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Pubblicato il 11/04/2020

PASQUA CRISTIANA – GERUSALEMME ASSEDIATA E PERSA DA SEMPRE

di Gaetano Canetti

IL TEMPIO DI GERUSALEMME – DOMINUS FLEVIT-
“Al-Quds” in arabo, “Yerushalayim” in ebraico, Hierosolyma in latino: ovvero “Città della Pace”.
Ma di pace Gerusalemme, ne ha conosciuta ben poca nella sua storia: è stata accerchiata, assediata, depredata per ben 23 volte.
Per comprendere a fondo il cammino verso la morte e risurrezione di Gesù, poggiando saldamente i piedi su dati di fatto, bisogna obbligatoriamente confrontarsi con la storia di questa città.
Siamo intorno al 30 d.C. e per il pio ebreo, in questi anni, Gerusalemme ed il suo “Tempio” sono tutto: qui abita “Yahweh”.
Un Tempio sontuoso ed enorme (marmi, oro, argento in quantità) la cui descrizione ritroviamo minuziosa nella “Guerra Giudaica” di Flavio Giuseppe, quella “guerra di Giudea” che nel 70 d.C. porterà alla sua distruzione da parte dei romani.
Il Tempio si ergeva sul monte Moriah ad est dell’agglomerato urbano ed era suddiviso in vari “cortili” concentrici (i più interni interdetti ai non ebrei) verso un edificio centrale, la “Sancta Sanctorum”, il luogo dove abitava Jahvé, Dio.
Il “Tempio di Gerusalemme” era in realtà Gerusalemme stessa per l’ebreo, prima della sua distruzione: è la identità del popolo di Israele stesso, popolo che vive sotto il giogo romano (Imperatore Tiberio) in un territorio suddiviso artificialmente dagli oppressori in più regioni (Giudea, Samaria, Galilea, Decapoli, Perea).
La legge prescriveva al pio ebreo l’obbligo di recarvisi tre volte l’anno a Pasqua, per la Pentecoste e la Festa delle Capanne, ma non tutti potevano permettersi tre viaggi l’anno, però tutti i maschi adulti vi si recavano per i giorni pasquali, da tutte le regioni della Palestina e anche da fuori.
Così, nei giorni pasquali e all’interno degli immensi cortili, tutta la nazione si incontrava, discuteva, commerciava (in modo anche sfacciato), si immolavano cataste di animali in sacrificio, e si rinsaldava nella fede.
Ogni buon ebreo era tenuto a versare la tassa al Tempio, per la costruzione, la manutenzione, il culto.
Un’intera Casta Sarcedotale, composta soprattutto da Sadducei, aveva la sua unica, enorme missione di sovraintendere alla vita sociale, economica e finanziaria ma anche alle funzioni religiose che si svolgevano al suo interno.
Il capo di tale casta era il Sommo Sacerdote e solo lui, una volta l’anno per Pasqua, poteva entrare in sontuosi paramenti sacri nella vuota stanza della Sancta Sanctorum, lì, dove si trovava lo sgabello di Jahvé, il trono dove sedeva la Shekinah, la sua Presenza invisibile.
Al Sinedrio (massimamente composto da Sadducei favorevoli ai romani) il compito di badare anche all’ordine tra le mura sacre, dove, nei cortili più interni, nemmeno i romani potevano entrare (negato l’accesso ad ogni impuro non ebreo, pena la rivolta). A tale scopo, era a disposizione una, limitata, milizia armata del Tempio.
I Romani, dal canto loro, controllavano il Tempio dalla “Fortezza Antonia”, costruita sul lato Nord Ovest e a questo direttamente collegata, da cui potevano affluire velocemente in caso scoppiassero quelle frequenti e temutissime sommosse all’interno.
Il popolo ebraico era nella massima parte contrario all’occupazione romana e non di rado accadeva che gli “zeloti”, gli estremisti antiromani, passassero all’azione tra la folla, uccidendo in proditorio agguato un “collaborazionista” utilizzando il pugnale corto nascosto sotto il mantello (la sica da cui il termine “sicario”).
Ma c’era soprattutto un altro motivo che rendeva elettrica e pericolosa la situazione in Palestina per i Romani: gli Ebrei stavano aspettando proprio in quel tempo il loro Masiah, il Messia, l’Unto, il Re che doveva arrivare e liberare (politicamente) in maniera definitiva Israele.
Ne erano certi; innumerevoli nella Torah le profezie che ne preannunciano la venuta, ed anche il tempo di questa: Isaia, Geremia per citare gli esempi più noti, ma soprattutto Daniele con le sue “Settanta Settimane”.
Gesù dunque, la domenica che precede la Pasqua ebraica, come ogni pio ebreo si reca a Gerusalemme e, nella discesa che porta dalla sommità del Monte degli Ulivi verso la Valle del Cedron, non può non ammirare la maestosità del Tempio.
Ai Farisei che lo pregano di zittire la folla festante per il suo arrivo, risponde con un avvertimento che, ancora oggi, fa letteralmente rabbrividire chi conosce la futura sorte di Gerusalemme.
Luca 19,40:
“Vi dico che se costoro taceranno, grideranno le pietre.”
E cosa fa subito dopo?
Piange.

Piange per la sorte che toccherà alla città profetizzandone la distruzione.
Citiamo il passaggio 19,43:
“…Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno intorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte…”

Ancora oggi il pellegrino devoto, prega nella chiesa del “Dominus Flevit”, il piccolo gioiello di Antonio Barluzzi che ci ricorda su quel Monte degli Ulivi il luogo tradizionale del pianto, la profezia terribile, ma anche tutto l’amore che Gesù mostrava per il Tempio, la Casa del Padre.
Tre volte al giorno oggi il pio ebreo prega: “Possa essere la tua volontà che il Tempio sia presto ricostruito in questi giorni!”.
Ma oggi sulla spianata che fu del Tempio sorgono due moschee: impossibile ricostruirlo a meno di voler affrontare l’ira, già preannunciata, di tutto l’islam.
E’ bene che anche il pellegrino cristiano rifletta sulla immane tragedia ebraica e gerosolimitana.

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