EL ALAMEIN

Condividi:

Pubblicato il 15/11/2011

LETTERA AL POSTERO


di Emilio Camozzi

Trieste

Caro postero. Ho il piacere di non conoscerti. Penso che, tutto sommato, il piacere sia reciproco. Il non conoscerci riesce a farci apprezzare di più. I miei difetti li ho, e tanti. Meglio che tu non li scopra. Io sarò per te solo uno di El Alamein, uno di quelli che …bla,bla…bla,bla…bla,bla.

Tu invece avrai raccolto il testimone che le altre generazioni di paracadutisti ti hanno passato. Conservalo e passalo così lucido e senza macchie come ti è stato consegnato. Non badare se qualcuno cercherà di insozzare la divisa che indossi. Solo il sangue dei nostri morti e dei nostri feriti è riuscito a macchiarla. Credo però sia giusto che tu mi conosca un pò, perciò mi accingo a buttar giù questa specie di ricordi. Fanno parte del piccolo bagaglio di memoria che l’età mi concede. Poiché noi veterani quando ci incontriamo, il che succede spesso, abbiamo la brutta abitudine di raccontarci tutto della guerra. La mente ha amalgamato il tutto e i nostri ricordi personali sono fusi con quelli di altri. Quando per l’ennesima volta risento il racconto delle prodezze di qualche mio amico, mi guardo bene dall’avvisarlo che conosco già tutto. Non per cortesia, ma perché penso che quando lui avrà finito di raccontare, toccherà a me, e lui dovrà fingere di essere la prima volta che ascolta quelle cose.

Ora tocca a te, povero postero, raccogliere il mio sfogo. Quanto sopra detto per renderti edotto che la responsabilità del tuo sonno, quando mi leggerai, non è solo mia. Credo che una delle cose più interessanti sia conoscere le motivazioni che ci accomunano e che ci hanno permesso di compiere il gran salto nel vuoto. Con le tre o quattro generazioni che ci separano, saranno senz’altro diverse. Avrai già dentro di te il culto per una nuova Patria che si chiama Europa. Avrai imparato a considerare fratelli i francesi, i tedeschi, gli slavi, gli inglesi ecc. Probabilmente la lingua italiana, già oggi maledettamente bistrattata, entrerà a far parte del bagaglio degli studenti come lingua morta, allo stesso livello del greco e del latino. Tu parlerai una nuova lingua che, presumo, sarà l’inglese Io, che adoro la mia terra e il dolce idioma, fortunatamente non ci sarò più.

Tu ti sentirai erede più di quelli che hanno conquistato Creta o si sono buttati in Olanda, ed il povero soldatino che ha combattuto ad El Alamein, che già ha avuto l’onore di essere dimenticato negli attuali libri di storia, sarà un fantasma da non prendere nemmeno in considerazione. E’ la vita che continua, e se tu occasionalmente leggerai questa mia lettera, ti renderai conto che gli unici legami con il tuo antenato sono l’orgoglio di appartenere ad un così prestigioso reparto ed il lancio che ti differenzia dal resto del mondo. Non un lancio sportivo, intendiamoci, ma un lancio verso l’ignoto per realizzare un tuo ideale ed affermare una tua convinzione. Questo ci rende fratelli come ha reso fratelli tutti gli appartenenti alla Divisione Folgore prima ed alla Brigata Folgore poi, senza distinzioni di generazioni e di età. Sono nato a Milano nel 1920, agli inizi di una rivoluzione oggi non solo dimenticata, ma avversata.

Mio padre, reduce della prima guerra mondiale, rischiava grosso se osava mettersi un distintivo che lo qualificasse come ex combattente. Uno dei ricordi più vivi della mia infanzia, avrò avuto forse tre anni, è un gruppo di soldati tutti vestiti di nero con l’elmetto in testa, probabilmente arditi, che marciavano inquadrati. Ciò che però mi è rimasto più impresso, era un vecchietto con una strana divisa rossa che tentava di seguirli, ma che ogni tanto doveva fare qualche passettino di corsa per non farsi distaccare. Ero sulle spalle di mio padre, indicavo il vecchietto e ridevo. Mio padre mi prese il braccio e me lo strattonò senza farmi troppo male. Non ridere, mi disse, è un garibaldino. E’stato il mio primo impatto con il mondo e lo spirito militare. Ci vorrebbe uno psicologo, o forse uno psichiatra, per sapere se e quale influenza abbia avuto sulle mie future scelte quell’episodio.

La prima divisa la indossai nel 1926. Ero in prima elementare ed era obbligatorio al sabato mettersi la divisa e radunarsi al campo sportivo per imparare a marciare curando l’allineamento e l’aspetto marziale. Ero un Balilla e, malgrado oggi non sia di moda ammetterlo, ero fiero di esserlo. Se qualche volta ragioni famigliari mi impedivano di andare all’adunata, erano musi lunghi e capricci. A otto anni ebbi il mio primo impatto con le armi. Erano moschetti, la copia, in piccolo, del moschetto 91. Ci raccomandarono di tenerlo bene, pulito , e di non sparare, perché era pericoloso. Ci credevamo solo perché ci faceva piacere crederci. Il culto o, meglio, la cultura della Patria, da difendersi con le armi ed a costo della propria vita, cominciava ad attecchire specie nelle menti giovanissime, che ancora non si rendevano conto dove finisse il gioco e cominciasse la realtà.

I soloni di oggi definirebbero ciò indottrinamento e plagio. In quei tempi si era appena usciti da una guerra vittoriosa, il culto della Patria era un sentimento al di fuori di ogni discussione, e tutto ciò che oggi fa inorridire sociologi, psicologi, politologi ed altri, allora era perfettamente logico e normale. A nove anni, per ragioni famigliari, fui messo in collegio. Altra divisa. Questa volta era la copia esatta dell’uniforme degli alpini. Qui la divisa non aveva “ragioni politiche”, ma solo rappresentative. Mi piaceva poiché sempre divisa era, ma non rappresentava altro che il collegio. Io sentivo questa limitazione e ne soffrivo. Mi lamentai tanto che decisero di cambiarmi collegio. Andai a Rapallo in riva al mare. Qui la divisa era quella di marinaretto. Il golfo Tigullio era meta ambita per le navi da guerra di ogni tipo e di ogni nazionalità. Quando arrivavano era nostro compito andare a bordo e fare gli onori di casa. Cosa molto gradita a loro ma specialmente a noi, perché ci riempivano di cioccolate, biscotti caramelle e, di nascosto, qualche pacchetto di sigarette. Eravamo ragazzi di dodici o tredici anni, ed eravamo convinti che il solo avere una sigaretta in bocca, anche se di nascosto, ci rendesse più simili agli uomini. Ritornai poi in famiglia, a Como.

Qui le divise si susseguirono a ritmo incalzante. Avanguardista, moschettiere, giovane fascista, furono tappe importanti per la mia formazione mentale. Oggi i più direbbero che finalmente si è scoperta la ragione del perché sono un pò svitato. Può darsi che il periodo in cui tu vivi, conservi gli stessi punti di vista. Io spero di no. La storia, quando non è manipolata, finisce sempre con il diventare veritiera. Quel periodo andava forse vissuto così. Oggi non sarebbe più accettabile. Forse. Intanto avevo mandato all’aria gli studi classici perché la famiglia intendeva indirizzarmi a carriere non adatte alla mia indole. Frequentai un corso, che durava due anni, per prendere il brevetto internazionale di radiotelegrafia. Durante il mio secondo anno, l’Italia entrò in guerra. Nel 1939 avevo chiesto ed ottenuto la proroga del servizio militare per ragioni di studio. Così nel 1940,quando tutti i miei amici, che allora chiamavamo camerati, avevano l’opportunità di partecipare a imprese che fino allora avevo solo sognato, io dovevo continuare a stare dietro un banco in un’aula scolastica. Feci domanda al ministero della guerra per frequentare il corso di pilota d’aereo.

Questo era il massimo delle aspirazioni di ognuno di noi. Mi fu risposto di finire gli studi e che, quando sarebbe arrivato il mio momento, mi avrebbero mandato a chiamare. Per me fu una brutta botta. Mi sentivo inutile, e mi consideravo, ed in effetti lo ero, un imboscato. A quei tempi, era una delle peggiori qualifiche che potevi appioppare ad un individuo.Se eri imboscato, le donne non ne volevano saper di te, gli amici ti toglievano il saluto e tu eri sottoposto al disprezzo generale. Oggi la tendenza pare invertita. Gli obiettori di coscienza vanno per la maggiore e più ti defili dal servizio militare, più sei in gamba. Finalmente nel gennaio del 1941 ebbi il piacere e l’onore di indossare una divisa militare. Alla visita di leva mi avevano assegnato agli alpini. Ne ero fiero, ma, poiché volevo fare bene il mio dovere di soldato, feci notare che avevo il brevetto internazionale di radiotelegrafia. Mi mandarono a Roma, dove fui interrogato da due generali. Mi chiesero, tra le altre cose, se conoscevo bene qualche lingua. Risposi che me la cavavo bene col francese. Mi proposero di entrare a far parte del Servizio Informazioni Militari.

Risposi che avrei accettato volentieri purché potessi sempre indossare la divisa. Si misero a ridere e mi congedarono. Ritornai al distretto. Fui assegnato al I° Genio di Torino nel corpo Guardia alla Frontiera. Una specialità che oggi non esiste più. Avevamo la stessa divisa degli alpini. Solo il cappello era senza piuma.Causa il mio diploma, appena arrivato mi trovai sbattuto dietro una cattedra a insegnare segnali Morse a scocciatissima gente che non aveva alcuna intenzione di apprenderli. Malgrado un sergente che avrebbe dovuto sostenermi con la sua autorità, c’erano un’ottantina di teste che annoiate ciondolavano e che facevano un’evidente fatica a non cedere al sonno. Compresa la mia. Un urlo del sottufficiale ogni mezza ora circa (nel frattempo ciondolava anche lui), ristabiliva quello che avrebbe dovuto essere il giusto clima. Io mi sentivo doppiamente imboscato, perché avevo saputo che il reparto a cui ero stato destinato al distretto , era partito per la Russia. La mia esibizione del brevetto aveva, almeno per me, tutta l’aria di una scusa per sottrarmi all’invio in zona d’operazioni. La mia permanenza al I°Genio, data la carenza di istruttori R.T., rischiava di diventare permanente.Per circuirmi, mi avevano dato subito il grado di caporale. Ero esentato dai servizi di piantone, di guardia, dall’istruzione ginnica e militare. Trattato veramente coi guanti. Mia madre, a casa, usava una maggiore severità. In questo idiliaco dolce far niente, capitò un giorno l’angelo liberatore. Era un giovane tenente di fanteria.

Aveva due ali d’oro per mostrine. Sul braccio sinistro un paracadute pure d’oro. Avevo già sentito parlare di paracadutisti, qualcosa che riguardava l’Africa, i carabinieri,le truppe libiche, ma avevo ricordi confusi e nessuna vera informazione. Non ci pensavo nemmeno ad una cosa così bella. Il tenente si mise in cattedra, si presentò come ufficiale arruolatore, ci spiegò di cosa si trattava. Cio che più che mi entusiasmò fu la conclusione. :” Pensateci, soldati. Le prove per accedere al corso sono molto ardue, il corso é molto duro, non tutti arrivano al brevetto.La specialità é giovane, le incognite sono tante. I combattimenti riservati ai paracadutisti prevedono un’alta percentuale di perdite. Solo avendo coscienza di queste cose ed accettandole, potrete diventare dei buoni paracadutisti”. Solo quando più tardi qualcuno che ci voleva poco bene ci chiamò “volontari delle mille lire” mi ricordai del fatto che l’ufficiale non aveva assolutamente accennato al fatto che avremmo avuto quella cifra come paga.

Accettammo in undici. Otto furono scartati alla visita medica. Due furono mandati via da Tarquinia, uno per blenoraggia, l’altro per tubercolosi. Rimasi l’unico degli undici, e penso che il merito, più che mio, sia stato del brevetto di R.T., come il futuro doveva confermare. I miei superiori, sia i diretti che quelli di grado superiore, fecero di tutto per dissuadermi dal mio proposito. Ero l’unico che sapesse maneggiare quel maledetto tasto Morse. Gli altri erano stati già mandati in zona d’operazioni. Molte erano le perdite fra i radiotelegrafisti, poiché nessuno aveva ancora spiegato l’esistenza del radiogoniometro. Gli operatori radio erano alla mercè delle artiglierie avversarie, che avevano l’opportunità di inquadrarli con la massima precisione. Io alla scuola ne avevo sentito parlare, ma le nozioni avute erano solo tecniche e non si riferivano all’uso militare. Per tutto questo non mi volevano mollare. Furono promesse di licenze, di rapidi avanzamenti di grado.Il colonnello comandante giunse a promettermi, nel caso fossi rimasto, di interessarsi presso il ministero della guerra per far equiparare il brevetto internazionale di radiotelegrafia alla licenza liceale onde darmi la possibilità di diventare ufficiale. La cosa era possibile perchè la marina aveva già adottato questo provvedimento.

Malgrado le difficoltà che erano state prospettate, io mi sentivo già paracadutista. E più si davano da fare per trattenermi, più mi sentivo sicuro che avrei raggiunto il mio scopo. Se mi ritenevano indispensabile qua, pensavo, a maggior ragione sarò indispensabile là. Quando si rendevano conto che la mia determinazione non era scalfita da nessun allettamento, mi trasferivano in altra sede. Così andai a Cesana torinese, da Cesana ai colli centrali, sotto il Sestrière e infine sui fortini del monte Chaberton, il forte più alto d’Europa. Il 13 agosto 1941 ricevetti l’ordine di scendere dal forte portando con me tutta la roba, e di presentarmi al comandante del VII Settore G.a.F..

Dopo una sfacchinata di quattro ore giù per le pendici del Chaberton, arrivai al comando. Puzzavo peggio di una capra di ritorno dagli alti pascoli. Ai fortini l’acqua era distribuita con il contagoccie. Fare una doccia era un sogno che mai si realizzava. La barba era fatta a “punta di forbice”.Poiché nemmeno al comando era possibile darsi una lavata, mi presentai al maggiore così come ero. Dall’espressione di disgusto notata sul viso del comandante, mi resi conto delle mie condizioni. Io non me ne accorgevo perché ormai mi ci ero abituato. Mi furono offerte due possibilità: una licenza premio di quindici giorni (era da gennaio che non vedevo mia madre) e ritorno a Cesana, oppure una base di passaggio per Tarquinia, dove sarei dovuto arrivare entro il 15 agosto. Scelsi naturalmente la seconda opzione e, dopo un freddo saluto da parte del comandante, mi precipitai alle casermette.

Erano così chiamate le stalle trasformate in caserma adibite ad ospitare le guardie alla frontiera. Fortunatamente avevo una divisa e della biancheria di ricambio. Avvolsi la roba puzzolente in un telo catramato (non esistevano i sacchetti di plastica) che ficcai in fondo allo zaino. C’erano sei casermette. Tra una casermetta e l’altra correvano dei tubi forati ogni metro e mezzo, da cui scendeva l’acqua convogliata da una sorgente a monte che serviva per le abluzioni dei soldati. Riuscii a fare una specie di bagno Dopo di che, poiché fino a sera non c’erano mezzi per arrivare fino ad Ulzio da dove partiva il treno per Torino, presi il mio armamentario e quasi di corsa mi feci tutta la strada. Meno male che era discesa, ma dieci chilometri con lo zaino affardellato sono sempre dieci chilometri! Stavo correndo verso il mio sogno, e se anche mi avessero imposto di arrivare a Tarquinia a piedi, a piedi sarei andato. Non mi ero reso però conto che la divisa che indossavo andava bene per i tremiladuecento metri dello Chaberton, e non avevo pensato che eravamo in agosto. Man mano che scendevo a passo quasi di corsa, con l’enorme pesantissimo zaino, le due coperte di lana arrotolate sopra, appesantito dalla divisa zuppa di sudore e avvolta in tela catramata, la gavetta e la borraccia doppie,come da dotazione alle truppe alpine, sentivo che mi stavo sciogliendo. Arrivai esausto alla stazione di Ulzio, appena in tempo per prendere il treno per Torino.

Arrivai a Tarquinia verso mezzogiorno, dopo una notte passata all’addiaccio a Genova. In treno mi ero assopito, e poco mancò che proseguissi il mio viaggio per Roma. Un viaggiatore a cui avevo detto che mi sarei fermato a Tarquinia, mi scosse e mi avvisò. Il treno stava per partire. Pregai il viaggiatore di buttarmi lo zaino fuori dal finestrino e feci appena in tempo a scendere. Lo zaino era fortunatamente sul marciapiede, un pò disastrato. Le due coperte si erano sfilate, la gavetta aveva una vistosa ammaccatura, le scarpe chiodate avevano fatto un volo per conto loro. Mentre quelli che erano scesi con me, probabili aspiranti paracadutisti, si stavano allontanando in gruppo, io mi davo da fare per rimettere in sesto le mie carabattole. Postero mio, ero molto giù di morale. Le premesse per un avvenire che io speravo quanto meno eroico, si prospettavano a dir poco terra a terra. Non dico che mi aspettavo all’arrivo una banda o un’ala di dolci ragazze che gettavano fiori , ma il ritrovarmi scarmigliato, sudato, inginocchiato a rimettere insieme uno zaino che, per non incorrere nelle ire di qualche ufficiale pignolo, doveva essere rassettato nel modo indicato dal sempre incombente regolamento, mi aveva ridotto ai minimi termini. Mi buttai a sedere su una panchina della stazione, e stavo quasi per riappisolarmi quando il senso del dovere mi impose di presentarmi al comando. Mi feci indicare dal copostazione la strada per la caserma paracadutisti. Disse di seguire la strada per Tarquinia. Dopo circa un chilometro, vidi sulla destra e sulla sinistra della strada baracche, la maggior parte in legno e qualcuna in muratura.Io cercavo una caserma, anzi, se dovevo dare retta ai miei sogni, mi aspettavo una caserma nuova, moderna, degna della specialità in cui stavo per entrare.

C’era un tizio seduto su un muro di cinta. Fumava una sigaretta, a torso nudo e con i calzoncini da ginnastica. Io non so come saranno fatti gli eroi che popoleranno i sogni della tua generazione. Probabilmente avranno occhiali molto grossi, saranno un pò ingobbiti, i diti delle mani consunti dalle tastiere ed i piedi piatti. Quello era invece il prototipo di come tutti noi avremmo voluto essere per poterci piazzare fra i migliori. Dimostrava trenta o trentacinque anni. Da seduto sembrava già più alto di me. Aveva la pelle lucida, colore bronzo antico, tesa su muscoli che sembravano voler schizzare fuori. La testa sembrava scolpita con l’accetta in un ciocco di quercia tolto da un fuoco del caminetto. Mi fermai per avere informazioni e mi misi sull’attenti : “ Caporale guardia alla frontiera Camozzi Emilio”. “ Cosa fai qui?”. Avevo la base di passaggio e glie la mostrai. : “Qui c’è scritto che devi presentarti a Tarquinia per frequentare il corso paracadutisti”. “ Signorsì “. “ Allora ci si presenta come allievo paracadutista!”. Signorsì, signor…” .” Quando sarai paracadutista mi chiamerai Dario”. “ Signorsì. Dove…” Là. Va”. Ancora non lo sapevo, ma avevo parlato con il sergente maggiore Dario Pirlone, uno che nella storia della Folgore sarebbe divenuto un mito. Andai dove mi aveva indicato. Era una delle poche palazzine in muratura, sede del corpo di guardia e delle prigioni. Mi dissero che il gruppo dei nuovi arrivati stava organizzandosi fra la seconda e la terza baracca. La definizione baracca mi suonava male, ma il sogno di Tarquinia, divenuto realtà, era sufficente a cancellare ogni cattiva impressione. Il gruppo al quale mi aggregai era il più eterogeneo che avessi mai visto.

Eravamo ottanta ragazzi poco più che ventenni, appartenenti a varie specialità dell’esercito. Arrivò un capitano, e scattammo sull’attenti. Ci diede il riposo. Si presentò come capitano Passamonti . Chiese se c’erano graduati. Io ed un altro che aveva il nastrino di soldato scelto, uscimmo dal gruppo. “ Tu di che arma sei?”. Del genio Guardia alla frontiera, signor capitano.” “ E tu? “ . “ Sanità”. Mettetevi a dieci metri di distanza l’uno dall’altro.” Eseguimmo. “ Ci sono anziani?”. Uscirono in sei dal gruppo. Ne scelse tre. “Voi sarete i nuovi comandanti di compagnia finché i vostri ufficiali e sottuficiali avranno fatto i lanci”. Dopo di che assegnò il resto del gruppo ad ognuno di noi, a seconda della specialità. Il più numeroso risultò il Genio, con una ventina di soldati. Il più povero risultò la sanità, con due. Eppure avrei giurato di avere visto più mostrine indicanti la “vaselina(così chiamavamo la Sanità allora). Caro postero , so che questi particolari non varrebbero la pena di essere citati e che la mia lettera possa risultare pesante, ma per poterci comprendere meglio é necessario sciorinare le componenti che caratterizzavano la vita di allora rispetto alla realtà completamente diversa che tu ora stai vivendo. Penso che nei tuoi tempi un individuo che abbia intenzione di fare il servizio militare (se questo servizio esisterà ancora) sarà sezionato sia nello spirito che nella materia, passato attraverso il tritacarne del compiuter che deciderà a quale specialità aggregarlo.

Da noi le cose erano più semplici, direi più umane. Gli amici cercavano di non distaccarsi, i compaesani neppure, questo a costo di rinunciare, di nascosto, alla propria specialità. Mi assegnarono alla seconda baracca. Andai con i miei commilitoni a prenderne possesso: Entrati, altra delusione. Non esistevano brande ma tralicci di legno, che poi chiamammo “castelli”, dove potevano prendere posto quattro persone. Ce n’erano a sufficenza per ospitare una compagnia. Su ogni posto letto un pagliericcio. Chi aveva le proprie coperte, poteva usarle, altrimenti ci avevano detto di passare al megazzino a prenderle. Al magazzino ci diedero anche la divisa ginnica. Finalmente potevo spogliarmi. Ne approvfittai subito. Pregai i miei di aver pazienza per un paio di giorni e di cercare di non procurarmi rogne . Da parte mia avrei cercato di usare il mio grado solo per ragioni indispensabili. Li trovai tutti consenzienti. Erano ancora tempi in cui un grado aveva il suo peso quando era abbinato ad una specifica mansione. Mi ero già accorto della differenza quando a Torino, nell’espletamento dei miei doveri di istruttore di R.T. ero stato promosso caporale. Mentre prima, per ottenere un istante di attenzione o di silenzio dovevo pregare, appena ottenuto il grado bastava un urlaccio e tutto tornava a posto. Squillò la tromba del rancio. Uscimmo per andare alla mensa. Quello della mensa era un sogno proibito di ogni allievo. Non tutti sapevano che esistevano le menseper la truppa. Qualcuno ne aveva sentito vagamente parlare.

Si diceva che la marina, l’aviazione e qualche reparto speciale fruiva di questo servizio, che permetteva ai soldati di sedersi a tavola con un piatto, un bicchiere, coltello forchetta e cucchiaio. Tutti attrezzi che poi sarebbero stati lavati dagli addetti. La mensa allora era appannaggio di ufficiali e sottuficiali. La truppa si metteva in fila con gavetta , coperchio della stessa che fungeva da piatto e gavettino, con pioggia e bel tempo, e attendevano il proprio turno passando poi davanti ad una grande marmitta nera di fuligine dove i cucinieri, con appositi mescoli che dosavano la razione spettante, distribuivano il rancio. La maggior parte delle volte era pastasciutta che ti arrivava nella gavetta in un blocco compatto dovuto alla sovracottura, un pezzetto di carne sfrutatissima, che era prima servita a cercare inutilmente
di dare una parvenza di sapore alla pastasciutta, e generalmente patate, cotte nell’acqua che era servita a lavare i recipienti in cui era stata cotta la carne, e che erano quindi di un pallido rosato che faceva nello stesso tempo tenerezza e disgusto. Era questo il menù principe di ogni caserma. Ed a questo i soldati erano ormai abituati, ma in un angolino era sorta la speranza che,vista l’importanza della nuova specialità, il sistema fosse modificato. Lo era infatti, ma in peggio. Non c’era pastasciutta, ma una brodaglia in cui malinconicamente navigavano pochi e stracotti tubi, probabilmente avanzati da una pastasciutta precedente. Naturalmente, poiché c’era brodo, doveva anche esserci la carne lessa. Ed infatti ci distribuirono un lesso che era stanco di essere tale poichè era stato sfruttato all’eccesso per rendere più mangiabile il brodo. Malgrado gli sforzi, non c’era riuscito ed in compenso si presentava come un insieme di fibre a malapena tenute insieme da una sostanza che non so definire.Come contorno, patate lesse cotte nel brodo e pelate male.

C’era anche il vino, a giustificare il gavettino. Avrebbe potuto, dal colore, essere un chiaretto. Dal sapore si deduceva la tendenza a divetare aceto e l’aggiunta d’acqua per ovviare a questo pericolo. Questo é quanto rimane nei miei ricordi dei ranci della naja. Bisogna però tener conto che tra i miei ricordi e quei tempi ci sono sessanta anni di gustosissime matriciane, di gigantesche fiorentine, di Valpolicella e Barbera e bagordi nobilitati dai gusti della migliore tradizione culinaria italiana. Il rancio di allora era reso gustoso dai nostri venti anni e dalle fatiche diuturne. Da notare anche che l’esiguità della razione era tale da impreziosire il prodotto ingurgitato. Consumavamo il pasto così, all’aperto e, se trovavamo posto, con le spalle appoggiate alle baracche, lottando con mosche e formiche che,ignare della bassa qualità del cibo, tentavano di partecipare al banchetto. Caro postero, se tu sei uno studioso del costume italiano, saprai anche che il “mugugno” era parte essenziale del modo di essere di ogni soldato. Quanto sopra detto potrebbe sembrare appunto il solito mugugno, mentre il mio vero scopo é renderti edotto dei tempi passati. Ormai non ci sarà nessuno che potrà confermarti quanto io affermo. Le generazioni dopo la guerra hanno avuto un trattamento molto più civile. Altrimenti le mamme protesterebbero. Una volta dicevano che i sottuficiali erano la spina dorsale dell’esercito. Già al giorno d’oggi pare che questa funzione sia passata alle mamme.

Al rancio ci avevano informati che, finché non fossero arrivati i nostri ufficiali, non avremmo potuto andare in libera uscita. Dalle casermette più in su delle nostre, uscivano soldati agghindati e tirati a lucido, ancora con le divise dei reparti di provenienza , le mostrine con l’ala ed il gladio ed il paracadute sul braccio. Li guardavamo da lontano, soggiogati da un sentimento reverenziale. Il solo pensiero che un giorno saremmo stati come loro ci riempiva di orgoglio. Ci riunimmo a crocchi e cominciammo a conoscerci. Saremmo diventati amici e, con le vicissitudini della guerra, fratelli. Era notte quando squillò il silenzio. Ci ritirammo nella nostra baracca. Preparammo i giacigli e, dopo dieci minuti, si sentiva già qualche respiro pesante e qualcuno che cominciava a russare. Era un sonno liberatore allietato probabilmente da sogni di gloria. Venti minuti dopo si notava un agitarsi generale seguito da indistinti mugolii e da qualche leggera bestemmia. Non era ancora passata mezz’ora che un coro di bestemmie inquinò la pacifica atmosfera della baracca. Uno aprì la luce. I giacigli brullicavano di cimici, ed i nostri corpi pure. A quei tempi non esistevano mezzi atti a liberarci di quegli immondi insetti. Decidemmo di uscire dalla baracca liberandoci di tutto ciò che indossavamo e di portare fuori roba ancora racchiusa nello zaino.

Eseguimmo e notammo che anche gli altri avevano eseguito il nostro stesso lavoro. Nelle baracche degli anziani invece nessun movimento. Luci spente, tutto calmo, nessun movimento. Che fosse stato un episodio di anzianità (attuale nonnismo)?. Ci smbrava impossibile che gli anziani avessero raccolto tutte le cimici e le avessero portate nelle baracche degli allievi, oppure che le avessero indotte a trasferirsi nelle nostre baracche. Come al solito, il nonnismo non c’entrava. Settimanalmente le baracche venivano sigillate e riempite di un gas velenoso che cercava di eliminare le bestiacce. Il trattamento non era stato probabilmente eseguito dopo che gli ultimi occupanti erano andati via. Dormimmo perciò tutti all’aria aperta. La stessa notte la squadra della disinfestazione provvide a sistemare le cose. Il giorno dopo, di prima mattina, arrivarono i primi sottuficiali. Erano sei, e tutti avevano sul viso i segni di una notte passata in bianco. Infatti ci confessarono di non essere andati a dormire perchè avevano festeggiato il conseguimento del brevetto di paracadutista. In quei tempi, postero mio, il sottuficiale era veramente il”Signor sergente” e nella compagnia aveva più carisma di un ufficiale.Mentre gli ufficiali di complemento tendevano ad essere paterni e condiscendenti con la truppa, gli ufficiali di cariera seguivano rigidamente il regolamento per non incorrere in guai al prossimo avanzamento, i sottuficiali facevano da tramite fra queste tendenze che talvolta cozzavano tra loro, e la truppa, che loro conoscevano meglio e con cui avevano contatti più stretti. Quelli che, oltre ad essere sottufficiali, erano anche paracadutisti, avevano su di noi un potere assoluto. Già il giorno dopo, all’arrivo degli ufficiali , poterono presentare la forza secondo la più rigida forma militare, dopo solo dieci minuti di allenamento. Nella giornata erano arrivati altri genieri. Eravamo circa ottanta. La compagnia fu presentata dal sergente Migotto, friulano dalla grinta di mastino e dal cuore di burro, al capitano Di Lorenzo, ufficiale di complemento, messo al comando di una compagnia di trasmettitori solo perché aveva fatto il servizio militare nel genio pontieri.

Il capitano ci passò in rivista fermandosi presso ciascuno di noi e chiedendoci le generalità e il luogo di provenienza. Ad ognuno di noi strinse la mano e disse qualche parola di benvenuto. Poco militare, in effetti, ma molto efficace. Ci presentò poi gli altri quattro ufficiali. Ad ognuno di loro affidò il comando di un plotone ed al più anziano il vicecomando della compagnia. Così alla luce del sole e senza tante formalità si formò la Compagnia Collegamenti.

Leggi anche