OPINIONI

Condividi:

Pubblicato il 30/07/2015

LA NAJA NON BASTA

LA NAJA NON BASTA

Rifessioni personali del
Par. Gen. D. (aus.) Alessandro PUZZILLI

Fino agli anni ’70 la società italiana è rimasta ancorata ai valori tradizionali e lo stile di vita degli italiani era, più o meno, quello stesso che era stato dei propri padri. La famiglia tradizionale impartiva ai figli la giusta educazione; rispetto, onestà, disciplina e Patria erano concetti ben radicati nelle generazioni che erano emerse dalla catastrofe bellica.

La scuola, da parte sua, impartiva un’educazione tradizionale, in cui i valori allora condivisi erano parte fondante del processo educativo, si insegnava educazione civica, si cantava l’inno nazionale, si familiarizzava con gli eroi risorgimentali, andare di leva era considerato un onore. I media, infine, che non avevano il potere illimitato che hanno acquistato in tempi recenti, erano in linea con il sentimento generale degli italiani, anche quelli di opposizione, e non giocavano al massacro con i valori, avevano un’etica, insomma. Il vento dell’ovest però cominciò a soffiare potente dalla fine degli anni ’60, la rivoluzione culturale iniziò negli USA e si diffuse come un’epidemia nel vecchio continente.

Stranamente, schizofrenicamente le idee americane fecero più presa proprio su quella parte degli italiani che erano ostili agli USA, coloro che si riconoscevano nel PCI ed altri, comunque di sinistra, che da allora iniziarono un processo di frenesia progressista che volle distruggere e negare tutto ciò che era tradizione ed i valori che fino ad allora erano stati patrimonio comune degli italiani. L’Italia entrò allora in un tunnel da cui non è più uscita: il sessantottismo.
Il servizio militare obbligatorio, così come altre istituzioni, cadde vittima di questo fenomeno dissacratorio e distruttivo. Sospeso nel 2005, da almeno dieci/quindici anni era avvertito dalla società e dalle nuove generazioni come un ingiusto tributo da pagare allo stato, i peggiori nemici del servizio di leva furono proprio i partiti del centro-destra, che, in una visione liberista, ritenevano che i giovani, appena terminati gli studi, dovessero diventare immediatamente produttivi; assurdo, ingiustificato, immorale ed ignobile tradimento della tradizione della destra italiana e perfino delle posizioni dei cattolici pacifisti di un tempo, proprio quando l’economia italiana era entrata in una spirale regressiva che dura tutt’oggi, che ha prodotto milioni di disoccupati, soprattutto tra i giovani, e di cui il centro-destra porta non poche responsabilità.

Dal punto di vista sociale, pensare di riattivare il servizio di leva nell’attuale contesto socio-economico-culturale è un nonsenso. Affidare alle Forze Armate il compito di fornire ai giovani gli strumenti culturali e morali per diventare, a vent’anni, dei buoni cittadini è un’idea balzana. Un conto è attribuire al servizio di leva il completamento di un ciclo formativo che deve iniziare in famiglia, proseguire nella scuola e ricevere il sostegno costante della società e dei media, tutt’altra cosa è obbligare persone ormai formate o non-formate a subire un tipo di educazione a cui esse sono estranee se non ostili, sarebbe come andare a seminare l’erba nel deserto.

Dal punto di vista militare, ricreare l’esercito di leva appare un’impresa sovrumana, specialmente nell’attuale stato di carenza di risorse e nel bel mezzo di un processo di riduzione dello strumento militare, condotto da una ministra assolutamente inadeguata. I danni arrecati al comparto Difesa negli ultimi decenni sono irreversibili, anche a voler limitare l’analisi a partire dal primo governo Prodi del 1997. La professionalizzazione delle FA avvenne quasi per caso per iniziativa dell’allora ministro Andreatta, che tirò fuori dal cilindro i primi VSP, mentre erano ancora in corso studi per la definizione del nuovo modello di difesa; i comunisti, che in quel governo ricoprirono un ruolo determinante quanto deleterio, erano contrari alla soppressione della leva, cui si pervenne con il governo Berlusconi nel 2005, Mattarella e Martino Ministri della Difesa. Aggiungere al danno la beffa del riavvio della leva, con tutto il carico di impegno che essa comporterebbe per la Difesa, sarebbe una follia.

Ciò premesso, sono assolutamente favorevole al servizio militare obbligatorio purché nel contesto di una rivoluzione culturale che coinvolga le famiglie, la scuola ed i media.

Sul piano socio-culturale, servire la Patria in armi e creare una famiglia, in una società sana, sono i principali suggelli al patto sociale tra cittadino e stato e tra i cittadini stessi. Il servizio di leva è uno strumento indispensabile affinché si rafforzi il senso di unità nazionale e di appartenenza ad una comunità che si connota come unica rispetto alle altre quanto a territorio, lingua, cultura e tradizioni, alla cui nascita ha fortemente contribuito il sangue versato dai soldati. Esso permette alle giovani generazioni di emanciparsi dalla famiglia, di conoscere giovani di diversa estrazione culturale, sociale e geografica, loro pari con indosso l’uniforme, di imparare ed usare la lingua comune, in un ambiente che si fonda sull’uguaglianza difronte al dovere e di fronte alla morte, dove si versano assieme sangue, sudore e lacrime, dove si impara ad uccidere ed a morire per qualcosa di superiore, la Patria, che trascende il puro soddisfacimento dei propri bisogni, dove s’impara che il bene comune è dovere di tutti e di ciascuno e viene prima del bene dei singoli, dove si impera il valore del sacrificio; un ambiente dove ci sono regole da seguire, anche se non condivise, dove ci sono ruoli precisi ed in cui chi riceve un compito ed una responsabilità è obbligato ad adoperarsi per portarli a compimento, dove l’obbligo disciplinare nei confronti dei superiori diviene anche obbligo morale nei confronti dei commilitoni e del gruppo di appartenenza.

È un tipo di insegnamento e di formazione che si può ricevere solo dal servizio militare, purché le Forze Armate, in continuità con le altre istituzioni e nell’alveo del sentimento nazionale, siano all’altezza di impartirli, il che non è sempre stato in passato.
Sul piano militare, l’esercito di leva può mantenere la propria valenza se affiancato ad uno strumento professionale e rappresenta una garanzia rispetto ai mutamenti del quadro strategico, in cui nessuno ha mai previsto di cancellare la parola GUERRA.

L’attuale strumento militare italiano, formato da professionisti e da personale semi-professionista, in parte impegnato in attività formative, è esclusivamente calibrato sulle contingenti esigenze operative che il quadro nazionale e quello geostrategico presentano al giorno d’oggi, visione miope e rischiosa. Esso è permanentemente impegnato in attività di supporto alle Forze dell’Ordine e della Protezione Civile, quando non addirittura per assolvere compiti impropri, come la raccolta dei rifiuti o la bonifica di discariche abusive o perfino ad occuparsi del soccorso in mare e dell’accoglienza, indistintamente di profughi ed immigrati clandestini, anziché di proteggere le frontiere da essi; tutte attività di scarsa valenza operativa, notevolmente onerose e di ostacolo all’addestramento per i compiti istituzionali. Il principale vantaggio di aver adottato un modello di difesa professionale è che esso consente la partecipazione ad operazioni internazionali di supporto alla pace da parte del nostro paese, quali oramai ultime vestigia di una politica estera altrimenti evanescente. Esse avvengono in un framework NATO, che provvede tutti gli assetti di cui l’Italia non dispone o di cui dispone in misura ridotta, o ONU. Le dimensioni delle strumento sono, tuttavia, tali da potere sostenere solo sforzi, limitati per numero di comandi, unità e relativi supporti operativi e logistici da dispiegare, anche se prolungati nel tempo, purché in un contesto multinazionale in grado di fornire gli assetti non disponibili e, soprattutto, la necessaria copertura di legittimità ad una classe politica incapace di assumersi qualsivoglia responsabilità. Tuttavia, la totale incompetenza, la sconsideratezza e l’ipocrisia dei responsabili politici, governo e parlamento, in particolare quando si tratti di questioni militari non garantiscono che le Forze Armate ricevano missioni commisurate alle proprie capacità e le espongono a rischi inaccettabili. Sarebbe dovere dei capi militari evitare che ciò accada, ma sappiamo come vanno le cose, tutti tengono famiglia.

Forze Armate professionali, pur presentando l’indubbio vantaggio di poter assolvere un ampio spettro di missioni con tempi di approntamento ristretti, purché siano ben equipaggiate ed addestrate, e questo non è sempre il caso, risentono tuttavia di alcune limitazioni, se non vengono adottati adeguati correttivi. Il primo problema è l’invecchiamento del personale, già oggi tra i militari di truppa, coloro cioè che sono preposti ad assolvere i compiti più onerosi sul piano fisico, incompatibili con gli acciacchi dell’età, vi sono CM Ca Sc che navigano verso i 40anni e che, non avendo possibilità di prepensionamento né prospettive di un impiego al di fuori delle FA, sono destinati a rimanere ancora in servizio fino al raggiungimento dei limiti d’età, con la sola prospettiva di accedere eventualmente al ruolo Sergenti. Da ciò deriva il secondo problema, le FA non dispongono di una riserva da richiamare in caso di necessità, perché il personale in congedo che la dovrebbe alimentare ha già superato i limiti di età. Questo vuol dire che
in caso di improvviso aggravarsi del quadro strategico con una minaccia diretta agli interessi nazionali (ad es.: le fonti energetiche in Nord Africa) o addirittura al territorio nazionale (ad es.: da parte di stati o quasi-stati ostili, come il DAESH, o da parte di formazioni guerrigliere, che potranno, in un futuro non troppo lontano, formarsi tra le comunità, sempre più grandi ed incontrollate, di cittadini islamici residenti in Italia), non sarà possibile completare le unità esistenti, largamente sotto organico, e meno che mai dare vita a nuove formazioni per la difesa dei confini o del territorio nazionale.

Tali problemi andrebbero risolti da un lato garantendo al personale militare un ordinamento affatto diverso da quello degli altri dipendenti della PA, ad esempio scaglionando le uscite dal servizio attivo in tempi diversificati, dopo 10, 15, 20 o 25 anni, a seconda della categoria, del grado e della funzione, in modo da liberare posizioni organiche e consentire il reclutamento di giovani provenienti ad esempio dal servizio di leva nei ranghi delle unità; dall’altro, inserendo il personale professionista congedato nella riserva per il completamento delle unità in vita, assoggettandolo a periodici richiami, avendo cura di realizzare un dominio riservato nel mondo del lavoro dove inserire i congedati alla cessazione dal servizio attivo. Il servizio militare obbligatorio, nell’ambito di una tale riorganizzazione del comparto Difesa, potrebbe trovare un’utile e proficua collocazione, intanto rappresentando un serbatoio per il reclutamento del personale professionista, attraverso la costituzione di un limitato numero di unità per l’addestramento di base dove far affluire l’intero contingente di leva, poi per la costituzione di unità da mantenere in vita da destinare a compiti di supporto alle FO ed alla PC, ed, infine, per la creazione all’emergenza di unità ex-novo, da approntare periodicamente per l’addestramento, da destinare, sulla base della dichiarazione di differenti stati di allerta da parte del parlamento, alla difesa dei confini e del territorio nazionale.
In conclusione, come ho cercato di spiegare, la naja non basta, non è una panacea e se, malauguratamente, a condizioni generali invariate, si dovesse decidere di riattivare il servizio di leva, affidandone la responsabilità alle sole FA, si produrrebbe una danno irreparabile. C’è prima da ricostruire e risanare una nazione.

Leggi anche