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Pubblicato il 18/02/2015

ISIS: IL PERICOLO E’ CULTURALE NON MILITARE

 

L’avvicinamento all’Europa per l’Isis è mediaticamente indispensabile: Parigi, poi Copenaghen, ora l’annuncio di essere arrivati “a sud di Roma”. Di notte Le viene mai l’incubo della bandiera nera sull’obelisco di San Pietro?


Onestamente dormo tranquillo, almeno dal punto di vista della difesa militare. Per ora, finché i protagonisti delle iniziative saranno lupi solitari come oggi, la situazione mi appare gestibile con i controlli alle frontiere; se poi dovesse allargarsi, richiederebbe una risposta in grande stile, in cui l’Europa metterà in campo forze di gran lunga superiori a quelle dell’Isis. Quello che non mi lascia tranquillo, invece, è la permeabilità dell’Europa sul piano culturale, sul piano dei valori. Penso a tutti quei giovani, discendenti di migranti, che sono andati a combattere in Siria o in Libia perché affascinati dalla propaganda sofisticata e diabolica dello Stato Islamico: ragazzi che – come scrive l’antropologa francese Dounia Bouzar – cercavano il Paradiso e hanno trovato l’inferno. E mi chiedo: che cosa abbiamo dato noi a questi ragazzi, a parte il benessere materiale? Perché non siamo riusciti a comunicare loro i nostri valori?

Quanto c’è effettivamente di confessionale in questa situazione?
In Francia e in Danimarca bersagli ebraici, nell’ultima esecuzione di massa in Libia vittime copte: l’Isis cerca scientemente una coloritura confessionale, perché questo lo aiuta nella promozione del proprio marchio. È un atteggiamento in contraddizione con quello di buona parte del mondo islamico, che invece cerca di affermare la nazionalità al di là dell’appartenenza religiosa: in Kurdistan le minoranze religiose vengono difese in quanto irachene, in Egitto (dove tra l’altro il Gran Muftì ha avuto parole dure per l’Isis) Al Sisi piange gli ostaggi in quanto egiziani. La confessionalità, tra l’altro, è un’arma sempre pronta anche in altri contesti: sia la destra europea, con Marine Le Pen, che quella israeliana, con Netanyahu, utilizzano il cristianesimo e l’ebraismo in chiave elettorale.

Il mondo islamico ha conosciuto ben altri momenti. A cosa si deve quello attuale, così cupo?
In un certo senso, proprio alla frustrazione di non essere più quello di prima, e all’idea che per tornare ad esserlo occorra fare piazza pulita di tutto ciò che è nuovo e che avrebbe corrotto la purezza della fede. Il mondo islamico ebbe un passato glorioso; poi è stato superato nella tecnica, nell’economia e nello sviluppo dall’Occidente. Oggi fa fatica in un mondo moderno e globalizzato, fianco a fianco con altre religioni: la capacità di convivere con la cultura moderna avviene a chiazze, con esempi positivi (come la Bosnia) e negativi (soprattutto laddove mancano le scuole). A questo va aggiunta la pressione di Paesi (tipo il Qatar, o l’Arabia saudita) che finanziano la chiusura: ne viene fuori un braccio di ferro continuo, che non mostra via d’uscita.

Lei citava prima alcune responsabilità dell’Occidente.
Ne ha parlato proprio oggi il Papa, nell’omelia a Santa Marta, puntando il dito sul commercio di armi. Che sia di armi o di altro, il commercio è stato in questi decenni l’unico paio di occhiali con cui l’Occidente ha guardato quella parte di mondo. Che in Egitto ci fossero Mubarak, Morsi o Ak Sisi per noi era indifferente, purché ci lasciassero fare affari. È mancata la voglia di dialogare culturalmente con questo mondo, e anche quando l’abbiamo annunciato – penso al bellissimo discorso di Obama al Cairo, nel 2009 – poi non sono seguiti atti concreti. E così, ci troviamo in questa situazione: Iraq, Siria e Libia sono il frutto di scelte strategicamente sbagliate, spesso dettate da interessi economici.

Questo per il passato. E il presente?
Mi preoccupa vedere l’Italia e l’Europa prive una posizione propria e, di fatto, dipendenti dagli Stati Uniti. Nei confronti del Medio Oriente, non facciamo nulla per aprirci all’Iran, che potrebbe aiutare a costruire la pace nella regione; nei confronti della Russia, sposiamo acriticamente le posizioni della Nato e non cerchiamo un dialogo per l’Ucraina. Così temo che sarà anche per la Libia, e perderemmo un’occasione.

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