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Pubblicato il 08/04/2018

RASSEGNA STAMPA: GQ ITALIA PARLA DEL CORSO DI SPECIALITA’ DELLA FOLGORE

Pubblichiamo in ritardo un articolo che parla del MODULO KS, ovvero il “corso di specialità” riservato a chi vuole accedere al corso lanci e successivamente alla Folgore.
Il mio addestramento con i parà della Folgore
5 Aprile 2017
di Marco Petrelli per GQ ITALIA

Livorno, 06.45 del mattino. Il sole è appena sorto ma eccoli già lì pronti, schierati, elmetto in testa e arma individuale in pugno: sono i volontari in ferma prefissata di un anno (VFP1) dell’Esercito Italiano che aspirano ad indossare il basco amaranto della Brigata Folgore, cimentandosi in un iter di addestramento (modulo KS) che ha pochi eguali nelle Forze Armate.

I volti tirati, gli occhi stanchi ma ancora forza nelle gambe: corrono da un lato all’altro della caserma con l’equipaggiamento addosso, senza mai fermarsi. Cosa li spinge a sostenere una prova così ardua? Per capirlo ho fatto una scelta radicale: calarmi nei loro panni e vivere, per qualche giorno, in mezzo a loro.

La vestizione. “Parte dell’equipaggiamento che riceverà non è più in uso, ma viene comunque sfruttato perché l’allievo impari velocemente a sopportare stress e disagi”. E in effetti, una volta vestito, assomiglio al soldato Joker di Full Metal Jacket, con la cintura del gibernaggio che proprio non vuole saperne di restare allacciata e che provoca uno stress, appunto, al quale è bene mi adegui anche io…

Lezione. Non è la prima volta che metto piede in una base militare ma la situazione vissuta alla caserma “Gerardo Lustrissimi” è completamente diversa rispetto al passato e non tanto per quello che indosso. Per sentirmi parte della 1° Compagnia Pantere, infatti, devo avere nozioni da allievo: topografia, cura dell’equipaggiamento e cercare di capire a cosa serva quel “mattone” di zaino che ti tiri dietro:

“L’uniforme serve a sopravvivere, lo zaino a portare a termine il lavoro, il gibernaggio a combattere. Ciò che sta nello zaino e addosso va stagnato. Mi raccomando, stagnare tutto!” ripete il sergente maggiore che mi segue e dal quale ricevo anche rudimenti d’uso dell’arma in dotazione. Attenzione, durante l’intera sessione d’addestramento non ho tirato un colpo, ma è bene che mi sia chiaro di cosa disponga l’Esercito Italiano.

Valle Ugione. La parte più faticosa ma più eccitante dell’iter si chiama Valle Ugione, grande area addestrativa a pochi chilometri dal centro di Livorno e dominata da fitta e rigogliosa vegetazione, immersa in un silenzio interrotto, qua e là, dal corso dei ruscelli. E dove tutto, Natura in testa, ha la funzione di testare la resistenza degli allievi paracadutisti. Si comincia presto a mettersi alla prova: al calare del sole mi attendono il “Puma”, il “Cinghiale” e la “Pantegana” da superare in gruppo, anzi in team:

“Rambo non lo vogliamo, occorre invece un militare che sappia coordinarsi con gli altri perché un addestramento simile puoi superarlo solo se ti abitui a ragionare in squadra”.

È notte fonda quando l’acqua del torrente si infila nelle scarpe e, piano piano, sale fino alla cintola: il livello non è alto ma il fondale fangoso fa affondare il piede e inzupparsi completamente è un attimo. Avanziamo seguendo un letto lungo appena poche decine di metri, tutte però sudate dalla prima all’ultima: lo zaino, l’elmetto, la melma sotto i tacchi, gli arbusti che coprono segmenti di percorso costringendoti a fermarti per rimuoverli. E il simulacro che non ti dà pace: sì perché nell’ottica di imparare a gestire disagio e stress, il fucile disattivato (non spara, nda) che ci hanno dato mette a dura prova la pazienza infilandosi dappertutto mentre da sopra una voce ripete:

“Tenere l’arma fuori dall’acqua!”

Eh sì, una parola…

Il cunicolo. Via lo zaino, fucile a terra, mascherina: la “Pantegana” è un labirinto buio e stretto dal quale si esce seguendo un filo. Si striscia facendo leva su braccia e gambe e cercando di stare “al passo” di chi ti precede con la speranza abbia imboccato la via maestra. Non c’è un premio per chi arriva primo, poiché la prova serve a testare spirito di adattamento ed auto controllo in ambienti angusti.

Mappa. Le notti di Valle Ugione paiono interminabili come gli esercizi ai quali si è sottoposti. C’è anche il campo minato, laddove le mine sono fili collegati a lampade led e a scariche di petardi che scoppiano al minimo errore: solo nella prima fila in tre facciamo scattare qualcosa al quale segue un severo cicchetto degli istruttori. Una severità non per l’errore in sé, semmai per non aver avuta sufficiente attenzione a pericoli che in teatro operativo possono mettere a rischio l’incolumità dell’intero plotone.

Mappa. Il lavoro di squadra resta, insomma, leit motiv ricorrente e che non mi abbandona manco nella prova notturna di orientamento, un su e giù per le campagne livornesi con zaino e arma:

“Al RAV (Reggimento Addestramento Volontari) si marciava con poco più di dieci chili e non per così tanto tempo!” ammette M., volontario veneto che mi aiuta a capire la differenza fra la prima fase di vita del VFP1 e l’arrivo alla “Lustrissimi”. Nei tre mesi di addestramento al RAV, infatti, gli allievi apprendono i rudimenti della vita militare prima di essere assegnati ai reparti o, nel caso di M. e dei suoi commilitoni, prima di fare domanda per la Folgore. Sì, perché fare il paracadutista è una scelta fortemente motivata dalla volontà della persona che, spontaneamente, chiede di poter partecipare alle selezioni.

Ci siamo persi? Sì, ci siamo persi. E non è la prima volta in questa nottata fredda e un po’ ventosa. Anche qui, l’arrivare primi vale fino ad un certo punto, perché il mantenere la calma e il sapersi coordinare sono i risultati migliori che puoi ottenere.

È vero, la “passeggiata” non è eccitante quanto il “Puma” ma mi lascia i ricordi più belli: l’attenzione per chi resta indietro, la condivisione della fatica e dei problemi, lo stare insieme e il cercare di capirsi fra persone che non si conoscono ma che loro malgrado devono imparare a fidarsi gli uni degli altri, in addestramento come in teatro operativo.

Arrivo in branda che il sole fa capolino all’orizzonte; ho il fango fino alle caviglie e una doccia calda ha sullo spirito l’effetto di un’oasi nel Sahara. Riposo qualche ora, giusto il tempo per rivedere i miei “commilitoni” schierati ancora una volta nel cortile della caserma: pulizia armi e, dopo il pranzo, finalmente relax. Forse… Un ultimo, duro sforzo coerente al motto della 1° Compagnia:

“Vince sempre chi più crede, chi più a lungo sa patir“.

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