CRONACA AGGIORNATA OGNI ORA

Condividi:

Pubblicato il 19/06/2020

INNI E CANZONETTE ( di Marco Bertolini)

INNI E CANZONETTE

Non sono un appassionato di calcio, ma mi sono visto buona parte delle partite della nostra Nazionale ai Mondiali, e non solo.
Non sono un appassionato di calcio ma ho gioito sempre per le vittorie degli Azzurri, rodendomi il fegato quando perdevano (anche se nel frattempo erano diventati Verdi).
Non sono un appassionato di calcio ma non ho mai trattato con sufficienza la commozione provocata da quel poco di orgoglio nazionale che, forse in memoria dell’antico “panem et circenses”, ci è sempre stato graziosamente concesso, quando gli striscioni delle curve nord e sud lasciano il posto ai tricolori.

Certamente, per quel mio “non essere” sono stato infastidito nei giorni scorsi dalla sbrodolata retorica televisiva sullo “storico” 4 a 3 di Italia-Germania al quale assistetti in TV quando ero ancora uno studente 50 anni fa, come se si trattasse di un evento epico da celebrare. Non lo fu, anche se ne ebbe il vaghissimo sentore per vari motivi, tra cui la connotazione decisamente nazionale, se non nazionalistica, di un avvenimento che ci vedeva contrapposti ad una forte formazione tedesca, nonché per i richiami ad un’italianità che trent’anni dopo la guerra aveva la sua piccola soddisfazione.

Con gli stessi sentimenti ho mal sopportato le celebrazioni delle nostre glorie sportive, propinateci dalla RAI in preparazione del 2 giugno in sostituzione della parata militare, sospesa a causa del Morbo Salvagoverni. Insomma, lo sport quale unico appiglio politicamente corretto del nostro orgoglio nazionale non mi interessa. Mi disturba, anzi.
Anche per questo, non c’era niente che mi spingesse ad assistere alla partita del 17 giugno, altra “storica” occasione con la quale Napoli e Juventus hanno incrociato i preziosi polpacci nella partita della “ripresa” dopo la chiusura (lock down lo dica qualcuna altro!) del Covid-19. Non mi emoziona affatto, appunto, lo scontro tra mercenari torinesi e mercenari napoletani che della città della Mole e di quella di Castel dell’Ovo non hanno niente, se non i lauti compensi loro elargiti dai proprietari delle due società. Anzi, la massa di loro, spalmati in uno spettro cromatico e nazionale decisamente ampio, non hanno niente a che fare con l’Italia. Chiunque abbia vinto, insomma, l’Italia e le due città non c’entrano niente. Non c’è nessuna “scuola italiana”, infatti, che si esprime nei salti e nelle pedate di Ronaldo e compagni e se si esclude la tifoseria, segregata in casa, resta una sparuta minoranza di Italiani nelle file delle due squadre a cantare l’inno all’inizio della partita.

Ecco, appunto, l’Inno.
Anche se non ero interessato, lo erano altri a casa mia e per questo mi è toccata l’umiliazione dell’Inno Nazionale “cantato” da un abbondante performer dall’aria poco italiana ( Sergio sylvestre, ndr) all’inizio della gara. Con una voce senza passione, ma affettando una commozione per nulla spontanea, sulla base di un accordo che evidentemente la FIGC aveva raggiunto col suo impresario (deve pur avere un impresario un artista del genere), è toccato infatti a lui l’onore di marcare col suo esibito accento anglosassone la ripresa della nostra passione nazionale, dopo i mesi del dolore e della paura. Un brusco rientro in una normalità della quale si sarebbe fatto a meno, almeno in questi termini.
Si è già detto molto, di male, sulla prestazione del tizio. A partire dallo stile inappropriato (sempre se di stile si può parlare visto di cosa stiamo trattando) per un canto scritto da un Eroe italiano del nostro Risorgimento, quando le sincopate eruttazioni della pseudo musica corrente sarebbero state paragonate a lamenti di gatti innamorati o avvelenati e non a espressioni artistiche. E poi, il canto senza accompagnamento musicale da parte di una sgradevole voce singola è certamente inappropriato per un inno che esordisce con “Fratelli d’Italia!”, una chiamata all’azione comune quindi, al coro. Ma come si può fare il coro seguendo un “cantante” che se ne frega della partitura e banalizza un inno nel quale si citano elmi e coorti senza la marzialità e la cadenza richiesti da riferimenti guerreschi del genere? Come si fa a cantare in coro con chi non conosce il testo ma ha l’improntitudine di proporsi da voce di riferimento, dando sfogo però a improvvisazioni ritmiche e canore che possono andare bene per le ragazzine urlanti di “Amici” ma non di fronte a due squadre impalate nel campo. S’è visto dagli sforzi eroici dei pochissimi Italiani in gara, in difficoltà a seguire le pause e le accelerazioni dell’artista. Probabilmente, neanche cantanti veri, penso a un Bocelli per rimanere all’attualità nostrana, si sarebbero adattati a un’esibizione senza musica di un brano del genere, anche se la voce che possono esibire è di tutt’altra caratura rispetto a quella risibile del Nostro.
Ma non è tanto lui la pietra dello scandalo. Lui ci campa con quei suoi gorgheggi e con quegli atteggiamenti e se si tratta di allontanare la fame (Oddio, vista la stazza e l’abbondante similoro al collo….), molto è concesso. Certo, non gli dovrebbe essere concesso il pugno chiuso con gratuita chiamata finale in inglese alla giustizia (giustizia de’ che?) dopo il Sì che segue “l’Italia chiamò”, ma c’è da capirlo, poveretto! Come astenersi, visto il suo “look”, da un omaggio obbligatorio al nuovo umanesimo che sta dando così alta prova di sé su entrambe le sponde dell’Atlantico?

Piuttosto, viene da chiedersi chi ha deciso di affidare il nostro Inno ai gorgheggi insulsi di questo tipo, chiaramente poco avvezzo a temi e accenti risorgimentali.
O era proprio questo, lo scopo? Rimarcare anche in un’occasione che dovrebbe unire tutti, che i nuovi Italiani con i vecchi non hanno nulla a che spartire, dando un altro colpetto alla nostra capacità di riconoscerci in un popolo ben preciso, al quale continuano ad appartenere a tutti gli effetti anche le generazioni morte e sepolte che qualche nostalgico si ostina a non voler dimenticare. Ma è un periodo strano il nostro, sulfureo, nel quale anche chi dovrebbe interessarsi di vitali problemi economici del paese, come il supermanager Vittorio Colao incaricato dal Presidente del Consiglio di ricavare la formula magica per uscire dalla crisi, non trova di meglio che trattare di “lotta agli stereotipi” (di genere nel suo caso) nel suo pensoso elenco dei desideri, incrinando addirittura la capacità delle famiglie di riconoscersi nei nomi sulle tombe di chi li ha generati. Quindi, è del tutto normale che si prenda gratuitamente un’occasione nella quale milioni di Italiani erano incollati al televisore per incrinare un altro stereotipo (quello del Mameli classico) e per riallacciarci alle lotte coloratissime e ultra pacifiche contro il bieco Trump d’oltreoceano. Tutto fa brodo quando l’audience tira: l’abbiamo visto più volte alle otto di sera in questi due mesi.
Ai militari si insegna (e lo si insegnava a quelli di leva nei tempi bui) che l’Inno lo si ascolta sull’attenti, salutando. In esso, e nel garrire della Bandiera che normalmente ne accompagna le note, si saluta la terra dei padri, la Patria, e chi per essa ha lavorato e si è sacrificato. Peccato che la terra dei nostri padri non sia sicuramente quella dei padri del nostro performer, non per merito nostro né per colpa sua, certamente. Ma, forse, anziché dare vita ad una sceneggiata urticante per molti prima dei cori “da stadio” nei quali ci si divide in tifoserie contrapposte (sebbene digitali in questo caso), sarebbe stato meglio un momento di unione e di rasserenamento che una sana banda di paese avrebbe favorito più efficacemente. Di questo i dirigenti plaudenti alle spalle dell’artista dovrebbero vergognarsi; di questa occasione mancata dovrebbero scusarsi, senza la pretesa di dimissioni che certamente non fanno parte del loro costume, soprattutto per questioni di così poco conto.

NOTA DELLA REDAZIONE
Sergio Sylvestre, durante l’esecuzione dell’Inno di Mameli prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus,si è dimenticato le parole. Poi si è ripreso

Leggi anche