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Pubblicato il 19/06/2020

RASSEGNA STAMPA: L’ ESPRESSO PARLA DELL’ISTITUTO FARMACEUTICO MILITARE DI FIREZE-

farmacisti militari che creano le medicine salvavita per chi ha una malattia rara

A Firenze c’è un centro chimico della Difesa che ha quasi due secoli ma produce medicine attualissime, dalla marijuana alle pillole contro il coronavirus. E soprattutto i farmaci “orfani” considerati dalle aziende più remunerativi

di Floriana Bulfon
18 giugno 2020

La concertina di filo spinato corre per centinaia di metri in mezzo alla periferia nord di Firenze. Sembra un residuato bellico, invece custodisce armi indispensabili: i farmaci. Noi le avevamo dimenticate, riscoprendole solo con l’epidemia. In questo baluardo della collettività invece non hanno mai smesso di occuparsene. Dai camici bianchi spuntano mostrine colorate, nell’unica officina farmaceutica di Stato c’è un’osmosi di competenze. Graduati di truppa e ufficiali, operai e laureati miscelano, combinano e distillano senza sosta per far fronte alla pandemia.

Nei corridoi dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare si respira la storia: “Tavolette compresse” di chinina cloridrato, scatole ingiallite di canfora, alambicchi e distillatori per droghe in rame e ottone. La nascita risale al Regio Viglietto di Re Carlo Alberto del 1832 ma la vocazione militare diventa presto civile.

A inizio del secolo scorso vede la luce il Chinino dello Stato per combattere la malaria nell’Italia unita e oggi un’ala del pian terreno è colma di taniche da cinque litri di soluzione idroalcolica: disinfettante per le mani che viene mandato negli ospedali. «Abbiamo iniziato con 800 litri, poi mille, ora siamo a oltre 2 mila al giorno», spiega Simone Taccetti, per tutti “l’ultimo dei Mohicani”. È entrato come allievo operaio nel 1986 a 16 anni quando c’era ancora la scuola interna di formazione. Travasa e impacchetta insieme a Giuseppe Mirra, un parà della Folgore rientrato da una missione in Afghanistan. Sotto al camice la mimetica e una certezza: «Veniamo da esperienze diverse, ma ci unisce l’essere al servizio della comunità».

Velocità e flessibilità, come per le forze d’assalto. Cosa serve? Il gel? Produciamolo! Tremila flaconi al giorno. Alcuni lotti li hanno confezionati con una partita di merce di contrabbando: 4.700 litri di alcool etilico sequestrati dalla Guardia di finanza a Monopoli. Oggi c’è la necessità di tracciare i nuovi positivi al Covid 19, di fare i tamponi rapidamente e su larga scala. Mancano i reagenti? Stanno organizzando «in collaborazione con l’università di Firenze e l’azienda ospedaliera di Careggi una produzione pubblica e a basso costo», spiega il colonnello Antonio Medica, il direttore dello Stabilimento. Ha 55 anni, è arrivato qui come soldato per la leva e c’è rimasto per l’intera carriera dopo il concorso da ufficiale chimico-farmacista. Alle emergenze sono abituati. In seguito all’incidente di Chernobyl sono stati gli unici in Europa a creare in tempo record un milione di pillole di ioduro di potassio e da allora ogni due anni preparano la scorta strategica. Antidoti che finiscono in trenta magazzini d’Italia pronti in caso di attacchi bioterroristici e calamità nucleari. Nel 2009 invece hanno preparato più di 30 milioni di capsule di un antivirale per fronteggiare una possibile epidemia di influenza aviaria.

Ma c’è un’emergenza che non si ferma mai: distribuiscono quotidianamente “farmaci orfani” e non hanno smesso di farlo per il lockdown. Sono quelli che le aziende private smettono di fabbricare perché “non più convenienti”, anche se sono fondamentali per la vita di tremila persone. Curano malattie rare che spesso colpiscono i bambini, destinati a passare la loro esistenza combattendo una doppia battaglia, contro la malattia e contro l’indifferenza di un mondo che non si accorge neppure della loro sofferenza. Bambini che hanno i muscoli incapaci di sorreggerli, costretti a vivere con malattie a cui si può dare solo un nome e non una terapia.

Per loro i soldati di Firenze sono angeli custodi, che fanno arrivare le medicine direttamente agli ospedali. «Dipendiamo dall’Agenzia Industria e Difesa e sopperiamo alle carenze che si possono verificare. Il prezzo di vendita ha lo scopo esclusivo di permettere il sostentamento della struttura. Noi non dobbiamo fare profitti, ma garantire il pareggio di bilancio, perciò reinvestiamo tutti gli utili», chiarisce il colonnello Medica. Cifre simboliche per coprire le spese e dare speranza.

Beatrice ha un nemico: la bilirubina all’interno del globulo rosso. Per sopravvivere trascorre metà della sua giornata dentro una macchina ingombrante. «Quando è arrivato un medicinale in grado di catturare la bilirubina, con le dovute ore di esposizione alla fototerapia e gli opportuni dosaggi riuscivo a concedermi qualche ora di libertà sui prati estivi a guardare le stelle, qualche gita romantica, le emozioni che vivono tutti», racconta. Poi piombano di nuovo le ombre, la ditta che produce quel medicinale per lei indispensabile decide che non conviene più continuare.

Beatrice oggi è la prima bimba italiana con la sindrome di Crigler Najjar a diventare donna e mamma e ricorda ancora l’incontro con lo Stabilimento: «Il volto illuminato di mio padre come una stanza in una mattina d’estate. La sua voce tremante a fatica è riuscita a dire: “Lo faranno anche se siamo pochi, anche se siamo soli e lo riprodurranno ogni volta che ne avremo bisogno”». Scatole di principio attivo che possono permettere una rinascita.

La cura trova l’essenza nelle persone che la producono. Tanti ex voto laici, racchiusi nelle lettere appese alla parete. Quella di Stefania riporta la data del 2 giugno. «Ho avuto la fortuna di conoscere lei, maresciallo, persona che è difficile descrivere con un solo “grazie” ma un uomo che ha messo a disposizione il suo tempo di festa per mettere nelle nostre mani quattro flaconi». Il marito Sergio è affetto da aritmie maligne e grazie alla mexiletina la sua qualità della vita è migliorata.

Carmine Borzacchiello, infermiere dell’aeronautica, è un compagno di viaggio di pazienti, familiari e medici. Il suo telefono squilla continuamente. Dall’altro capo l’ansia di nonna Lucia che teme «di perdere il marito per colpa dell’egoismo», il farmacista Mauro di Cantù che cerca di aiutare un suo cliente appena dimesso dall’ospedale San Raffaele di Milano, Cristiano di Monza che vuole ringraziare «questi eroi sconosciuti».

La pandemia non li ha fermati. Il caporale maggiore Ivo Rizza durante gli ultimi due mesi ha percorso 5 mila chilometri e si commuove pensando al primo maggio: «Io e il luogotenente Borzacchiello abbiamo fatto una corsa fino all’ospedale Santo Spirito di Pescara. Un bambino aveva ingerito un solvente a base di rame trovato in cantina ed era in fin di vita». A salvarlo è stata la D-Penicillamina che creano qui. «Nel posto giusto», come lo definisce Paolo Giannotta. Dopo la laurea in farmacia ha mandato un curriculum, l’hanno preso per il tirocinio e poi ha vinto il concorso: «Lavoro per quello che ho studiato, sento di fare qualcosa che non è legato alle sole dinamiche di profitto».

Il suo mondo è oltre una stanza di sovra-pressione. Cuffia, tuta, calzari, guanti e una mascherina simile alle FFp3 a cui ormai siamo abituati. Con lui altri coetanei. Trentenni tecnici biologici e periti chimici, tutti civili. «Produciamo anche per 25 pazienti, ma con regole farmaceutiche. Sento di dare un senso alla cura», racconta Ilaria Fusi mentre consegna le medicine alla caporale maggiore Deianira Mele: «La nostra è una staffetta al servizio delle famiglie». Lavora allo Stabilimento dal 2016, viene dal reggimento Genio guastatori, in prima fila nei soccorsi durante terremoti e alluvioni. Dietro di loro una foto ritrae le donne al lavoro negli anni Quaranta. «Allora come oggi siamo la maggioranza», sorridono con orgoglio.

In questo laboratorio da pochi giorni hanno prodotto anche il primo lotto di idrossiclorochina, il farmaco prima bocciato dall’Oms e poi riammesso ai test tra le polemiche, comunque prescritto da molti medici per i malati di Covid e considerato quasi una panacea dal famoso infettivologo francese Didier Raoult. Il ministero della Salute ha chiesto di studiare la formulazione di quello già in commercio per una sperimentazione e qui si sono dati da fare per ricrearlo. «Ogni volta che ci arriva la richiesta per un farmaco è una sfida, dobbiamo capire come adattare i processi produttivi, valutare le difficoltà e allo stesso tempo essere pronti ed efficienti», spiega il colonnello Stefano Mannucci, a capo della produzione.

Dall’autunno del 2014, dopo l’accordo tra i ministeri della Difesa e della Salute, hanno anche il monopolio della produzione di cannabis per uso medico: 150 chili l’anno di inflorescenze essiccate, ma l’obiettivo è arrivare almeno al doppio perché sono tanti i pazienti costretti a rivolgersi al mercato estero, soprattutto olandese. Un’ala è in costruzione e stanno realizzando nuovi estratti oleosi, più pratici per le cure. Le serre sono camere bianche. Dentro l’odore intenso e dolciastro stordisce. Per entrare porte blindate, videosorveglianza. Tutto è sterile e computerizzato con una rete chiusa per timore di incursioni. Le lampade blu e rosse illuminano le talee ad orari stabiliti, simulando il ciclo del giorno. Il sistema di irrigazione è collegato ai monitor, la terra artificiale per non avere alcune contaminazione. «Quando arrivano al tempo balsamico, il punto di maturazione, le piante sono tagliate e appese a testa in giù per far andare tutto il principio attivo verso i fiori», spiegano Giorgia Brunetti, rientrata dopo un’esperienza in un laboratorio americano, e il biologo Giorgio Fagiana. Una volta seccati li triturano e pesano.

Alla fine del ciclo escono barattolini tondi di plastica con cinque grammi di cannabis. «Dobbiamo arrivare a un prodotto farmaceutico standard, con una determinata quantità di principio attivo per grammo. Va inviato nelle case di malati, deve essere sicuro», chiarisce il colonnello Mannucci. Il numero delle persone in trattamento è in crescita: nel 2013, primo anno in cui la cannabis è entrata timidamente nei sistemi sanitari regionali, il consumo era appena di 35 chili. Ora la richiesta è di 700 chili. «Oggi l’organico è di 85 persone, quando sono entrato nel 1990 eravamo in 270», racconta il direttore Medica. «Eppure la difesa della salute pubblica e la tutela del malato sono due missioni nelle quali è possibile esprimere al meglio i valori di eticità e di servizio per il Paese».

Questa struttura un tempo era una cittadella autosufficiente. Le torri con la riserva dell’acqua, la centrale termoelettrica, le officine meccaniche. Si scorge ancora la scritta sbiadita della falegnameria. L’edera ha coperto i binari. Accanto corre l’alta velocità all’altezza della Stazione Rifredi, ma fino agli anni Novanta i treni entravano fino ai laboratori. Era uno snodo logistico per far partire immediatamente in farmaci. «Abbiamo toccato con mano l’importanza di poter disporre di una produzione nazionale di mascherine, reagenti, disinfettanti», ragiona Medica.

Per il ministro della Difesa Lorenzo Guerini occorre riflettere: «La capacità operativa delle nostre forze armate non può essere data per scontata. Serve avviare un dibattito pubblico scevro da ipocrisie evitando il rischio che una volta passata l’emergenza da coronavirus nella percezione collettiva le spese per la Difesa vengano giudicate superflue o non necessarie. Condizionando in questo senso anche le decisioni di parte della politica. Sarebbe un errore gravissimo, che non ci possiamo permettere».

Per la sanità militare si spende lo 0,32 per cento del budget del Servizio sanitario nazionale: ma la pandemia ha fatto capire a tutti come gli ospedali da campo, gli aerei con le barelle isolate per i contagiati, i sanificatori per le residenze anziani, i medici e infermieri con le stellette siano un’arma strategica. Su cui conviene investire, per la salute di tutti.

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