EL ALAMEIN

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Pubblicato il 22/11/2018

PARACADUTISTI DEL NORD E PARACADUTISTI DEL SUD SI ABBRACCIANO SUL PO

PARACADUTISTI DEL NORD E PARACADUTISTI DEL SUD SI ABBRACCIANO SUL PO
31 Jul 2002
Autore: brani tratti da La PICCOLA ITALIANA di Giorleo
STORIA DEL MONCENISIO

Il “Folgore” verso la prigionia di Coltano

I camion procedevano spediti lungo la strada polverosa e assolata che tagliava la campagna in cui erano ancora visibili le tracce della guerra. Lì, fino ad alcune settimane prima, consistenti reparti tedeschi e sparuti gruppi d’italiani avevano tenuto testa ad americani, inglesi, canadesi, sudafricani, indiani. Poi, l’avanzata alleata s’era fatta inarrestabile. Del resto, Wolff stava trattando la resa a nostra insaputa, e non c’era più motivo, per i tedeschi, di spargere ancora sangue in difesa di quel pezzo di terra italiana.
Anche noi, schierati lungo l’arco alpino occidentale, eravamo stati costretti a mollare dopo che i tedeschi avevano deciso di sgombrare la Val d’Aosta. Abbandonati i bunker del San Bernardo, eravamo scesi fino a Saint Vincent, arroccandoci in attesa degli “alleati”.
IL MAGGIORE SALA: NON CI ARRENDEREMO AI PARTIGIANI 

Il nostro comandante di reggimento, maggiore Sala, era stato categorico con i partigiani: il “Folgore” non si arrende. Se volete, veniteci a prendere. E quelli si erano ben guardati dal farlo.
Sala aveva assunto il comando di Aosta visto che appena giunto in città aveva realizzato che tutte le autorità erano fuggite. Il vescovo, monsignor Imberti e il C.L.N. locale avevano intimato la deposizione delle armi ai paracadutisti, ma Sala rispose:
“Uniamo tutti gli italiani di Aosta, siano essi della R.S.I. o del C.L.N., e facciamo fronte comune contro le minacce francesi sulla Valle. Se per motivi di opportunità politica non desiderate trovarvi faccia a faccia con i soldati francesi, lasciate a noi questo compito, non attaccateci alle spalle e noi ci impegniamo a difendere i confini da ogni minaccia”. 
Per farlo, concordarono di spostarsi a Saint Vincent. Nella giornata del 1° maggio i paracadutisti uscirono dalla caserma Testafolchi e marciarono cantando avvolti da due ali di folla. Nel pomeriggio la truppa raggiunse Saint Vincent accasermandosi al Grand Hotel Billia. Il 3 maggio un’avanguardia americana raggiunse l’hotel e il maggiore Rooney chiese di parlare col Comandante. Rooney non voleva una resa plateale perché nutriva troppo rispetto per i paracadutisti italiani, chiese solo la consegna delle chiavi dell’armeria. Poi arrivò una colonna della 34a Divisione di fanteria americana (Red Bull) che aveva combattuto a Nettuno e conosceva quindi il valore dei paracadutisti italiani. Alle 10.00 cominciò la cerimonia di consegna delle armi: ogni parà consegnava la propria arma al Comandante Sala, dopo averla baciata. All’evento non erano presenti gli americani, per rispetto. Il Comandante ringraziò poi i suoi uomini per il coraggio e la dedizione. Poi i paracadutisti intonarono “La Preghiera del Legionario”. Incuriositi dal canto arrivarono gli americani e si misero sull’attenti. Gli ufficiali mantennero la pistola e il Folgore si arrese con l’onore delle armi. Il labaro del Folgore e il gagliardetto della Legione Dalmata vennero tagliati a striscioline e ogni parà ne ebbe un pezzo. Il 5 maggio i paracadutisti lasciarono l’albergo a bordo dei camion americani.
Il racconto di Giorleo
Era il 5 maggio dei 1945. Il giorno seguente, scortati dalla bassa forza negra, via verso il campo di concentramento.
Eravamo in viaggio ormai da parecchie ore, stipati nei cassoni dei camion, stanchi, impolverati, affamati.
Il “Folgore” ripercorreva a ritroso il tragitto compiuto circa dieci mesi prima, quando aveva perso metà  degli effettivi nella Pianura Pontina e alle porte di Roma.
Riandavamo con la mente a quell’ epopea e la nostra sorte ci appariva ancora più dolorosa.
I nostri guardiani sembravano non prendersela troppo: sedevano nella cabina di guida, uno al volante, l’ altro affaccendato ad ascoltare musica da una radiolina, a masticare chewing e a ingollare, di tanto in tanto, sorsate di whisky.
Durante la notte avevamo attraversato Milano e, quando i camion avevano dovuto rallentare nelle strade ancora ingombre di macerie, parecchi ragazzi erano saltati giù, allontanandosi nel buio.
Erano quasi tutti milanesi, o comunque di quelle parti.
Sapevano dove nascondersi. Per gli altri, sarebbe stato difficile salvare la pelle.
Per un momento ero stato tentato anch’ io di filarmela, ma dove sarei potuto andare?
Non avevo più notizie dei miei; non sapevo se mio padre fosse anche lui prigioniero o se fosse stato ucciso, nè dove potesse essersi rifugiata mia madre.
Il mattino dopo, al ponte di barche sul Po, presso Piacenza, avevamo dovuto attendere un bel pezzo: prima di noi doveva transitare, in senso inverso, un’ autocolonna di “badogliani”. Quando i loro camion incrociarono i nostri, dalle due parti si alzò il grido di “Folgore … folgore…” e fu tutto un agitare di braccia, uno sventolare di baschi e fazzoletti.
I paracadutisti del sud e quelli del nord s’ erano ritrovati dopo aver combattuto per un anno e mezzo su opposti fronti.
I “sudisti scesero dai camion e noi facemmo altrettanto, mentre i soldati americani osservavano stupefatti quella scena incredibile.
Vecchi compagni d’arme della “Nembo”, divisi in Sardegna da un armistizio che nessuno di loro avrebbe voluto, si corsero incontro e si abbracciarono, di nuovo affratellati da un comune senso di orgoglio, di fierezza, per aver servito, ciascuno a suo modo, la Patria.

Approfittando di quella confusione, il caporalmaggiore Vicchio, un anziano paracadutista che era stato ferito sul fronte francese e, dall’ ospedale dove era ricoverato, aveva raggiunto il reggimento prima della partenza da Aosta, tirò fuori dallo zaino uno sgualcito abito borghese, l’ indossò alla bell’ e meglio e rimase lì, in mezzo a noi, fingendo di chiedere notizie di un congiunto. I soldati americani gli intimarono d’andarsene ed egli si allontanò con il suo passo claudicante, voltandosi a salutarci con lo sguardo. Chissà  se sarà  mai riuscito a raggiungere la sua Calabria? I camion continuavano ad andare veloci e avevano lasciato la terra emiliana per inoltrarsi in quella toscana. Qui le tracce della guerra erano meno evidenti; davanti ai nostri occhi scorrevano vigneti e alberi da frutta, poderi ritagliati nel verde della campagna e case coloniche dai tetti d’ un rosso squillante. Ci pareva dì sentirci più leggeri, meno oppressi da quel senso di umiliazione, quasi di colpa, che pesa sui soldati sconfitti. Durante il viaggio, all’ entrata nei paesi, eravamo stati accolti da una canea urlante, che ci scagliava invettive, maledizioni, sputi e sassate, che inseguiva i camion con pale e forconi. Per difenderci, avevamo lanciato contro quei forsennati i nostri elmetti, le nostre borracce, alcuni persino gli zaini. Ma tutto questo stava per finire, stavamo avvicinandoci alla meta: avremmo trascorso un certo periodo dietro i reticolati, poi, chissà ? Speravamo nell’avvenire. A vent’ anni si ha il diritto di farlo, si ha la forza di ricominciare. Il nostro camion si bloccò a un tratto dinanzi a un podere. Uno dei nostri guardiani scese e fece cenno a una donna di volere da bere. Quella si precipitò in casa e tornò con una fiasca di vino ghiacciato. Il negro bevve a garganella e passò la fiasca al compagno, sceso anche lui dal camion. Fu allora che qualcuno di noi, sfinito dalla sete, chiese di poter fare una sorsata: “Paisà , please, paisà”. Il negro stava per passargli la fiasca, ma ne fu impedito dalla donna, spalleggiata da altri contadini sopraggiunti nel frattempo: “No… ai fascisti no … Che crepino di sete…” Ma sono italiani come noi ‑ s’udì una voce argentina, infantile ‑; sono soldati italiani… Perchè non dargli da bere?..” Una ragazzetta, poco più d’ una bambina, con indosso un vestito lacero, a piedi scalzi, s’ era fatta avanti sfidando il gruppetto di contadini.
” Di che t’ impicci tu?…” le gridò dietro la donna, ma la ragazzina, per nulla intimorita, scomparve dietro la casa e poco dopo tornò reggendo a fatica un mastello colmo d’acqua. S’avvicinò al camion e: “Bevete”, disse, facendo l’ atto di passarcelo. Uno dei contadini cercò d’ impedirglielo, ma l’autista negro lo ricacciò indietro con una spinta, prese il mastello e ce lo consegnò. Ridevamo, spruzzandoci addosso l’ acqua mentre il camion ripartiva.
Prima di scomparire dietro una curva, scorgemmo la ragazzina che, ritta in mezzo alla strada, salutava con il braccio levato in alto, agitando la mano.

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