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Pubblicato il 25/06/2021

25 GIUGNO 1967 – A CIMA VALLONA (BELLUNO)PERDONO LA VITA QUATTRO SOLDATI ITALIANI PER UN ATTENTATO

da IL DOLOMITI
Ci fu un tuono secco però non pioveva/ un lampo di fuoco da terra veniva/ e l’eco veloce si sparse lontano/ riempiendo di fumo le valli ed il piano” (Cima Vallona, Caterina Caselli su testo di Francesco Guccini)

TRENTO. Sono le prime ore del mattino del 25 giugno 1967 quando in un Comune del Comelico, a pochi passi dal confine con l’Austria, un traliccio viene fatto saltare in aria, provocando l’immediato intervento delle forze armate. Queste, tuttavia, ignorano che quello scoppio altro non sia che una trappola: l’unico sentiero che conduce al luogo dell’esplosione, infatti, è minato.



Il luogo dell’attentato, d’altronde, è stato attentamente preparato per compiere una strage. La prima pattuglia giunta sul posto, composta da artificieri, finanzieri e alpini, si dispone a raggiera per avvicinarsi al traliccio caduto. Con sulle spalle l’attrezzatura radio, l’alpino Armando Piva viene investito da un’altra deflagrazione. Una mina nascosta sotto un cumulo di ghiaia è esplosa, mutilandolo e scaraventandolo al suolo. Agonizzante, morirà nella notte.


Sul posto giungono a questo punto dei rinforzi. Un elicottero prende il volo da Bolzano, a bordo una squadra speciale dell’antiterrorismo con l’obiettivo di bonificare l’area. A comporla quattro militari: il capitano dei carabinieri Francesco Gentile, il sottotenente Mario Di Lecce e i sergenti Olivo Dordi e Marcello Fargnani.

Perlustrata l’area, la squadra speciale riesce a disinnescare quattro ordigni. La missione, si pensa, è compiuta, ma nella strada del ritorno verso il villaggio di Sega Digon ci si renderà conto che si tratta solo di una mera illusione. Nel camminare verso il paese, infatti, uno dei militari fa scattare una mina collocata lungo il sentiero. L’esplosione è terribile e travolge tutti e quattro gli artificieri. Gentile e Di Lecce muoiono sul colpo, Dordi poco dopo. Fargnani, invece, riesce a sopravvivere nonostante le gravi ferite.


“Voi non dovete mai avere più la barriera del confine al Brennero. Prima dovete scavarvi la fossa nella nostra terra”, si legge in alcune tavolette lasciate sul luogo dell’attentato (Marcantoni-Postal). “Possiamo ancora sopportare la tracotanza degli austro-nazisti e la colpevole neutralità del governo di Vienna?”, si chiede il Corriere della Sera il giorno dopo l’attentato, mentre il Dolomiten scrive: “l’atto criminale di Cima Vallona è la conseguenza del verdetto assolutorio di Linz e della tolleranza mostrata nei confronti del gruppo di Burger” (Flamini).

Da parte italiana, così come da parte sudtirolese, la reazione all’attentato è quindi durissima. I rapporti fra Roma e Vienna, già piuttosto compromessi dall’ondata di esplosioni che interessa la provincia, si irrigidiscono. Da parte sua, invece, l’Svp vede minacciate le trattative per l’autonomia. Le bombe, d’altronde, avevano proprio quello scoppio: far naufragare i negoziati fra Bolzano e lo Stato italiano.

Sgominato il nucleo sudtirolese del Bas (il “fronte di liberazione del Sudtirolo”), responsabile della Notte dei Fuochi (QUI un approfondimento), il terrorismo per la secessione dell’Alto Adige dall’Italia vede spostarsi il baricentro dell’organizzazione eversiva a nord. Il nuovo Befreiungsausschuss Südtirol, infatti, fa perno sugli ambienti più radicali di Innsbruck e Monaco. Norbert Burger, Pieter Kienesberger e Günther Andergassen guidano un’organizzazione che di sudtirolese ha solo il “braccio armato”: i “bravi ragazzi della Valle Aurina”, autori di scorribande e sparatorie ai danni delle forze dell’ordine.

I nuclei di guerriglia si spostano su un territorio che conoscono a menadito, tendendo agguati alla presenza militare italiana in provincia. Nel settembre del ’64 – a pochi giorni dall’omicidio di Alois Amplatz da parte di una spia al soldo dei servizi segreti italiani e del ferimento di Georg Klotz (QUI un approfondimento) – viene ferito a morte il carabinieri Vittorio Tiralongo. Sarà la prima vittima di ben 12, tra militari, finanzieri e poliziotti, caduti in sparatorie o esplosioni dinamitarde in Alto Adige (e non solo) fino al 1967.


Episodi simili a quello di Selva dei Mulini, in cui perde la vita Tiralongo, avvengono a Sesto Pusteria e a San Martino di Casies, uccidendo rispettivamente due carabinieri e altrettanti finanzieri. A Passo Vizze, un ordigno collegato alla porta di un rifugio alpino gestito dalla finanza esplode uccidendo Bruno Bolognesi. La tensione è alle stelle, quando il 9 settembre 1966, nelle vicinanze del Brennero, venticinque chili di esplosivo collegati ad un gruppo elettrogeno fanno saltare in aria una caserma della guardia di finanza, uccidendo sul colpo Martino Cossu ed Eriberto Volgger, e per le ferite subite Franco Petrucci. A Malga Sasso si sono anche quattro feriti.

Case popolari, treni, stazioni, monumenti, palazzi del potere, sono alcuni degli obiettivi del tritolo del Bas, in un contesto caratterizzato da zone buie ed ambiguità dei servizi segreti italiani – tanto che si parlerà dell’Alto Adige come di un “laboratorio della strategia della tensione” (QUI un approfondimento). Per questo le trattative con i rappresentanti della minoranza tedesca, impegnata nella “Commissione dei 19” a delineare le norme del “Pacchetto”, sono spesso condotte in segreto. Ma le pressioni, nondimeno, non vengono solo dall’eversione pantirolese. Anche organizzazioni dell’estrema destra italiana, legate alle sigle dei servizi segreti e alla rete Stay behind, non mancano di far sentire la propria voce, riunendosi in piazza a Roma a seguito della strage di Malga Sasso.


Al netto degli sforzi e della volontà di chiudere la partita da parte degli esponenti della “stella alpina”, l’atteggiamento dell’Austria si dimostrò ben più ambiguo. Il 31 maggio del 1967, a un mese dalla strage di Cima Vallona, la guida del Bas Norbert Burger viene assolto assieme a diversi compagni nel processo di Linz. Le accuse di violazione della legge sugli esplosivi e di attentato alla sicurezza dello Stato, in relazione agli attentati in Alto Adige, decadono, mentre l’aula viene trasformata in un palcoscenico in cui gli attori protagonisti, i terroristi, lanciano accuse contro lo Stato italiano.

La rottura italo-austriaca, già nell’aria a causa delle reticenze di Vienna nel condannare il terrorismo, si consuma dopo la strage nel Comelico. L’Italia congela l’entrata dell’Austria nella Comunità economica europea, con importanti ricadute sull’economia del Paese alpino. Tale decisione, spiega il presidente del Consiglio Aldo Moro, deve essere presa “non solo nell’interesse italiano, ma anche nell’interesse dell’Europa e nella fiducia che essa valga a rafforzare il governo austriaco nei confronti delle forze estremiste”.


La condanna del terrorismo da parte di Vienna arriverà solo due anni dopo, quando le trattative per l’autonomia arrivarono ad un punto decisivo. L’eco delle bombe sarà a quel punto divenuta più flebile. Dopo Cima Vallona, infatti, il 30 settembre 1967 si verificò l’ultimo tragico attentato con vittime, in cui persero la vita nella stazione di Trento i due agenti della Polfer Filippo Foti e Eduardo Martini (QUI un approfondimento).



Sui responsabili dell’attentato a Cima Vallona, nondimeno, la ricostruzione sarà ulteriore argomento di polemiche, dai tribunali (dove in Italia si condannarono Burger, Kienesberger, Erhard Hartung ed Egon Kufner, assolti poi in un analogo processo in Austria) alla storiografia (vedi lo storico austriaco Hubert Speckner), passando – ovviamente – per il dibattito pubblico, in cui non mancano giudizi favorevoli al terrorismo che sconvolse la regione per oltre trent’anni (vedi l’intervista ad Eva Klotz sul sessantesimo anniversario della Notte dei Fuochi. QUI l’articolo e QUI un approfondimento).

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