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Pubblicato il 06/02/2014

LE STRAGI ANGLOAMERICANE IN SICILIA : 15 CARABINIERI TRUCIDATI A SANGUE FREDDO DOPO LO SBARCO C’E’ ANCORA UN SOPRAVVISSUTO CHE PUO’ TESTIMONIARLO



GELA – CATANIA – QUOTIDIANO LA SICILIA DEL 6 FEBRAIO 2014

«Uscimmo disarmati gli americani ci spararono contro»
I ricordi del superstite della strage di contrada Passo di Piazza, dopo lo sbarco a Gela del ’43, e quelli del ragazzino di Gela , Fortunato Zisa, che ne fu testimone
Il superstite della strage e il ragazzino che ne fu testimone si ritrovano settant’anni dopo.

Nelle memorie indelebili del soldato pugliese Antonio Cianci superstite della strage di 15 carabinieri trucidati in contrada Passo di Piazza dopo lo Sbarco a Gela. O nei ricordi ancora nitidi di Fortunato Zisa, 87 anni, il ragazzino gelese che viveva con la famiglia in quella contrada a 8 km da Gela e fu testimone di quei giorni terribili. Fatti su cui hanno sollevato il velo in questi ultimi anni con i loro libri editi da Mursia (ededicati ad episodi diversi nell’asse Gela-Vittoria-Acate) Andrea Augello, Fabrizio Carloni e per ultimi i siciliani Domenico Anfora e Stefano Pepi.
Il lavoro dei primi due ha fatto scattare l’inchiesta della Procura militare di Napoli con il fascicolo sulle stragi nascoste aperto dal dott. Lucio Molinari.

Lo storico Fabrizio Carloni non ha mai smesso di cercare prove e testimoni di quei delitti di guerra anche dopo la pubblicazione, nel 2011, per Mursia del suo libro dal titolo “eloquente “Gela 1943: le verità nascoste sullo Sbarco americano in Sicilia”.

A lui si deve l’avere rintracciato il superstite Antonio Cianci il cui racconto sulla strage di Passo di Piazza è una parte fondamentale del libro del 2011. Ma è sempre Carloni che è riuscito a dare un nome ed un volto al ragazzo gelese testimone della strage. E a metterli in contatto telefonico con una chiacchierata tra due novantenni segnata da una profonda commozione.


Ma ecco cosa fu la strage di Passo di Piazza nei ricordi di Cianci.

A Passo di Piazza i carabinieri controllavano la tratta ferroviaria per Vittoria ed avevano come sede un casale. La mattina del 10 luglio il presidio dei carabinieri fu circondato da paracadutisti americani.
«Ero sul tetto del casolare e vidi arrivare degli uomini – racconta Cianci -. Ebbi la sensazione che l”elmetto del gruppo di soldati che si avvicinava fosse tedesco. Erano 6 o 7. Avevo l’ordine, nel dubbio, di sparare e mirai ad uno del gruppo e lo uccisi. Reagirono. Loro con i mitra e noi con il moschetto. Gli americani puntarono sul casale tutte le artiglierie navali che avevano lungo la costa. Il vicebrigadiere Carmelo Pancucci, di Agrigento, dopo una coraggiosa resistenza, ci ordinò di stendere delle tovaglie bianche. Uscimmo disarmati verso il cortile. Gli Alleati sentirono rumore da un locale attiguo alla caserma dove vivevano dei contadini e pensando forse che c’erano altri militari e che li avevamo traditi cominciarono a sparare verso di noi. Feci finta di essere colpito e mi gettai a terra. Dopo mezz’ora portarono tutti i feriti in un luogo di campagna poco distante. Restammo lì per tre giorni al freddo e poi ci imbarcarono per l’Algeria. Da allora di quell’episodio non ho parlato nessuno. Una strage in barba alle convenzioni internazionali».
La famiglia di contadini era appunto quella di Fortunato Zisa le cui memorie si sono incrociate oggi con quelle di Cianci confermando li. «Gli Americani li vedemmo arrivare dal lato del lago – dice – urlavano di arrendersi ma un carabiniere sparò e successe il finimondo mentre la mia famiglia scappava. Uno l’ho visto uccidere. Un altro quando siamo rientrati era dentro un pozzo che ancor oggi esiste». Fa a fatica ad uscire fuor i ricordi ma nella lunga telefonata con Cianci si aggiungono nuovi tasselli a quei giorni, a quella strage per la quale nessuno ha pagato.

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