso completamente il controllo. Alcuni ufficiali inglesi ci separano e lui mi mette le manette.
A Bologna mi accompagna, ammanettato,al posto di Polizia. Al Maresciallo dei Carabinieri dice che io l’ ho insultato ed aggredito, mostra il dito fasciato ed un paio di cerotti sul viso. Io non parlo, anche se perdo sangue dal naso; sono veramente soddisfatto. Sono contento, anche perché vedo che il poliziotto si sta grattando sotto il collo della camicia e sotto le ascelle; credo proprio di avergli trasmesso qualche famigliola di pidocchi.
Quando rimango solo con il Maresciallo racconto il mio avventuroso viaggio; il sottufficiale non fa commenti e mi chiude in una stanza, riscaldata. Poco dopo un Carabiniere mi porta una buona minestra calda, pane, spezzatino di carne al sugo e sorridendo dice: “Questa branda è tutta per te, fra tre ore c’è un treno per Parma. Non preoccuparti, provvederò io a svegliarti”.
Arrivo a Parma alle ventitre. Il Centro di Ristoro è funzionante ed accogliente. Una anziana signora mi avvicina e dice: “Cosa vuoi ? tagliatelle o tortellini ? … “ la interrompo: “no grazie. Ho freddo e desidero solo dormire”. Mi sistema in una poltrona sgangherata vicino alla stufa, mi da una coperta e mi accarezza più volte il viso. Verso le due del mattino sento un brusio intenso che in breve diventa un baccano infernale. È in arrivo un treno per Verona; civili, militari, ex prigionieri lo prendono d‘assalto. Intervengono i Carabinieri che riportano l’ordine; io rimango a terra. Parto, nel pomeriggio, da Parma per Verona con un treno merci, ospita un centinaio di ex prigionieri. Mi unisco a due bresciani miei vicini di casa a Brescia, sono ben vestiti: giacche e pantaloni militari ed un confortevole cappotto, rientrano dall’Egitto.
Non mangio da ieri, anche loro sono affamati, comunque hanno un fiasco di vino che si rivela quanto mai provvidenziale per combattere il freddo gelido. Ci sistemiamo nella solita cabina del frenatore avvolti dal nevischio all’aperto; generosamente i due mi stringono in mezzo a loro e mi proteggono dal gelo con i loro cappotti. Alle quattro del mattino arriviamo a Verona, sono ormai vicinissimo a casa e decido di non approfittare dell’ospitalità dell’efficiente Centro Militare di ristoro. È in partenza un treno per Milano. Dopo un “dibattito” violento con un ferroviere che non vuole farmi salire senza biglietto, grazie anche all’energico intervento in mia difesa dei due amici bresciani (loro si fermano a Verona) riesco a salire sul treno.

ALLE SEI SCENDO ALLA STAZIONE DI BRESCIA,

vado al posto di ristoro, non c’è nessuno, solo una suora affettuosissima; mi fa sedere vicino ad una stufa che emana un delizioso tepore, mi porta caffelatte bollente, pane per una maxi zuppa e mi fa pregare con lei. Non posso avvisare la mamma del mio arrivo, il telefono (e la vasca da bagno) allora erano un lusso riservato a poche persone. Nel piazzale della stazione osservo le macerie degli edifici ammucchiate ai lati del piazzale. La testimonianza dei bombardamenti è ben visibile ai lati delle strade: in Corso Martiri della Libertà, all’incrocio di Corso Palestro ed in Piazza Rovetta. Nel mio quartiere, fortunatamente non c’è traccia di bombardamenti.
Arrivo in Via Elia Capriolo, salgo le scale, la porta è solo accostata, busso e sussurro “mamma ” . Un abbraccio interminabile.

PRIGIONIERI DI GUERRA
SI VA IN INDIA

PRIGIONIERI di GUERRA

Dopo due anni di guerra in Albania, Grecia e ad El Alamein e quattro anni da prigioniero di guerra, al mio ritorno in Italia ho recuperato su un polveroso scaffale in cantina un quaderno dove, durante e subito dopo il mio ritorno in Patria, ho scritto il mio diario di quegli anni.

Qui di seguito, così come li ho fissati, oltre settant’anni fa su un foglio di carta, trascrivo gli avvenimenti riferiti ad alcuni episodi dell’

ULTIMO PERIODO di PRIGIONIA
NATALE 1944

San Giovanni d’Acri
Il complesso nel quale presteremo la nostra attività sorge sulla riva del mare ed è formato da gruppi di baracche in mezzo al verde. Siamo a meno di un chilometro dalla cittadina fondata dai Crociati e diventata successivamente con la conquista di Gerusalemme, capitale del Regno Crociato. Dalla finestra della mia baracca vedo le mura, il forte della città, il quartiere dei Cavalieri di Malta e la magnifica spiaggia.

In una grande Caserma per Allievi Ufficiali, unitamente a soldati inglesi, una cinquantina di italiani collabora alla gestione dei servizi del Campo. Sulla spallina destra della camicia un nastrino in campo bianco è scritto in rosso “ITALY”.

Siamo una decina, liberi da impegni di lavoro e assistiamo al rito religioso celebrato da un sacerdote protestante. Dopo la cerimonia ci appartiamo nella nostra baracca. Ascoltiamo gli schiamazzi ed i canti dei britannici che festeggiano il Santo Natale con il tradizionale, anche per loro, cenone natalizio. Ci guardiamo l’uno con l‘altro in silenzio, ascoltiamo la radio e attendiamo il ritorno dei nostri compagni occupati nelle mense; dopo mezzanotte arrivano con arrosti, dolciumi, bottiglie di vino e di birra.
I nostri due cuochi hanno confezionato, un menù eccezionale, ma nessuno mangia, nessuno sorride, nessuno parla. Nel salone-ritrovo, da noi volutamente tenuto semibuio, un napoletano inizia a cantare “Marechiaro”, risponde un milanese con “Oh mia bela madunina”, continuano gli alpini con “il Capitano comandante la Compagnia ”, il “ ta-pum, ta-pum, ta-pum” il coro del “ Nabucco”….. commozione, qualche furtiva lacrima.

Sono lontano da casa da tanto tempo (è il quarto Natale dal 1940) e comincio ad immaginare le difficoltà che dovrò affrontare al mio ritorno in Patria. Un fatto mi è ben chiaro, in Italia non userò la macchina da scrivere e tanto meno coordinerò le presenze al
lavoro di camerieri, cuochi e giardinieri ecc., e nemmeno farò l‘apprendista interprete; tornerò in Italia augurandomi di trovare, in tempi brevi, lavoro in qualche officina meccanica.

Quando devo accompagnare all’Ospedale Militare di HAIFA coloro che necessitano di visite specialistiche il pass mi consente di chiedere l’autostop a tutti i mezzi inglesi.

Ne parlo con Najib Tual (un ufficiale inglese con il quale collaboro) e, tramite lui dico del mio desiderio ad un altro ufficiale che mi saluta sempre con cordialità. È innamorato dell‘Italia e quando può mi chiede di Firenze, di Venezia, di Roma e del suo desiderio, dopo la guerra, di fare un viaggio in Italia con la sua famiglia. Dopo una settimana, grazie al suo intervento ed a quello di Najib Tual il quale, anche se dispiaciuto, ha validamente sostenuto la mia richiesta, sono trasferito in una caserma di soldati inglesi a Rishon Le Zyon e poi a Tel Aviv in riva al mare.
Lavoro con altri sette italiani in un’officina meccanica su tre turni di otto ore. Il turno per noi italiani è sempre fisso, dalle 13 alle 21, mentre i due turni inglesi si alternano nelle altre 16 ore. Il lavoro consiste nella manutenzione di materiale ferroviario e, con il nostro arrivo, anche della produzione di pezzi di ricambio. I miei nuovi compagni di lavoro sono operai molto capaci e non c’è problema che venga risolto senza chiedere la nostra partecipazione.
Alla domenica possiamo muoverci liberamente. Incontriamo i giovani ebrei i quali vivono serenamente una vita di grandi sacrifici. Qualche volta prendiamo l‘autobus e con loro passeggiamo liberamente per i vicoli della Medina di Jaffa e per le strade di Tel-Aviv; oppure facciamo il bagno sulla spiaggia che si vede a circa 500 metri dal nostro alloggio. Attendiamo tranquilli il giorno del nostro ritorno in Patria

In spiaggia a Tel Aviv: da sinistra i paracadutisti bresciani: Filippini (Bagnolo Mella), Bugatti Lumezzane, Compagnoni (Brescia), Senna di S. Genesio (Pavia)

Marzo 1945
È domenica e stiamo avviandoci verso la spiaggia dove trascorreremo la giornata. Un ufficiale inglese ci ferma e dice:“ ho una notizia importante per voi ”.
Ci legge un Ordine di servizio che prevede il nostro trasferimento in Egitto.
Salutiamo gli amici inglesi e prepariamo il nostro sacco. Mi porto gli indumenti (nuovi) che ho acquistato in un magazzino militare, i miei libretti (Essential English) le mie poche cose ( il guscio di una tartaruga e di un granchio gigante ) la gavetta, le posate ed una coperta perché in Egitto, non troverò sicuramente una situazione simile a quella che sto per lasciare.
A bordo di un autocarro partiamo per la nuova destinazione. Passiamo da Gaza e rientriamo in Egitto. Attraversiamo il deserto del Sinai ed a notte fonda ci rendiamo conto di essere ritornati al Campo 308.
In un recinto del Campo con circa un centinaio di altri “cobelligeranti ” siamo in attesa di conoscere la prossima destinazione. Gli anziani prigionieri che incontro fuori dalla gabbia quando vado a fare la “spesa viveri”, mi dicono che siamo fortunati perché andremo in Italia ( a Napoli ) per lavorare nei cantieri navali.

Dopo una settimana, presentato da un R.S.M. ascoltiamo in piedi ben allineati e coperti così come vuole la rigida disciplina dell‘Esercito britannico un Colonnello che esordisce dicendo. “ tutti sedere terra,” ci guarda sorridendo e dice: “mi odiate tutti? ; riceve,un inaspettato applauso. Un po’ sorpreso continua a parlare – a braccio – in un “italiano“ incomprensibile; forse vuol elogiare la nostra decisione, forse la nostra capacità di lavoro; solo alla fine del discorso quando un ufficiale gli porge un foglio che egli legge, riusciamo a capirlo. ” ..….d’intesa con il Governo italiano la vostra destinazione è l’India …“
Urla, proteste, richieste di esonero per gli ammogliati con e senza figli, non dovrebbero partire quelli delle classi 1916 e 1917 ( sono ininterrottamente in servizio dal 1939 ).
Gli inglesi sollecitano la presentazione di domande di esonero, devono essere corredate dalla descrizione di dettagliati motivi familiari. Gli inglesi raccolgono tutto, ascoltano con interesse, ma non danno alcuna risposta né lasciano filtrare la minima indiscrezione.

Per quanto mi riguarda io non me la prendo più di tanto. Vedrò un grande ed esotico paese: l‘India. Trascorrono due settimane e finalmente si parte
Siamo 150 metalmeccanici provenienti da vari Campi . Un breve tratto in autocarro e poi in treno. Alcuni soldati inglesi che ci accompagnano dicono: “ se il treno va verso Porto Said ( Mar Mediterraneo) andrete in Italia, se invece si dirige a Sud (Mar Rosso) mettetevi il cuore in pace perché andrete in India”. Siamo tutti affacciati ai finestrini e leggiamo ripetutamente sugli indicatori stradali “ Ismailia “. La posizione del sole ci dice che stiamo andando a nord. Sembra proprio vero. Andremo in Italia.
Il convoglio arriva a Porto Said. Dalla stazione ferroviaria, carichi del nostro fagotto, marciamo ordinati e sorridenti, verso una grande nave all’ancora. Saliamo su uno zatterone che si avvicina alla nave, iniziamo la salita arrampicandoci sulle scale di corda che penzolano dal ponte.

I soldati inglesi dall’alto lanciano monetine sulla zattera e non riusciamo a capire il motivo degli insulti che ci rivolgono a squarciagola. Io sono nel mezzo del gruppo che si sta arrampicando; sul ponte è iniziata una rissa furibonda, la tensione ed il risentimento contro gli inglesi si sono accresciuti. Quando anch’io arrivo sulla nave mi butto, armato della mia gavetta, mi lancio nella mischia. Arrivano una ventina di M.P.( Military Police i quali, senza alcuna distinzione fra noi ed i loro commilitoni, distribuiscono manganellate ai protagonisti della battaglia. Gli inglesi si ritirano e noi veniamo convogliati nei posti che ci hanno assegnato. Hanno chiuso le uscite e per tutto il pomeriggio e la notte nessuno si fa vivo. Nemmeno per darci da mangiare e bere.
La nave parte, dagli oblò al pelo dell‘acqua ( siamo chiusi nella sottocoperta ) vediamo scorrere le pareti del Canale di Suez. Nascono i primi dubbi. Al mattino la conferma: ci stiamo avvicinando ai laghi salati dove vediamo ancorate due grosse navi da guerra italiane ( sono lì bloccate sin dall‘inizio della guerra ).
A destra ed a sinistra sulle rive del Canale ammiro il paesaggio: dune, palme, campi coltivati, casupole, qualche capra e tanti bambini. Arriviamo in mare aperto. Ora siamo liberi di salire sul ponte della nave. Con comprensibile piacere siamo passati dal tanfo della stiva all‘aria frizzante del mar Rosso.

Le proteste sono inutili: andiamo in India.
La guerra continua contro il Giappone e noi … siamo cobelligeranti.

“ Napoli è occupata dagli americani; gli alleati combattono a Cassino e con loro, combatte contro le truppe tedesche, un reparto dell’Esercito italiano, circa 4.000 uomini.

Il Mar Mediterraneo è ormai lontano. La speranza di andare in Italia è svanita Alcuni dei nostri piangono. Un sottufficiale inglese mi consegna un tesserino del quale, qui di seguito ne riproduco copia.
Un gruppetto di giovanissimi soldati inglesi provenienti dall’Inghilterra, chiamati alle armi da pochi mesi, ci avvicina ed inizia subito un dialogo. I motivi della rissa al momento dell’imbarco sono immediatamente chiariti. Non si capisce da chi e perché ai nostri compagni di viaggio, più di un migliaio, era stato detto che noi eravamo soldati italiani “mercenari”.

Il giorno dopo con Guffanti uno dei componenti la mia squadra e cinque giovanissimi londinesi, formiamo un gruppo con il quale trascorriamo in allegria ed amicizia i lunghi giorni di navigazione. Gli amici inglesi concordano con noi nel deplorare la spregiudicata scorrettezza commessa sulla nostra pelle dai Governi Italiano e Britannico.
Con le reclute inglesi parliamo delle atrocità della guerra e delle vicende personali vissute in Albania, in Grecia, in Libia ed in Egitto, delle nostre famiglie e della speranza di ritornare presto in pace alle nostre case.

Febbraio 1945

In Europa la guerra è finita, Berlino è caduta ed a Milano il 25 aprile il CLNAI (corpo di liberazione nazionale alta Italia) ha assunto i poteri civili e militari.

Lasciamo il Canale e passiamo davanti alla statua di Lessep, il realizzatore del Canale di Suez progettato dall‘italiano ing. Negrelli. Siamo usciti dalla incredibile e stupefacente autostrada liquida seguendo la scia di un convoglio eterogeneo di navi. Sono sul ponte di prua con gli amici e guardiamo emozionati le prime onde del Mar Rosso frangersi sotto la prua della nostra nave.
Nel Porto di Aden la nave si ferma per due giorni. Imbarca altre truppe ed effettua i rifornimenti necessari per la traversata. Al mattino mi sveglia l‘aumento del rombo dei motori, (ron-ron) un rimbombo che mi seguirà per tutta la traversata.
Un fischio prolungato di saluto e la grande nave affronta il mare aperto; attraverseremo l‘Oceano Indiano. Siamo diretti in India a Bombay.

Con il gruppetto degli inglesi sono rimasto sul ponte ad ammirare il tramonto e l‘orario della cena è stato abbondantemente superato. Per il notevole ritardo dobbiamo saltare il pasto. Torniamo sul ponte e siamo affascinati da un nuovo grandioso spettacolo.
La volta celeste è punteggiata da innumerabili stelle, la luna sembra a portata di mano ed illumina ogni angolo della nave. La nostalgia di casa nostra ci prende e cantiamo; altri inglesi si uniscono a noi. Portano birra.

Bombay.

Siamo entrati nella baia, due grandi navi da guerra inglesi sono attorniate da nugoli di barche e barchette con a bordo uomini praticamente nudi, che attendono che i marinai lancino loro qualcosa da mangiare. Sulla banchina del porto si muove freneticamente una moltitudine di ombre. Non sembrano esseri umani; sono controllati e spronati al lavoro da uomini vestiti di bianco. Inizia lo sbarco.

Arriviamo in una caserma, situata in un popoloso quartiere; ospita marinai, avieri, soldati appartenenti alle varie specialità dell’ esercito britannico. Con altri italiani sono sistemato, insieme agli inglesi, in un ampio stanzone con brande fornite di lenzuola e coperte. La pulizia dei servizi igienici è ottima ed il rancio altrettanto.
Gli italiani che lavorano alla mensa sono stati catturati in Libia nel 1940-1941. Raccontano di aver trovato una situazione infernale. Non esistevano baracche, c’erano solo capanne; il tetto di lamiera metallica di giorno si arroventava, l’acqua da bere – di colore rossastro – provocava dissenterie gravi ed infine il terreno paludoso era infestato da numerosissimi topolini piccolissimi e da scorpioni giganti, senza contare l’afflusso dei serpenti in occasione delle piogge.
“Oggi – afferma il prigioniero anziano che coordina il lavoro delle cucine – ci troviamo in un vero paradiso; dovrete solo fare attenzione agli sciami di corvi i quali, durante il percorso ( 100 metri ) che separano la cucina dalla sala mensa, puntualmente, all’ora dei pasti, sorvolano numerosissimi il Campo e, con picchiate velocissime agguantano dai piatti il cibo senza nemmeno sfiorare il piatto ..”.

Siamo rimasti in ventidue, salutiamo con un arrivederci gli altri italiani che lasciano la caserma in quanto assegnati ad altri reparti. Trascorriamo nel più completo ozio circa quindici giorni. Nessuno ci avvicina e nessuno dice a quali compiti saremo assegnati.

6 agosto 1945

I soldati britannici sono impegnatissimi in dure marce e attività militari varie. Assistiamo ad un momento di intensa attività per gli inglesi noi, ancora una volta, siamo ignorati.
I nostri amici dicono che siamo vicini ad una zona che potrebbe diventare “Theater of operations.”
Una notte mi svegliano schiamazzi, spari isolati e raffiche di mitragliatrice. I “nostri alleati” sono quasi tutti ubriachi. Nella mia tenda arrivano quegli amici inglesi conosciuti sulla nave, con una cassetta di bottiglie di birra. Billy, uno scozzese simpaticissimo, mi abbraccia e dice: “le fortezze volanti americane, ( 6 agosto ) hanno lanciato la bomba atomica su una città del Giappone. La guerra è praticamente finita.”
Ci uniamo alla festa, alle abbondanti libagioni degli amici inglesi ,,, “
Il giornale del campo riporta i risultati di un torneo di calcio. Io ero nel campo 12.
Nel Campo di Bairagarh cinque giovani inglesi conosciuti sulla nave mi scrissero quanto segue (allego anche la traduzione in italiano):

Parlando di P.O.W. non posso non ricordare un caro amico che era con me in Palestina, il bresciano 0ttorino Pagani (la notte del 23 ottobre 1942, ”servente al pezzo- – rifiutò di collaborare con gli Alleati.
Meno di un anno dopo il suo ritorno in Italia fu dichiarato inabile e ci lasciò. La causa della morte: il trattamento ai limiti dell’umanità ricevuto dagli inglesi al Criminal Camp n° 305.
Voglio ricordarlo con l’amarezza di non essere riuscito a convincerlo a rimanere con noi.
—-

Il Leone Compagnoni ci ha pregato di ri-aggiungere al suo articolo uno stralcio del discorso che Napolitano tenne a El Alamein qualche anno orsono.

Eseguiamo l’ordine:

Non mi stancherò mai di ripetere l’auspicio pronunciato dal Presidente della Repubblica ad El Alamein il 25 ottobre 2008 presente il Ministro della Difesa:

“… rendiamo dunque omaggio alle virtù morali e alle straordinarie doti di coraggio di cui decine di migliaia di uomini diedero incontestabile prova. Tutti furono guidati dal sentimento nazionale e dall’amor di Patria, per diverse e non comparabili che fossero le ragioni invocate dai Governi che si contrapponevano su tutti i fronti nel secondo conflitto mondiale.

Fu una sconfitta che non avrebbe gettato alcuna ombra sui valori di lealtà e di eroismo dei combattenti italiani e tedeschi, ma che fu dovuta – non solo – ad El Alamein, alla soverchiante superiorità di uomini e di mezzi dell’opposto schieramento, ma alla storica insostenibilità delle ragioni delle motivazioni e degli obiettivi dell’impresa bellica nazi-fascista.

Tutto questo è oggi e da un pezzo, alle nostre spalle: ma non va dimenticato. Ed è giusto dire che i veri sconfitti – anche sulle sabbie di El Alamein – furono i disegni di aggressione e di dominio fondati perfino su dottrine di aberrante superiorità razziale….”

Leggi anche