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Pubblicato il 27/04/2014

LIBRO FOTOGRAFICO DI PAOLO NESPOLI SUL LIBANO


IL SOLE 24 ORE del 27 Aprile 2014
Il fotografo con il paracadute

il fotografo soldato |Paolo Nespoli, paracadutista,
Il sergente con la passione della fotografia ha realizzato uno straordinario diario per immagini della missione italiana in Libano guidata da Angioni tra il 1982 e il 1984

Laura Leonelli

Li consegnava una volta la settimana, due se era successo qualcosa di grosso. Saliva sulla jeep, infilava il calcio dell’M12 nella maniglia della portiera, usciva dal comando di contingente, attraversava i campi di Borj el Barajneh e di Sabra e Chatila, entrava nel settore francese, e percorrendo la Corniche raggiungeva un piccolo laboratorio fotografico, nel cuore di Hamra. E lì, non lontano dall’Ambasciata americana, il sergente Paolo Nespoli, incursore del 9 battaglione paracadutisti Col Moschin, fotografo in tempo di pace e sotto le armi, lasciava i suoi rullini e risaliva in macchina. Poche ore dopo, nell’indifferenza chimica dello sviluppo, insieme a foto di matrimoni e compleanni, tornavano alla luce gli attimi di una vita in guerra, quella del contingente italiano a Beirut e quella di Beirut che viveva, moriva e riprendeva a vivere ogni giorno, nella guerra mai finita della sua esistenza. Di questi viaggi, uscendo dai campi palestinesi affidati al controllo dell’Esercito italiano nell’ambito della missione internazionale di pace a seguito dell’invasione israeliana in Libano, Paolo Nespoli ne ha compiuti molti, scrivendo, immagine dopo immagine, uno straordinario diario fotografico della missione italiana in Libano, guidata dal generale Franco Angioni dal settembre 1982 al febbraio 1984. Per lungo tempo queste centinaia d’immagini sono rimaste nella cantina di una villa a Verano Brianza.

Nella loro perfetta simbiosi alla vita di Beirut, gli scatti hanno preso la forma di uno dei tantissimi ordigni che gli incursori italiani recuperavano nelle case e nelle strade dei campi palestinesi, e facevano esplodere al sicuro. Chiuse in una scatola, le fotografie del sergente Nespoli, oggi astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea suo il record italiano di permanenza nel “cosmo” con 174 giorni a bordo della Stazione Spaziale Internazionale sono “riesplose” improvvisamente e a trent’anni dalla fine della celebre missione Italcon, in esclusiva per Il Sole 24 Ore, tornano a raccontare la storia di quei giorni tragici e indimenticabili.

Nessun dei tanti fotografi, che pure nella visione rivoluzionaria del generale Angioni avevano per la prima volta libero accesso a un contingente di militari italiani, ha potuto vantare lo stesso sguardo interno di Paolo Nespoli, la stessa ricchezza quotidiana, quell’alternarsi di ordinario ed eccezionale che sostanzia ognuna delle sue immagini. È un reportage senza limiti di tempo. C’è l’arrivo al porto di Beirut della nave Canguro Bianco su cui viaggiano i parà, ci sono i passi incerti alla scoperta di una città sconosciuta e stravolta, c’è la calce sulla fossa comune che raccoglie i cadaveri della strage di Sabra e Chatila, ci sono gli sguardi smarriti delle donne e dei bambini palestinesi che osservano l’arrivo di nuovi soldati, chi sono? cosa vogliono? occupano, invadono, uccidono ancora?, e c’è negli stessi soldati italiani una coscienza nuova: quella di essere un esercito operativo, al fronte, lontano da casa. È la prima volta dopo la seconda guerra mondiale. Con il Libano inizia un’altra epoca, quella di oggi.

Si può ben capire quindi la rabbia del sergente Nespoli, istruttore di paracadutismo e incursore nelle sue note caratteriali a fine corso si legge idoneo, molto efficace, contesta, qualità morali ottime quando a poche settimane dall’arrivo a Beirut fu chiamato al comando. «Pensavo di aver commesso un errore ricorda oggi Paolo Nespoli Invece il generale Angioni cercava un fotografo. Voleva qualcuno che gli facesse da guardia del corpo e documentasse le operazioni. C’era stato un precedente.

Qualche giorno prima un tenente dell’esercito libanese era entrato nel nostro settore, nel capo palesinese di Borj el Barajneh, con l’ordine di abbattere alcune abitazioni.

Il generale Angioni si era rifiutato, perché nel nostro mandato è vero che doveva collaborare con l’esercito libanese, ma dovevamo soprattutto proteggere la popolazione civile. In risposta, il tenente fa partire una cannonata dall’autoblindo, il colpo esplode contro una casa, la gente urla, Angioni non si muove, estrae la pistola e, diciamo così, invita il collega a ritirarsi, e la storia finisce lì.

Quando però Angioni si gira per cercare la sua scorta, non la trova. Dov’è? Sotto la jeep. Testimoni? Nessuno», racconta Nespoli. «Adesso capisco la scelta di volere un fotografo accanto a sé, ma allora, a 25 anni, dopo due anni di addestramento duro per diventare incursore, presi malissimo il mio trasferimento. Non avevo ancora intuito che la macchina fotografica sarebbe diventata il mio biglietto per libertà in Libano e nelle missioni più estreme».

Zaino, paracadute, Nikon al collo e Nespoli entra nell’Ufficio Arabo, diretto dal capitano Corrado Cantatore, nome in codice Charlie1. Nespoli diventa Charlie2. L’Ufficio Arabo, responsabile tra l’altro dei rapporti con la stampa, era nella cantina del comando, alloggiato in una villa appartenuta fino a qualche mese prima della guerra a un cugino del re d’Arabia Saudita. Partono da qui, a ritmo convulso, le incursioni fotografiche. Una mattina sono i pattugliamenti tra le vie strette dei campi, i militari senza giubbotto antiproiettile e i bambini senza scarpe, «ma come facevi altrimenti a dare fiducia alla popolazione se tu per primo non ti fidavi di loro?», spiega Nespoli.

Nel pomeriggio è il ritrovamento sul tetto di una casa a Sabra di una batteria di razzi puntati verso il settore cristiano, «e qualche giorno dopo il tipografo che stampava le cartoline del contingente, nel settore francese, mi fa vedere nel suo cortile gli stessi razzi puntati verso i campi palestinesi e quindi verso di noi». Arrivano i primi giornalisti. Sono i briefing al comando, la sala riunioni ricoperta di carte geografiche e tra l’una e l’altra spuntano i fiori della vecchia tappezzeria, «e i giornalisti americani, francesi, tedeschi dicevano se vuoi vedere qualcosa vai dagli italiani». Arriva Pertini, che vuole visitare la città morta. Arriva Loredana Bertè che canta Non sono una signora in guaina di pelle nera. Arriva Amin Gemayel, neo presidente del Libano dopo l’assassinio di suo fratello Bashir nel settembre del 1982. E arrivano i feriti all’ospedale da campo italiano, 64.483 civili, la maggior parte bambini, e un medico esce dalla tenda, mostra una radiografia sotto il sole, si vede un proiettile nel bacino e si vedono le mura di sacchi che proteggono l’accampamento. Qualche foto dopo, nella cronaca di coraggiosa normalità che illumina le pagine di questo diario, ci sono le immagini di un pranzo in mensa, ospite Enzo Biagi, e di una cena al comando, quella del giovedì quando bisognava esaurire le scorte di razioni k, tra scatolette di tonno, lattine di aranciata e bottiglie di Chianti Classico e Sangiovese. Ma il 18 aprile, a cancellare questa fragile sensazione di pace, arriva l’esplosione del l’ambasciata americana: 63 morti.

In autunno, il 20 settembre, viene colpita la santabarbara della Folgore e nelle immagini, poche ore dopo, è tutto un raccogliere i pochi proiettili inesplosi. Qualche fotografia più in là e la storia di Beirut, il 23 ottobre, registra gli attentati ai settori americani e francesi: 241 morti il primo, 56 il secondo. «Disubbidendo agli ordini, avevo preso la jeep ed ero andato a fotografare i nostri soldati, che aiutavano i marines a sollevare le macerie», ricorda Nespoli. «Sono a metà strada quando sull’altra corsia vedo Angioni, nome in codice Condor1, che sta tornando dal settore americano. Subito mi chiama sulla radio: Charlie 2, ma dove stai andando? Inchiodo, penso al peggio, e mentre sto per prendere il microfono, sento la voce del capitano Cantatore: Condor1 da Charlie1. Avanti Charlie1. Comandante, l’ho mandato io a fotografare i nostri. Ok, va bene. Cantatore mi aveva coperto, e pensare che ero scappato pure da lui».

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