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Pubblicato il 14/11/2021

RASSEGNA STAMPA: ANALISI DEL PROF. GASTONE BRECCIA SUI TALEBANI CHE NON SONO CAMBIATI

**Il professor Breccia, livornese, ora docente universitario a Pavia, è un amico col quale abbiamo condiviso un lungo viaggio in Afganistan nel 2012 e un paio di altrettanto lunghi allenamenti di corsa,nel perimetro di Farah e di Herat ( è un maratoneta da 2,30 sui 42 chilometri), mentre scriveva un trattato sulla guerriglia antica e moderna. E’ stato ospite della Folgore per oltre 40 giorni per documentarsi. Lo stesso ha fatto con gli eventi bellici in Kurdistan. Un intellettuale con gli scarponi e lo zaino. walter amatobene

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I TALEBANI FATICANO A GESTIRE LA SICUREZZA INTERNA. E IL PAESE È SULL’ORLO DEL BARATRO
Prima Pagina
Afghanistan / L’analisi


QUEI VINCITORI SOTTO FALSA BANDIERA

I TALEBANI FATICANO A GESTIRE LA SICUREZZA INTERNA. E IL PAESE È SULL’ORLO DEL BARATRO
GASTONE BRECCIA

Le immagini e le testimonianze che arrivano dall’Afghanistan sono un mosaico di contrasti difficile da decifrare, sempre più distante e sfocato: in alcune la vita scorre apparentemente normale, mentre altre ci dicono che la gente è alla fame; i giovani guerriglieri di pattuglia sembrano tranquilli – c’è chi racconta di averli trovati persino amichevoli – ma è stata assassinata Frozan Safi, docente di economia e attivista per i diritti umani; le donne vivono confinate in casa, eppure alcune di loro hanno avuto il coraggio di scendere in piazza a protestare contro l’esclusione delle figlie dalle scuole; le banche sono quasi sempre chiuse e gli scambi commerciali bloccati, ma circolano auto e minibus pieni di gente. Di quello che sta realmente accadendo nel paese sappiamo poco e comprendiamo ancora meno. Proviamo a mettere dei punti fermi.


Primo: i Talebani non sono cambiati rispetto a vent’anni fa. Certo chi tra loro è sopravvissuto alla Long War è invecchiato, e molti altri sono diventati adulti e hanno imparato a combattere dopo il 2001: ma idee e obiettivi del movimento sono gli stessi. Perché mai, del resto, avrebbero dovuto cambiare? I Talebani, termine che significa «quelli che cercano», «che si sforzano» di ottenere qualcosa, hanno scelto di vivere secondo un’interpretazione particolarmente rigida della sharia, la legge islamica, per ottenere il favore di Allâh; per questo, nella loro ottica, sono stati premiati col frutto più dolce che possa cogliere un guerriero, ovvero la vittoria completa contro un nemico più forte: cambiare strada adesso sarebbe illogico, e sembrerebbe a molti di loro un comportamento simile a un sacrilegio.


Secondo: l’Afghanistan è cambiato, e anche i Talebani ne sono consapevoli. In un documento ufficiale pubblicato il 16 settembre una commissione distrettuale dell’Emirato ordinava, tra l’altro, alle donne di non portare con sé telefoni dotati di fotocamera; agli uomini proibiva invece di farsi tagliare i capelli «alla francese e all’inglese», e di conservare canzoni e film «immorali» nella memoria dei loro cellulari. Sono piccoli segnali rivelatori: vent’anni non sono passati invano, e sarà certamente più difficile per i Talebani riprendere il controllo completo della situazione. Ancora più difficile potrebbe rivelarsi cancellare abitudini ormai diffuse, legate ai nuovi mezzi di comunicazione: forse non sarà un selfie a seppellire gli “studenti coranici”, ma il problema della circolazione di notizie e immagini esiste.


Terzo: il movimento dei Talebani è diviso in due correnti in lotta tra loro. Da una parte c’è l’ala dura della cosiddetta “rete Haqqani”, gruppo fondamentalista alleato di al-Qaeda e guidato da Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno del governo talebano, che controlla un battaglione di élite equipaggiato con uniformi e armi statunitensi noto come Badri-313; dall’altra ci sono i moderati che riconoscono come proprio leader il mullah Yaqub, figlio del mullah Omar, fondatore del movimento, e il mullah Baradar, primo responsabile della firma degli accordi di Doha del 29 febbraio 2020. Il mullah Yaqub, ministro della Difesa ad interim, secondo alcuni starebbe tentando di eliminare gli affiliati alla “rete Haqqani” dai posti di responsabilità nell’apparato militare talebano; i membri della “rete”, dal canto loro, potrebbero sfruttare la mancanza di sicurezza per screditare gli avversari, ampliare il proprio controllo del territorio e impedire qualsiasi apertura verso il mondo esterno.


Quarto: i Talebani, se vogliono sopravvivere, devono sconfiggere l’Is-Kp, lo «Stato Islamico nella provincia del Khorasan», nome tradizionale utilizzato dai seguaci dell’Isis per indicare il territorio afghano. È il solo modo che hanno per mantenere la promessa che ha consentito loro di vincere la guerra, ovvero garantire la sicurezza della popolazione; è anche il solo modo per ottenere il riconoscimento internazionale di cui hanno estremo bisogno. Devono farlo in fretta e con efficacia, ma senza apparire alla comunità dei fedeli musulmani come una longa manus dell’Occidente.

Questo è il nodo cruciale, al momento.

L’Is-Kp il 2 novembre ha messo a segno un attentato nel cuore di Kabul dando l’assalto all’ospedale militare Sardar Mohammad Daoud Khan; nel contrattacco guidato da uomini della Badri-313 è rimasto ucciso Hamdullah Mukhlis, comandante delle forze talebane nella capitale, primo tra gli esponenti di spicco del movimento ad entrare nel palazzo presidenziale il 15 agosto 2021. Fonti vicine alla resistenza anti-talebana parlano di una possibile resa dei conti interna alla “rete Haqqani”: in questo caso l’intera operazione, condotta in uno dei luoghi più sorvegliati di Kabul con modalità diverse dai tipici attentati suicidi dell’Is-Kp, non sarebbe da attribuire a membri dello Stato Islamico, ma a dissidenti talebani sotto “falsa bandiera”. Che possano esistere simili dubbi dà la misura delle difficoltà che stanno incontrando i vincitori di agosto a gestire la situazione interna: anche perché ci sono decine di migliaia di uomini, già arruolati nell’esercito e nelle forze di polizia del governo di Ashraf Ghani, che sono semplicemente tornati a casa, disposti a iniziare una nuova vita, ma si trovano senza stipendio, senza prospettive, senza dignità. Alcuni di loro, questo è certo, stanno prendendo contatto con l’Is-Kp, al quale possono regalare grandi vantaggi dal punto di vita della conoscenza del territorio e dei contatti con la popolazione; altri stanno aspettando di capire cosa accadrà nel lungo inverno che si prospetta.


Le tessere che compongono il mosaico mostrano un paese sull’orlo del baratro, dove è imminente una vera e propria catastrofe umanitaria. La responsabilità non è soltanto dei Talebani. È difficile ammetterlo, ma il caos, l’economia in ginocchio, la prospettiva di vedere migliaia di afghani morire di fame sono gli ultimi frutti avvelenati lasciati dalla guerra dei vent’anni, combattuta per cacciare gli “studenti coranici” dal paese e finita con il loro ritorno al potere. Sempre che la guerra sia finita davvero: perché questa è l’incertezza più grande.

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